Introduzione
Negli ultimi anni diversi aspetti della “questione animale” si sono imposti
all’attenzione degli ordinamenti nazionale, comunitario ed internazionale.
La discussione filosofica animalista ha notevolmente influenzato il piano del
diritto positivo e si sono così formate due teorie: la posizione protezionista e
la teoria dei diritti.
La prima si basa sui doveri degli uomini verso gli animali, è la più risalente
nel tempo ed ancora oggi molto diffusa, nonché quella che ha introdotto
normative più o meno estese ed efficaci.
La teoria dei diritti invece è la più recente e si inserisce all’interno del
movimento di rivendicazione dei diritti individuali (iniziato con
l’Illuminismo e con le Dichiarazioni dei diritti), che continua a crescere
sempre di più, inglobando nuovi soggetti e nuovi diritti, tanto da attribuire
alla nostra epoca l’appellativo di “età dei diritti”
1
.
La possibilità di riconoscere un nuovo status giuridico agli animali che li
elevi dalla condizione di res, nella quale sono relegati da lungo tempo, a
quella di esseri senzienti, soggetti di diritti, è un tema decisamente
complesso e controverso.
La limitata attenzione del diritto deriva soprattutto dal fatto che i sistemi
giuridici sono autoreferenziali, elaborati dagli esseri umani per tutelare la
propria convivenza in società sempre più complesse.
Questo ha determinato una visione antropocentrica: tale concetto si basa
sull’assunto della priorità del genere umano rispetto a qualsiasi altro essere
vivente
2
.
1
Bobbio, L’età dei diritti, Torino, Enaudi, 1992.
2
Interessante è la doppia accezione che L. L. Vallauri dà a tale concetto: antropocentrismo
può significare che la biosfera e l’ecosfera vengono interamente strumentalizzate a ogni –
anche alla più crudele o futile- volontà o voglia umana; tutto il non umano esiste in
funzione dell’umano. In una seconda accezione antropocentrismo può significare che i beni
1
In questa prospettiva gli animali hanno da sempre trovato poco spazio per
affermare la propria soggettività dal punto di vista giuridico e sono stati
considerati quali cose a completa disposizione dell’uomo: come fonte di
nutrimento (caccia, pesca, allevamento), di lavoro (agricoltura, trasporti
civili e militari), di protezione dal freddo e di vestiario (pelli e pellicce), di
difesa, di compagnia e di divertimento
3
.
Le radici della teoria antropocentrica sono così antiche da poter essere
difficilmente rintracciate con sicurezza e trovano giustificazione sia in dati
fisici, che in caratteristiche legate alla razionalità dell’uomo.
Rispetto ai riferimenti fisici già Anassagora e Platone avevano sottolineato
come la posizione eretta dell’uomo, ed il possesso delle mani, fossero
elementi determinanti nel dimostrare la sua superiorità sugli animali.
L’uomo veniva così considerato l’unico essere che poteva guardare il cielo e
quindi entrare in contatto con la divinità, con il mondo spirituale, mentre
l’animale per sua conformazione fisica rivolge abitualmente lo sguardo
verso terra
4
.
Ma la teoria antropocentrica si sviluppa in modo più evidente unendo il dato
fisico con il dato psicologico-razionale, così Aristotele sostiene che solo
l’uomo è dotato di raziocinio e di linguaggio e ciò lo distingue dagli
animali: egli è l’essere superiore in quanto unico “animale razionale” a cui
spetta inevitabilmente il dominio sulle altre creature
5
.
Tra i pochi che non condividono tale atteggiamento troviamo Lucrezio, il
quale, nel De rerum natura, dà alla figura animale un posto di eccezionale
culturali prevalgono sui beni naturali, un mondo in cui tutto l’incontrabile è di produzione
umana. L. Lombardi Vallauri, Prospettive antropocentriche, biocentriche, ecocentriche, in
S. Rodotà - P. Zatti (a cura di), Trattato di biodiritto, Milano, Giuffrè, 2010, 4.
3
V. Pocar, Gli animali non umani. Per una sociologia dei diritti, Bari, 2005, Laterza, 9.
4
S. Castignone, La “Questione animale”, in S. Rodotà - P. Zatti (a cura di), Trattato di
biodiritto, Milano, Giuffrè, 2010, 19.
5
Aristotele, Animali e schiavitù, in La politica, I libro, Cap. 5, p. 17, Bari, Laterza, 1966.
2
rilievo, rifiutando ogni posizione privilegiata dell’uomo nel cosmo, perché il
mondo non esiste solo per gli esseri umani.
L’impostazione antropocentrica si trova chiaramente espressa anche nella
tradizione giudaico-cristiana
6
. La Bibbia, infatti, afferma la superiorità
umana sulla natura e sulle bestie: Dio ha creato “l’uomo a sua propria
immagine”
7
, conferendogli in questo modo una posizione unica nell’intero
universo
8
.
Si cerca però di sottolineare come esista anche un’altra interpretazione dei
testi Sacri, più favorevole alla considerazione del benessere animale, che
punta ad evidenziare il fatto che Dio ha affidato all’uomo il compito di
custode, di curatore del creato
9
.
La preminenza umana è evidente anche nel pensiero di Tommaso d’Aquino,
che arricchisce la teoria antropocentrica di un nuovo elemento
fondamentale, l’anima: l’amore va riservato solo a Dio e agli esseri
razionali, gli animali possono al massimo essere amati come beni perché
non sono dotati di un’anima.
6
Diverso è invece l’approccio delle filosofie o religioni orientali, cioè Buddhismo e
Induismo, che considerano uomo, animale e natura come parti di un tutto armonico in cui
ogni unità è fondamentale per lo sviluppo delle altre. In quest’ottica gli animali non sono
mezzi a disposizione dell’uomo, ma soggetti da proteggere in quanto componente
necessaria dell’armonia del creato. F. Rescigno, I diritti degli animali. Da res a soggetti,
Torino, 2005, Giappichelli, 26.
7
Cfr. Genesi, 1, 26, 28.
8
A tal proposito assai interessante è la riflessione di Singer quando afferma che è
decisamente più realistico pensare che è stato l’uomo a fare Dio a sua immagine,
assicurandosi in questo modo la posizione speciale nell’universo, in quanto unico essere fra
tutte le cose viventi, simile a Dio. Cfr. P. Singer, Liberazione animale, Roma, 1987.
9
S. Castignone, La “Questione animale”, in S. Rodotà - P. Zatti (a cura di), Trattato di
biodiritto, Milano, 2010, Giuffrè, 19.
3
Egli sostiene però che non bisogna maltrattarli perché ciò indurisce gli
animi, abitua ad assistere a spettacoli crudeli, cosicché alla fine si diventa
indifferenti nei confronti delle sofferenze degli uomini
10
.
Occorre sottolineare che esistono elaborazioni dell’antropocentrismo ancora
più estreme: ci si riferisce al c.d. razionalismo giuridico e filosofico.
Il massimo teorizzatore di queste concezioni è Descartes (Cartesio),
considerato padre del razionalismo moderno; per lui gli animali sono
‘automata’ cioè macchine prive di pensiero e di un’anima: non sono in
grado di parlare o comunque di usare un linguaggio, sono incapaci di
sentire, per questo sono definiti meri “bruti privi di pensiero”, sprovvisti di
una mente e di una coscienza
11
.
La rigorosa tesi di Descartes, successivamente sconfessata dalle più recenti
ricerche nel campo biologico ed etologico, fu rifiutata dai principali
esponenti dell’illuminismo; tra questi, ad esempio, Voltaire che riteneva
intollerabile qualsiasi forma crudeltà nei confronti degli animali, perché se
questi sono davvero privi di un’anima immortale, allora la loro vita sensibile
rappresenterebbe l’unica vita e rovinarla significherebbe causargli un danno
irreparabile
12
.
Critica nei confronti della ricostruzione cartesiana è anche la riflessione di
Kant, che arriva a configurare l’esistenza di doveri umani nei confronti degli
animali, non si tratta però di doveri diretti, ma solo di doveri indiretti verso
la stessa umanità
13
.
10
Tommaso d’Aquino riprende la frase latina di Ovidio, “saevitia in bruta est tirocinium
crudelitatis in homines”, cioè la crudeltà nei confronti degli animali induce alla crudeltà
anche verso gli uomini; il che significa che le sevizie e i maltrattamenti vanno evitati solo
in luoghi pubblici, potenzialmente frequentati da persone sensibili: le sofferenze degli
animali in se stesse non vengono prese minimamente in considerazione. Tale concezione,
detta anche “tesi della crudeltà” o “teoria dei “doveri indiretti” sarà ripresa poi anche da
alcuni autori come ad esempio Kant.
11
Cfr. R. Descartes, i primi due libri del Discorso sul metodo del 1637.
12
Cfr. Voltaire, Dizionario filosofico, Milano, 1968, 108.
4
Un distacco effettivo dalla concezione antropocentrica non è stato ancora
compiuto del tutto, tuttavia vi è stato comunque un ridimensionamento in
seguito ai grandi progressi scientifici raggiunti nel campo dell’etologia e
delle altre scienze animali.
Tale teoria può essere superata attraverso una nuova chiave di lettura della
realtà circostante, la quale può porci in un confronto che comprenda
equamente ciò che è altro da noi, compresi gli animali e la natura; attraverso
l’etica ambientale è possibile promuovere una visione in cui integrità umana
e integrità naturale si richiamano reciprocamente
14
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Le teorie del moderno antropocentrismo possono distinguersi tra: “la morale
della simpatia”, “la morale dell’utilità” e “la morale del valore”
15
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La teoria “morale della simpatia”, che si può far risalire a David Hume,
afferma che anche gli animali nel compiere le azioni quotidiane appaiono
guidati da un certo grado di razionalità che, pur differendo da quella degli
umani, è da riconoscersi come ragione e non mero istinto.
Gli animali provano gioia e dolore, per questo gli umani devono limitarsi
alle azioni degne di approvazione dal punto di vista morale, procurando
gioia ad altri esseri, umani o non umani.
La morale della simpatia ha costituito uno dei fondamenti del c.d.
“animalismo compassionevole”, diffuso soprattutto nel mondo
anglosassone
16
.
13
In questo senso Kant spiega che un atto di crudeltà nei confronti di un animale non
costituisce una lesione nel dovere verso l’animale stesso, ma “lederebbe nella loro
intrinseca natura quella socievolezza e umanità, che occorre rispettare nella pratica dei
doveri verso il genere umano. Per non distruggerla, l’uomo deve mostrare bontà di cuore
già verso gli animali, perché chi usa essere crudele verso di essi è altrettanto insensibile
verso gli uomini”. Cfr. I. Kant, Lezioni di etica, Bari, 1971, 273 ss.
14
L. Battaglia, Alle origini dell’etica ambientale, Bari, 2002, 25.
15
V. Pocar, Gli animali non umani, Bari, 2005, Laterza, 14.
16
Tale dottrina si fonda sul principio della “compassione” e non giunge a stabilire con
sicurezza una base per il riconoscimento di diritti degli animali. V. Pocar, op.cit., p. 21.
5
Altra concezione che cerca di distaccarsi dalla rigidità antropocentrica è la
“teoria dell’utilità”, strettamente collegata alla teoria utilitaristica classica di
Jeremy Bentham
17
.
Tale prospettiva rappresenta il tentativo di uscire dall’illuminismo razionale
ed astratto sostituendo al criterio della ragione quello più concreto
dell’utilità, per cui il fine principale della morale ed anche del diritto deve
essere quello di cercare di evitare al maggior numero di uomini ogni
insofferenza ingiustificata.
L’utilitarista sostiene due principi morali: il principio dell’uguaglianza, per
cui interessi simili devono avere lo stesso peso e lo stesso valore, ed il
principio dell’utilità, per cui bisogna agire per cercare di realizzare il
miglior equilibrio fra soddisfazione e frustrazione per ogni individuo
coinvolto.
Partendo dal concetto di sofferenza l’utilitarismo si estende anche agli
animali. Il punto centrale non è rappresentato dalla loro possibilità di parlare
o ragionare, ma dalla loro idoneità a provare dolore, per cui diviene
necessario evitare di tormentare inutilmente qualsiasi animale; infatti
secondo Bentham l’essere umano deve domandarsi se “esiste qualche
motivo per cui si dovrebbe permettere che li tormentassimo? Nessuno … Ve
ne è qualcuno per cui non si dovrebbe permettere che li tormentassimo? Si
parecchi (…) Il problema non è: ‘Possono ragionare?’, né ‘Possono
parlare?’, ma ‘Possono soffrire?’”
18
.
L’utilitarismo fonda i valori morali sul piacere e sul dolore, considerando
bene tutto ciò che procura il primo e male ciò che causa il secondo.
17
J. Bentham, Una prospettiva utilitaristica, in T. Regan-P. Singer (a cura di), Diritti
animali, Torino, 1987, 133.
18
J. Bentham, op.cit., p. 133 ss.
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