PREMESSA
Gutta cavat lapidem. Prima di rinunciare alla mia soggettività per assumere la ve-
ste dello studioso che, in modo oggettivo, si addentra nel tema delle sue osserva-
zioni, mi sembra doveroso spiegare al Lettore il motivo di una tale scelta.
La massima latina non è casuale. Il primo anno di Università è stato la pale-
stra della mia carriera accademica: ho appreso che cosa significasse seguire una
lezione universitaria, prepararne e sostenerne il relativo esame di verifica; ho ca-
pito che certe discipline, in apparenza secondarie, in realtà hanno un’importanza
fondamentale per la preparazione del letterato; e ho realizzato che, davvero, è
questa la strada che voglio intraprendere nella vita e che non era solo un abba-
glio fugace degli anni delle scuole elementari, medie e superiori. La goccia della
passione mi ha scavato e ha lasciato un segno. Forse non è evidente, forse non
l’ho colmato delle giuste conoscenze. Sta di fatto che c’è: e lo riempirò di tutto
ciò che mi servirà per essere un bravo classicista e, soprattutto, una persona mi-
gliore.
Ma la goccia che stilla è anche un’altra. Nel ginnasio del primo anno di studi,
infatti, fra le discipline che più avevano suscitato il mio interesse, la linguistica e
lo studio della grammatica e dialettologia greca ebbero un posto di tutto rispetto
nel mio animo. Sarebbe stato così, in effetti – un pantheon bipartito – e sarei ri-
masto indeciso sul da farsi se non mi fossi impuntato con me stesso e non avessi
deciso di svolgere un simile argomento con il mio Relatore. C’era una domanda
che non trovava risposta, dentro di me. La prof.ssa Poddighe la conosce bene:
davvero non si sa niente dei cosiddetti secoli bui? A questo interrogativo, nel se-
mestre successivo, potei associare la curiosità per il mondo che, poi, nei secoli
bui ha fatto svanire le proprie tracce, se mi è almeno qui consentita la genericità.
Ecco, la genesi del Relatore e della Tesi è stata questa. È stato cercare di convo-
gliare le spinte a un simile interrogativo in qualcosa che potesse assommare tutte
le aspirazioni che nutrivo e nutro ancora. E il prof. Gargiulo me ne ha dato
l’occasione.
Giungo ora a presentare più dettagliatamente i contenuti del presente lavoro.
L’opera si divide in due parti, corrispondenti alle macrotematiche che mi sono
prefissato di affrontare per un’esposizione esauriente del tema. Nella prima, De-
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finizione del tema, ho teso a illustrare per via dapprima generale, poi in modo più
ravvicinato, la consistenza del fenomeno della tmesi. Ne sarà fornita, innanzitut-
to, una definizione specifica, secondo quanto hanno espresso gli studi più recenti
e accreditati. Al proposito, preciso fin da ora che, sulla scia soprattutto degli stu-
di anglosassoni e francesi, con la parola ‘tmesi’ indicherò sia l’originale stato di
separazione degli elementi dei composti che, come sarà osservato, al termine del
processo secolare di composizione risulteranno inscindibili, sia la scissione volu-
ta di un composto nei suoi elementi costitutivi quando la fase di aggregazione si
è ormai compiuta.
Una dimostrazione pratica sarà fornita da Omero, ricco di occorrenze di que-
sto fenomeno, che permea tutta la lingua poetica che da lui discende. Poiché ver-
rà appurato che la tmesi origina dall’indoeuropeo e dai suoi fatti di sintassi, si
provvederà a illustrare un panorama del mondo indoeuropeo, seguendo le prin-
cipali teorie sull’area originaria degli Indoeuropei e indicando i fatti di gramma-
tica più salienti, con particolare riguardo per la sintassi. Infine, sarà indagata la
situazione dell’uso di particelle e avverbi in Omero, per capire se la tmesi, a tal
punto del percorso storico della lingua greca, sia ormai un fatto con esistenza
piena e autonoma oppure se di essa non si possa ancora parlare. Anticipiamo
che, dal momento che il fenomeno è da relazionarsi con l’originaria autonomia
delle parole nella frase indoeuropea e, dunque, con l’autonomia dei verbi e dei
preverbi, osservando come ormai il processo di univerbazione fra gli uni e gli al-
tri si sia ormai compiuto a data omerica, nell’Iliade e nell’Odissea si può parlare a
buon diritto della tmesi come di una scissione voluta del preverbio dal suo verbo.
Considerazioni del genere serviranno per penetrare ancora più a fondo il feno-
meno linguistico in analisi.
Nella seconda parte, Le evidenze del miceneo, si entrerà nel cuore del lavoro: sa-
rà analizzata la tmesi così come, a giudizio di alcuni studiosi, è attestata nelle ta-
volette in Lineare B in nostro possesso. In particolar modo, sarà esaminato il ca-
so che è stato oggetto di studio di Yves Duhoux: a-pu , ke-ka-u-me-no[. La discus-
sione sarà volta a determinare se, nel caso di un greco del II millennio – com’è il
miceneo – che sembra non conservare più traccia di autonomia fra gli elementi
dei composti, le scissioni dei preverbi dai verbi con cui formano composti verbali
siano attuate consapevolmente e realizzate, se non come peculiarità stilistica,
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almeno come convenzione grafica, oppure se si tratti di una possibilità che la
lingua concede di separare preverbio e verbo perché ancora la saldatura fra essi
non è giunta a totale conclusione.
Gli snodi fondamentali dell’analisi saranno ricapitolati nelle Conclusioni, ac-
canto alle quali saranno proposti spunti di lavoro per altri studi, che originano
dalla ricerca sulla tmesi e sull’epica omerica e che sono già stati o sono tuttora
affrontati dagli studiosi.
Premetto che l’oggetto analizzato in quest’opera manifesta di essere, al tempo
stesso, limitato e complesso. È limitato, nel senso che la ricerca può stringersi at-
torno ad un solo fenomeno linguistico che va analizzato in un preciso contesto
storico-culturale – quello miceneo della tarda età del Bronzo – che, peraltro, ne
fornisce evidenze non generose e anzi malsicure. Ed è complesso proprio perché
è limitato: il numero di evidenze, dati, prove su cui basare un’analisi, una teoria,
una qualunque forma di discorso con un minimo ancoraggio alla realtà è troppo
esiguo perché i frutti degli studi in questo settore non siano sempre coperti da un
velo di ipotesi, così come tutte le altre riflessioni e ricostruzioni che, sulla base
dell’analisi di questa tematica, possono essere effettuate. È la premessa che fa la
maggior parte degli studiosi. Ed è la stessa che mi sento di fare anche io, in que-
sta prima esperienza di studio e ricerca che conclude una parte del mio percorso
di studi, senza tuttavia rinunciare al (giusto) dettaglio che siffatte opere richiedo-
no.
PARTE I
DEFINIZIONE DEL TEMA
La parola , dalla radice disillabica
1
del tipo grado zero/grado pieno (tm ē-)
nel contesto dell’alternanza radicale tem-/(tam-)/tom-/tm- da cui si forma il verbo
greco , “tagliare”, in composizione con il suffisso di nomen actionis, signifi-
ca letteralmente “taglio”. Utilizzato già dai grammatici alessandrini
2
, nelle anali-
si linguistiche del materiale di discendenza indoeuropea il termine indica la sepa-
razione del preverbio
3
dal suo verbo; il preverbio può eventualmente precedere o
seguire
4
la forma verbale di riferimento.
Il fenomeno è attestato in diversi luoghi dei poemi omerici, sì che il punto di
partenza per uno studio che lo riguardi non può essere dato che dall’epopea
dell’Iliade e dell’Odissea. In essi, infatti, è possibile rintracciare diverse occorrenze
di un verbo separato dal suo preverbio
5
, che ormai ha preso le fattezze di una ve-
ra e propria preposizione che non può mantenersi più indipendente nella sua na-
tura dal verbo di riferimento, ma ha bisogno di accompagnarglisi da vicino, se
non proprio di unirsi a esso in una voce composta. La Kunstsprache omerica, in-
fatti, di base ionica in cui emergono forme ascrivibili all’area eolica che farebbero
pensare a una precedente forma eolica dei poemi
6
, si verrebbe a trovare, a giudi-
1
Sulle radici disillabiche è chiaro il Longo: «l’alternanza opera non su una sola sillaba, ma su
due. […] Generalmente, sulla prima sillaba ha luogo l’alternanza del tipo e/o/-, sulla seconda
quella del tipo schwa/vocale lunga. Funzione inoltre un meccanismo equilibratore, in virtù del
quale, se la prima sillaba è al grado normale, la seconda presenta il grado ridotto ( ə) o zero. Infi-
ne, entrambe le sillabe possono essere al grado ridotto. Le due sillabe non possono mai essere al
grado ampliato» (Longo 1989
2
, pp. 62-63). Per esempio, dalla radice disillabica tem ə- (grado
e/grado ridotto con schwa) deriva la parola .
2
Trifone (I sec. a. C.) definisce la tmesi ‘iperbato’: « -
» (Rhet. Graec. Sp.
vol. 3, p. 197, r. 20 ss., in Historisches Wörterbuch der Rehtorik, Band 9: St-Z, Max Niemeyer Ver-
lag, Tubingen 2009, pp. 591-592). Anche Gregorio di Corinto (XI-XII sec. d. C.) fornisce una
simile definizione: « -
» (Rhet. Graec. Sp. vol. 3, p. 218, rr.
10-14, in Historisches ecc., p. 592).
3
Con preverbio s’intende una particella che, indipendente e avverbiale all’origine, atta a precisa-
re alcuni valori del verbo, progressivamente gli si lega in modo stretto e, per univerbazione, dà
origine ad una forma composta.
4
Il fenomeno di posposizione in tmesi è visibile in Il. 2.699:
, «essendo vivo; allora già sotto l’aveva la nera terra».
5
Possiamo citare, come primo esempio, Il. 1.25: .
6
Proprio gli eolismi offrono un contributo importante alle ipotesi di datazione dell’epopea stessa
solo se equamente considerati, senza sopravvalutazioni. Sulla questione della datazione
dell’epica, vedi suggerimenti di ricerca in Conclusioni e spunti di ricerca (infra, p. 51).
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zio degli studiosi, in una fase intermedia fra la situazione indoeuropea e quella
del greco classico. In altre parole, Omero (che, da un punto di vista storico, si
può collocare a cavallo tra il IX e l’VIII sec. a. C., se non come autore dotato di
personalità fisica indipendente, almeno come segnacolo di una fase matura e
avanzata dell’epica al punto da farne già presupporre come molto probabile una
fissazione scritta) si situerebbe fra uno stadio linguistico (quello indoeuropeo
7
),
in cui la particella, che in seguito darà luogo alla preposizione o al preverbio, si
comporta ancora come un avverbio indipendente
8
, la cui presenza non è obbliga-
toria ma agevola il verbo nello svolgimento delle sue funzioni, e un altro stadio
(quello del greco classico) in cui la particella ha ormai perso la sua autonomia e
si è legata, per univerbazione, al verbo (o al nome, se si tratta di preposizioni e
non di preverbi) in modo indissolubile
9
.
Proprio quest’ultima fase ha ingenerato la definizione di tmesi, appunto di
“taglio” dell’unità sintagmatica di una parola composta, consistente nella sepa-
razione degli elementi che sono entrati in composizione fra loro, concorrendo
stabilmente alla precisazione o rideterminazione del significato del nome o verbo
frutto dell’univerbazione.
A questo punto della riflessione, sorge spontanea una domanda: i poemi ome-
rici attestano davvero la suddetta fase di progressiva univerbazione degli elemen-
ti frasali oppure ci sono prove di un’anteriore collocazione di questa fase? La ri-
sposta è la seconda: non solo il greco omerico presenta casi di tmesi accanto a
casi di univerbazione avvenuta con successo (v. pp. 14-17), ma esistono pure
7
O del proto-indoeuropeo (p.i.e.), come definito da Horrocks 1981 e da Hewson-Bubenik 2006 e
com’è ormai terminologia diffusa.
8
Chantraine, citato in Horrocks 1981 e Hewson-Bubenik 2006, afferma: «Il s’agit […] de petits
mots invariables qui viennet préciser l’idée exprimée, et qui, originellement, sont autonomes. Ils
peuvent s’employer soit absolument, soit à côté d’un verbe comme adverbes, ou comme pré-
verbes, soit à côté d’un nom comme preposition».
9
Si può, al proposito del processo di composizione verbale, richiamare la distinzione fra preverbi
“pieni” e preverbi “vuoti”. Le preposizioni c.d. ‘proprie’, infatti, quando entrano in composizio-
ne con un verbo, possono incidere su tre piani: sintattico, per cui «consentono al verbo una co-
struzione altrimenti non consentita o comunque non abituale» (es. -
); semantico, cioè «mantenendo la loro forza espressiva di avverbi, determinano
un cambiamento, concreto o astratto, del significato del verbo di base» (es. “guardare”,
ma “guardo di traverso”, “guardo in basso”); aspettuale, ovvero «quando
senza alterare il senso di base dei verbi con cui entrano in composizione conferiscono agli stessi
una nuova sfumatura afferente unicamente all’aspetto verbale» nel segno della puntualità, della
persistenza, del compimento o dell’efficacia dell’azione (es. “piangere”, ma
“scoppiare a piangere”; “esamino”, ma “esamino attentamente”). So-
no “pieni” i preverbi del secondo caso, “vuoti” quelli del terzo (BASILE N., Sintassi storica del greco
antico, Levante Editori, Bari 1998, p. 130).