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Premessa
Il titolo della tesi non deve trarre in inganno: “La Domenica Sportiva”, storica
trasmissione della Rai dal 1953, è citata per un semplice gioco di parole. Il dì di festa di
leopardiana memoria resta, infatti, il momento per eccellenza delle battaglie sportive,
quello in cui si scaldano i motori per le gare di Formula Uno o MotoGp e scende in
campo la Serie A, mentre, in contemporanea, i campioni del tennis si giocano una finale
prestigiosa e i ciclisti si sfidano nelle grandi corse. È un codice che persiste
nell’immaginario collettivo, anche se, negli ultimi anni, è stato messo in discussione
dalle esigenze televisive, con lo sport diventato un appuntamento pressoché quotidiano.
Il paradigma della sottomissione alla dea Televisione è rappresentato dal campionato
italiano di calcio, ormai adeguatosi al vezzo internazionale del cosiddetto “spezzatino”,
cioè la distribuzione delle partite, ovviamente con orari prestabiliti e non estranei alla
logica dello share, su più giorni.
L’universo sportivo contemporaneo, vincolato al vil denaro e alla tecnologia,
scosso da futili polemiche e da un virus assai difficile da debellare come il doping,
sembra in apparenza molto distante dall’epos delle origini. Ma, proprio in un contesto
così ostile, le trasmissioni sul racconto sportivo in chiave epica si sono ritagliate uno
spazio considerevole nei palinsesti televisivi, raccontando i campioni del passato,
rispolverando le storie entrate nel mito, nella leggenda.
Proprio da appassionato e attento osservatore di programmi come “Sfide”,
“BuffaRacconta” e “Heroes”, a metà tra il documentario e la pièce teatrale, ho scelto la
narrazione epica delle gesta sportive come argomento per la mia tesi, con l’intimo
desiderio di provare a convincere i più scettici sull’importanza sociale dello sport,
troppo spesso considerato uno svago, un divertimento, talvolta, parafrasando Karl Marx,
un moderno oppio dei popoli. In realtà, come vedremo, esso è un prezioso strumento
aggregativo e riflette la cultura di ogni paese.
Nel primo capitolo faccio un’analisi sociologica del fenomeno sportivo,
soffermandomi poi sulle caratteristiche del suo linguaggio, da sempre molto vicino a
quello dei poemi epici. Gli eroi cantati da Omero sono associati agli atleti
contemporanei per le trame complesse che contraddistinguono le loro parabole
esistenziali, spesso dominate dal motivo ricorrente del tragico.
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Nel secondo capitolo approfondisco sei sport (atletica, calcio, ciclismo,
motociclismo, rugby e tennis), i più epici, almeno secondo me. Prendendo spunto dalle
cronache romanzate di Giorgio Cimbrico, Gianni Mura, Gianni Brera e Gianni Clerici e
dai ritratti di Claudio Costa, presento alcuni degli incredibili eventi che hanno segnato
la storia di queste discipline. Il risultato finale è un’antologia di racconti, in cui lo sport
triangola con la politica, la storia e le altre grandi materie della società umana. Non
sorprende allora che, accanto ai nomi dei miti sportivi, compaiano anche quelli di
famosi presidenti, terribili dittatori, poeti o musicisti, i quali, direttamente o
indirettamente, hanno avuto a che fare con lo sport.
Nel quarto e ultimo capitolo confronto i programmi televisivi di cui sopra, con
una rilettura di puntate emblematiche incentrate su campioni, duelli, episodi leggendari.
A raccontarli i cantastorie del presente, maestri nel valorizzare, ognuno con il proprio
stile, qualsiasi vicenda sia oggetto della loro affabulazione. Mi sono messo in contatto
con due di questi storyteller, Federico Buffa e Giorgio Terruzzi, volti noti
rispettivamente di Sky e Premium Sport, e con Simona Ercolani, ideatrice e curatrice
del programma di Rai 3 “Sfide” e, alfine, ho realizzato tre interviste su temi, dinamiche
e sviluppi futuri del racconto sportivo, che riporto nel terzo capitolo come introduzione
allo studio delle loro trasmissioni.
Da questa tesi emerge che, contrariamente a quanto si pensi, l’epica sopravvive
grazie allo sport e a chi ne narra le gesta. Omero dice che «non c’è gloria più grande per
uomo che mostrare la leggerezza dei suoi piedi e la forza delle sue braccia» e gli atleti,
con le loro imprese, rappresentano le icone dell’eroismo contemporaneo. L’epos non si
è quindi fermato ad Achille, Ulisse o a re Artù, riscoprendo se stesso all’interno dello
sport, motore perpetuo che muove le persone e scatena le passioni collettive. Vedere per
credere l’episodio controverso tra Valentino Rossi e Marc Marquez dello scorso ottobre,
diventato per i due paesi coinvolti, l’Italia e la Spagna, una questione politica che ha
chiamato in causa persino le più alte cariche istituzionali.
«Lo sport ha il potere di cambiare il mondo. Ha il potere di ispirare. Esso ha il
potere di unire le persone in un modo che poche altre cose fanno. Parla ai giovani in una
lingua che comprendono. Lo sport può portare speranza dove una volta c’era solo
disperazione». Sono parole di Nelson Mandela. Mi sembrano le più belle per introdurre
la mia tesi.
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1. Sport ed epica: un legame indissolubile
Nella contemporaneità è molto difficile trovare qualcosa di più epico dello sport,
del racconto delle imprese dei grandi atleti. L’epica (dal greco epos, “parola”,
“racconto”) è, infatti, secondo la definizione che ne dà l’enciclopedia Treccani, «la
narrazione di gesta eroiche, spesso leggendarie, di un eroe o di un popolo». È fatta di
titaniche sfide, di rovinose cadute e inaspettate risalite, di emozioni indimenticabili. Lo
sport vive di tutto ciò soprattutto a livello professionistico, ma anche nella quotidianità,
dove sono in tanti che, praticando attività agonistiche, convivono con difficoltà
economiche e strutturali di difficile risoluzione. Anche questa è a suo modo un’epica,
sebbene non venga trattata dai media alla stessa stregua dei miti sportivi.
Lo sport va aldilà di una singola gara, di una vittoria o sconfitta e si erge a
emblema culturale di un popolo e della sua identità. Esattamente la medesima funzione
che avevano i poemi epici nella Grecia Antica, nel Medioevo o nel Rinascimento. Altro
che passatempo, verrebbe da dire, a chi continua a rivolgersi allo sport con occhio
superficiale, sottolineandone l’aspetto ludico, senza capire cosa significhi realmente il
calcio per un italiano o per un sudamericano, il football per un americano, il rugby per
un gallese.
Il racconto sportivo, spesso snobbato in Italia, è, dunque, un genere giornalistico
di primaria importanza. Lo è stato in passato, quando gli inviati della carta stampata
erano i soli testimoni delle imprese degli atleti, lo è tutt’oggi, anche se la televisione ha
portato i grandi eventi nelle case della gente. Secondo Massimo Calandri, giornalista
della «Repubblica», per cui scrive di rugby e motomondiale, la professione del cronista
sportivo è diventata ancor più difficile, senza tuttavia perdere il proprio fascino:
Per quanto mi riguarda, cerco sempre di trovare un dettaglio, un particolare, che spero non
tutti abbiano notato e che mi permette di fotografare al meglio la situazione.
Obiettivamente non è semplice, anche perché spesso ti trovi coinvolto in contesti
straordinari e posso assicurare che è difficile mantenere la calma e governare le emozioni.
Per esempio, ogniqualvolta seguo la Nazionale italiana di rugby al “Millennium Stadium”
di Cardiff, mi si bagnano gli occhi alla vista di un intero stadio vestito di rosso che canta
all’unisono l’inno in gaelico
1
.
1
Da Fausto Coppi a Valentino Rossi, c’è ancora epica nello sport?, Repubblica delle Idee, 6 giugno
2015.
4
Nelle discipline individuali l’atleta-eroe emerge con più facilità, ma anche in
quelle di squadra sono i campioni, i giocatori più talentuosi e rappresentativi, a prendere
in mano la situazione e a risolvere la contesa, spesso dopo scontri individuali con i
leader del team avversario. Ed è alla fine ciò che avviene nell’Iliade di Omero, in cui la
“partita” tra achei e troiani è decisa in favore dei primi grazie soprattutto all’intervento
di Achille
2
e alla sua vittoria su Ettore. La presunta diversità tra sport singoli e sport di
squadra non sembra trovare d’accordo Calandri:
A mio parere non c’è differenza nel raccontare un evento epico. In un racconto il
personaggio ha un valore, così come può averlo un’intera squadra. È vero, forse, che per il
pubblico italiano è più facile raccontare l’epica del personaggio, visto che storicamente
nella nostra cultura si tende a prediligere il colpo di coda, il genio individuale, rispetto al
metodo di sacrificio e al lavoro di gruppo proprio di una squadra. Ma è altrettanto vero che,
quando una squadra vince, siamo sempre pronti a salire sul carro dei vincitori
3
.
1.1. Lo sport come “fatto sociale totale”
Anche se le gesta dei miti dello sport non sono cantate in esametro dattilico
4
il
linguaggio sportivo risulta coinvolgente e carico di pathos: mediante i tecnicismi che
caratterizzano le singole discipline, mediante l’uso di uno stile formulare, tipico della
narrazione epica per via delle ripetizioni e degli epiteti, mediante la tendenza a servirsi
di iperboli e metafore, mediante l’enfatizzazione degli aggettivi e, infine, mediante i
richiami ad aspetti di contorno, solo in apparenza secondari, che giustificano la
definizione di sport come “fatto sociale totale”
5
.
Esso è, infatti, una lente del mutamento sociale, uno stile di vita, un modello di
comportamento e un veicolo comunicativo. Ma è soprattutto una quotidiana passione
che regola le relazioni collettive, avvicinando o allontanando gli individui. Un certo
Nelson Mandela diceva che «lo sport è più potente dei governi nell’abbattere le barriere
razziali»
6
. Ed è proprio un evento sportivo, la Coppa del Mondo di rugby del 1995 vinta
dal Sudafrica padrone di casa, a fornire un contributo decisivo a Mandela nel processo
2
Nell’Iliade Achille si rifiuta inizialmente di prendere parte alla battaglia con i troiani perché offeso
nell’onore da Agamennone, che ha preteso con autorità la sua schiava Briseide. Soltanto la morte
dell’amico fraterno Patroclo, ucciso da Ettore, convince il “Pelide” a intervenire per mettere in pratica il
suo piano di vendetta.
3
Da Fausto Coppi a Valentino Rossi, c’è ancora epica nello sport?, Repubblica delle Idee, 6 giugno
2015.
4
È il verso più diffuso nella poesia greca e latina, utilizzato in particolare per l’epica.
5
Concetto coniato da Marcel Mauss (1872-1950), antropologo e sociologo francese, per indicare quei
particolari fatti che influenzano ogni aspetto della società.
6
John Carlin, Ama il tuo nemico, Milano, Sperling & Kupfer, 2009, p. 10.
5
di aggregazione di un popolo, quello sudafricano, reduce da quasi mezzo secolo di
apartheid e sull’orlo della guerra civile tra la minoranza bianca e la maggioranza nera.
Il primo Giro d’Italia del dopoguerra, partito da Milano il 15 giugno 1946 a
meno di quattordici mesi dalla fine delle ostilità, vede un paese ancora in macerie,
pronto comunque ad applaudire i suoi campioni. È chiamato il “Giro della
ricostruzione” e rappresenta il ritorno alla normalità o, perlomeno, il primo vero
tentativo di rialzarsi. Se la geografia dell’Italia è parsa fino a quel momento frantumata
in varie parti, spetta proprio al Giro ricucirla in un’unità: una missione di primaria
importanza, che trascende il senso puramente sportivo della corsa.
«Il Giro d’Italia è risorto al servizio di un dovere che lo trascende. Per questo le
difficoltà lo nobilitano. Napoletani e torinesi, lombardi e laziali, veneti ed emiliani, gli
italiani tutti, tante regioni per un’unica civiltà e per un unico cuore, attendono nel Giro
lo specchio nel quale riconoscersi e sorridersi», scrive «La Gazzetta dello Sport» il
giorno della partenza. Il ciclismo trova, quindi, nello scenario del dopoguerra italiano un
terreno ideale per affermarsi, perché «la fuga solitaria o la volata verso la vittoria
appagano il desiderio e le aspettative di successo e di riscatto di milioni di persone»
7
.
Scrive Nicola Porro, docente di sociologia presso la facoltà di scienze motorie
dell’Università di Cassino e autore di numerose pubblicazioni dedicate allo sport come
fenomeno sociale:
Lo sport è lì, invadente e insinuante, a riempire le nostre giornate televisive, a risvegliare
emozioni sopite, a scandire il tempo di vita dei nostri figli, a fornire uno sconfinato
repertorio metaforico ai nostri uomini politici. Ma noi, i sociologi, non ce ne accorgiamo,
non ce ne occupiamo. Lo consegniamo distratti agli “specialisti”, ai pochi giornalisti
sportivi disposti a guardare un po’ più in là del prossimo derby calcistico
8
.
Porro sostiene, inoltre, che lo sport del Novecento sia un «prodotto peculiare del
suo tempo storico» e che quindi non possa essere realmente compreso, se non
analizzando i drammi e i miti che hanno attraversato il secolo. I giochi di squadra, ad
esempio, simboleggiano la guerra e sono governati da un sistema elaborato fatto di
codici, regolamenti, statuti e sanzioni, che ricalca il sistema giudiziario proprio dello
Stato-nazione. L’arbitro è una metafora del giudice: è una figura in grado di regolare in
7
Paolo Brera, Coppi, il ciclismo e il loro biografo in Gianni Brera, Coppi e il diavolo, Milano,
BookTime, 2009, p. 12.
8
Nicola Porro, Lineamenti di sociologia dello sport, Roma, Carocci, 2011, pp. 12-13.
6
modo incruento il conflitto sociale, un tassello fondamentale per il processo di
civilizzazione iniziato nel XIX secolo.
Tuttavia, alcuni studiosi avvertono nel corso del tempo una sempre più evidente
manipolazione dello sport, un uso strumentale e nazionalistico operato dai regimi
dittatoriali, che si traduce nell’ansia da prestazione, nella ricerca compulsiva del
risultato a ogni costo. Johan Huizinga
9
percepisce nelle Olimpiadi di Berlino del 1936,
caratterizzate da eccessiva ostentazione militaristica, la celebrazione del progetto
totalitario del Terzo Reich e, quindi, un funesto presagio del secondo conflitto
mondiale.
I Giochi olimpici, così come tutti gli eventi ciclici del calendario sportivo che
scandiscono la quotidianità al pari delle festività religiose, evocano molteplici aspetti
sociali: la politica, la diplomazia, il mutamento delle tecnologie e dell’economia. Certo,
rispetto alla civiltà premoderna lo sport ha perso in parte quell’aura di sacralità che
aveva in origine, orientandosi verso un’idea laica e tecnicizzata della prestazione.
Eppure, anche oggi gli atleti si rendono protagonisti di rituali scaramantici, segno
tangibile che il sacro non ha mai abbandonato del tutto l’evento sportivo:
Un filo rosso connette il mito del campione-paladino all’eroe sportivo contemporaneo,
figura che si afferma prima nei paesi protestanti, dove forse […] agisce anche un elemento
culturale che ha radici in una specie di sentimento negato. Mi riferisco a quel bisogno
latente di identificazione in figure intermedie fra l’uomo e la divinità – eroi, semidei, esseri
immaginati al confine fra l’umano e il sovrannaturale – che il cattolicesimo latino aveva in
parte soddisfatto preservando il culto dei santi
10
.
È facile intuire come nell’epoca moderna lo sport si sia inevitabilmente
razionalizzato, al fine di incentivare la spettacolarità del prodotto secondo le logiche
commerciali. Tuttavia, esso continua a vivere principalmente di emotività e passione, la
stessa che spinge i tifosi a presenziare sugli spalti degli impianti sportivi, in quello che
si è consolidato nel tempo come un rito domenicale da tramandare alle nuove
generazioni.
Nelle Forme elementari della vita religiosa Émile Durkheim
11
si occupa delle
rappresentazioni collettive, tra cui, ovviamente rientrano le pratiche sportive. Per il
9
Storico olandese attivo nella prima metà del ‘900 e autore di Homo Ludens (1938), libro in cui analizza
il gioco come fondamento della cultura dell’organizzazione sociale.
10
Nicola Porro, Lineamenti di sociologia dello sport, cit., p. 40.
11
Sociologo, antropologo e storico delle religioni francese, tra i padri fondatori della moderna sociologia
con le sue innovative teorie sullo stretto rapporto tra la religione e la struttura del gruppo sociale.
7
sociologo francese esse rinforzano il sentimento di appartenenza a una comunità e
conservano un significato prevalentemente religioso. «Lo sport va collocato a pieno
titolo fra le istituzioni sociali: costituisce un sistema di regole; trasmette valori;
contribuisce a controllare, gestire, incanalare le tensioni e le pulsioni conflittuali
presenti in ogni gruppo sociale; tende a produrre organizzazioni formali»
12
. Inoltre,
favorisce l’identificazione del singolo con la collettività, come le rappresentazioni
drammaturgiche nell’epoca classica, così che la figura del campione viene spesso
assimilata a quella di un totem vivente. L’intero panorama sportivo vive di continue
allusioni al sacro: scambio dei gagliardetti prima dell’inizio di una partita, segni della
croce, esecuzione degli inni nazionali, esibizione di uniformi, bandiere e colori sociali,
ostentazione di coppe e trofei.
Lo sport è senza dubbio la metafora più convincente della guerra. Il calcio, il
basket, il rugby o la pallanuoto esaltano, infatti, la difesa del territorio, uno degli aspetti
peculiari della strategia militare. Proprio per difendere il territorio di appartenenza (le
rispettive curve) le tifoserie organizzate occupano simbolicamente lo spazio, esibendo
striscioni e bandiere e minacciando lo scontro fisico con chi non ha intenzione di
rispettarlo.
Gli stadi, teatri delle battaglie contemporanee, sono una reinvenzione del mondo
moderno. Se gli impianti antichi rappresentavano principalmente luoghi di ritrovo,
dov’era possibile trascorrere intere giornate assistendo a esibizioni eterogenee
finalizzate alla spettacolarizzazione della forza bruta (le figure più rappresentative
dell’epoca erano i gladiatori, chiamati spesso a misurarsi con belve feroci), oggi lo
stadio nasce in teoria dall’esigenza di rimuovere la violenza. Nel suo perimetro, infatti,
tutto è organizzato in funzione di criteri propri della modernità industriale e di una
logica di controllo e classificazione: la durata dell’evento è predeterminata, i risultati
sono misurati con precisione ossessiva grazie a nuove dotazioni tecnologiche. Lo stadio,
però, è anche un ambiente politico, che nel corso del Novecento diventa teatro di riti
patriottici e nazionalistici. Come l’impianto di Santiago del Cile, che nel 1973 ospita le
vittime del golpe del generale Augusto Pinochet
13
, ergendosi a drammatica metafora
dell’uso strumentale dello sport.
12
Nicola Porro, Lineamenti di sociologia dello sport, cit., p. 49.
13
Generale e politico cileno. L’11 settembre 1973 con un colpo di stato si è autonominato presidente del
Cile, destituendo dalla carica Salvador Allende. Ha instaurato nel paese una dittatura militare,
caratterizzata da una violenta repressione contro le forze d’opposizione. Ha lasciato la presidenza soltanto
l’11 marzo del 1990.