Biosensori
1.1 I biosensori
Secondo la definizione dell‟Unione Internazionale di Chimica Pura e Applicata (IUPAC), per
biosensore si intende un dispositivo in grado di utilizzare una specifica reazione biochimica mediata
da componenti biologiche quali biomolecole, tessuti, organelli o cellule intere, per la rilevazione di
composti chimici attraverso la conversione in un determinato segnale analitico, che può essere
ottico, elettrico, termico o acustico.
Rispetto alle tecniche analitiche tradizionali, un biosensore ha la capacità di non richiedere lunghe
fasi di purificazione dei campioni o l‟aggiunta di reagenti; inoltre può permettere l‟esecuzione in
tempo reale, in loco, di analisi mediche o ambientali. La principale caratteristica di un biosensore è
la specificità, ovvero la capacità di reagire prevalentemente con un solo tipo di analita e non con
altri che possono essere presenti nell‟ambiente di misura. Questi ultimi quindi non contribuiscono a
determinarne il segnale di risposta. Altre caratteristiche che rendono ideale un biosensore sono l‟alta
sensibilità, i bassi tempi di risposta, l‟economicità e la robustezza.
Il termine biosensore fu coniato da Leland Clark che nel 1953 aveva già messo a punto il
polarografo, un elettrodo per la misura dell‟ossigeno. Tale elettrodo possiede sia il catodo che
l‟anodo all‟interno di una membrana isolante di polietilene che copre uno strato di un elettrolita.
L‟ossigeno diffonde attraverso la membrana e viene ridotto al catodo. Tutto ciò risulta in un flusso
di corrente proporzionale alla quantità di ossigeno presente nel campione (Clark et al., 1953).
Agli inizi degli anni '60 Clark e Lyons (Clark et al., 1962) pensarono di unire la selettività
dell‟elettrodo con la specificità caratteristica di un enzima costruendo di fatto il primo biosensore:
un elettrodo ad enzima per la misura del glucosio in soluzioni biologiche, che utilizza la glucosio
ossidasi (GOD) come elemento di riconoscimento.
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Fig.1.1: Sensore di Clark: A) elettrodo di Pt; (B) elettrodo di Ag/AgCl; (C) soluzione di KCl; (D) membrana; (E)
anello di gomma; (F) potenziostato; (G) galvanometro
La reazione catalizzata dall‟enzima Glucosio ossidasi (GOD) è la seguente:
D-Glucosio + O2 → H2O2 + D-Gluconolattone
seguita dall‟idrolisi non enzimatica:
D-Gluconolattone + H2O → Acido D-Gluconico
Il segnale amperometrico derivante dalla reazione può essere utilizzato per monitorare la quantità di
ossigeno in base alla relazione stechiometrica coinvolta. Successivamente negli anni seguenti
Guilbault e Montalvo (Guilbault et al., 1969) descrissero la realizzazione di un biosensore per la
misura dell‟urea. La storia dello sviluppo dei biosensori ha aperto la strada al campo dei termistori
enzimatici (Mosbach et al., 1974), dei biosensori microbici
(Divis et al., 1975), degli
immunosensori (Liedberg et al., 1983), dei nano biosensori
(Vo-Dinh et al., 2000), dei biosensori
basati su cellule (Pancrazio et al.,1998) e di saggi di binding di acidi nucleici (Edman et al.,1997).
Grazie ai continui sviluppi questi dispositivi sono oggi sempre più presenti e applicati.
In campo analitico esistono tre tipi diversi di biosensori: di prima, di seconda e di terza generazione.
Nei biosensori di prima generazione l‟enzima ossida il substrato in presenza di ossigeno e la
diminuzione della concentrazione di ossigeno viene direttamente rivelata all‟elettrodo. In quelli di
seconda generazione è prevista la presenza di un mediatore redox direttamente a contatto con
l‟elettrodo, un esempio è dato dalla coppia Fe
2+
/Fe
3+
. Questo mediatore, sempre in presenza di
ossigeno, va a reagire chimicamente con il prodotto della catalisi enzimatica fornendo una risposta
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direttamente proporzionale alla concentrazione del substrato che si vuole determinare. Nei
biosensori di terza generazione si osserva invece una elettrochimica diretta, ovvero ci sono elettrodi
che promuovono l‟ossidazione e la riduzione senza l‟aggiunta di altri sostituenti in soluzione, come
mediatori naturali o artificiali. Il trasferimento elettronico diretto tra il sito enzimatico e il
trasduttore avviene grazie alla presenza di composti organici particolari, un esempio è dato dal sale
che si forma mescolando TCNQ (tetracianochinodimetano) e TTF (tetratiofulvalene) (Ferraris et al.,
1973).
1.2 Miniaturizzazione e Lab-on-a-chip
Negli ultimi decenni la miniaturizzazione delle tecniche analitiche è diventata un trend dominante
nella ricerca, rinforzato anche dalla partecipazione dell‟industria. L‟idea della miniaturizzazione dei
sistemi analitici circolava da anni, ma solo con l‟arrivo della fotolitografia per la costruzione di
circuiti integrati è stata resa fattibile (Harrison et al., 1998) e ciò ha dato il via allo sviluppo di una
marea di applicazioni. Così come i circuiti integrati hanno permesso la miniaturizzazione di
computer grandi quanto una stanza alle dimensioni di un notebook, la miniaturizzazione ha il
potenziale di condensare un‟enorme quantità di strumenti in un lab-on-a-chip (Manz et al.; 1990).
Una loro particolarità è che oltre ad essere più veloci ed economici, questi nuovi dispositivi hanno
consentito nuove tipologie di esperimenti altrimenti impossibili da svolgere con la classica
strumentazione su larga scala. I lab-on-a-chip sono stati inizialmente accolti con scetticismo a causa
dell‟indisponibilità di componenti micro-fabbricati: a quel tempo solo serbatoi e canali potevano
essere preparati attraverso la litografia. Successivamente nuovi componenti come valvole, camere
di reazione e sistemi di detection hanno permesso lo sviluppo di sistemi semplici in prototipi di lab-
on-a-chip (Quin et al., 1998).
I lab-on-a-chip presentano molti vantaggi rispetto ai tradizionali laboratori chimici e biologici.
Caratteristica peculiare è un consumo ridotto di campioni e reagenti: i dispositivi microfluidici ad
esempio, avendo un volume interno di pochi microlitri, necessitano di una quantità di sostanze
minore rispetto agli strumenti tradizionali. La possibilità di utilizzare piccole dosi di fluidi negli
esperimenti è di grande importanza in molte applicazioni biologiche in cui i reagenti possono essere
molto costosi e i campioni a disposizione sono spesso limitati. I dispositivi microfluidici
consentono di trasportare i fluidi con poche componenti meccaniche; la complessità delle strutture
può essere significativamente ridotta così come il consumo di potenza e il costo, mantenuto basso
dal fatto che è possibile una produzione su larga scala attraverso tecniche di replicazione
standardizzate (Kim et al., 2002). È possibile integrare tutti i passi di un'analisi in un singolo chip,
dal caricamento del campione al lavaggio, dalle reazioni al rilevamento e così via (Martinez et al.,
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2009). Questa integrazione limita l'errore dell'operatore, la possibile contaminazione dell'ambiente
di lavoro e il tempo di analisi, diminuito anche dalla possibilità di condurre più processi in parallelo
su un singolo chip e dal fatto che riscaldamento, miscelamento e misurazioni possono venire
effettuate più accuratamente e rapidamente in volumi più piccoli, permettendo un'analisi in tempo
reale (Ahn et al., 2004). Generalmente si tratta di dispositivi usa e getta e in futuro si prevede che le
analisi che richiedono un certo dispendio di tempo e che ora si fanno in ospedale, si faranno su un
chip microfluidico in grado di fornire dati in real-time.
Le principali applicazioni dei lab-on-a-chip si trovano nelle scienze biologiche e biotecnologiche:
diagnostica medica, colture cellulari, sequenziamento genetico, proteomica e studi per nuovi
medicinali. Come detto in precedenza i dispositivi microfluidici offrono nuove possibilità che sono
irrealizzabili con gli strumenti convenzionali. Sono una soluzione ideale per analizzatori genetici
rapidi ed economici che permettono di consumare minime quantità di campioni, di avere brevi
tempi di utilizzo e produttività elevata grazie alla parallelizzazione dei processi. La proteomica, che
tratta l'identificazione e la caratterizzazione delle proteine, è diventata una delle aree di interesse
biologico più studiate. I lab-on-a-chip possiedono le caratteristiche necessarie per
un'implementazione di successo di dispositivi in grado di fornire analisi rapide ed efficienti del
proteoma umano (Mouradian et al., 2002). Mediante sistemi microfluidici è stata ampiamente
studiata anche la miniaturizzazione di colture cellulari (Hufnagel et al., 2009). La microfluidica ha
dimostrato di poter offrire ambienti in vitro migliori rispetto alle tecniche tradizionali e la
parallelizzazione ha permesso alte prestazioni su un singolo chip. I lab-on-a-chip sono utilizzati
anche per lo studio e lo sviluppo di nuovi medicinali (Kang et al., 2008) e per il loro rilascio nei
pazienti. Al di fuori del campo medico e biologico i lab-on-a-chip trovano applicazioni in
optoelettronica, optoelettromeccanica e optofluidica (Psaltis et al., 2006). È possibile, ad esempio,
integrare in un singolo chip un interferometro di Mach-Zender (Crespi et al., 2010) che rende
possibili diversi esperimenti ed analisi sui liquidi presenti in microcanali. I lab-on-a-chip possono
dunque essere utilizzati in molti ambiti di ricerca e il loro continuo sviluppo e perfezionamento
consente di ottenere prestazioni sempre migliori.
1.3 Materiali e metodi di fabbricazione
Tra i vari materiali utilizzati per la fabbricazione dei dispositivi microfluidici c‟è il silicio, il più
usato come substrato per i primi dispositivi data la grande disponibilità di tecniche di lavorazione
mutuate dalla microelettronica, e il micromachining su di esso è stato ottimizzato nel corso degli
anni. I vantaggi nell'utilizzo del silicio risiedono nelle sue buone proprietà meccaniche,
nell'eccellente resistenza chimica e nella possibilità di integrare circuiti di controllo sul
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