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PREMESSA- PREFAZIONE
«Fermi davanti a gabbie di vetro, leggermente inclinati in avanti, quasi nel tentativo di evitare
riflessi che potrebbero impedire una corretta visione di ciò che è al di là del vetro. La mente
percorsa da pensieri che stentano a trovare un equilibrio cognitivo. Parole appena
bisbigliate, se non soffocate in gola. Che cosa significa agire? Compiere il "male"? Che cosa
significa essere responsabili? Accondiscendere e dire di sì, opporsi e dire di no?
Probabilmente nessuno avrebbe mai immaginato che l'umanità si sarebbe raccolta dinanzi a
gabbie di vetro per riflettere sul senso dell'azione» (A. Zamperini nell’introduzione al libro
“Obbedienza all’autorità” di Milgram ).
È il 1962. In Israele si sta celebrando il processo ad Adolf Eichmann, il famigerato
«trasportatore di morte». Il mondo intero s'interroga sulla «banalità del male», incredulo di
fronte all'idea che le persone crudeli non siano mostri informi, ma uomini comuni. La stessa
ordinarietà dei cittadini nordamericani che Stanley Milgram, psicologo sociale, recluta in
quegli anni per il suo celebre esperimento sull'obbedienza all'autorità.
Individui qualsiasi, convocati in laboratorio per obbedire a ordini che offendono il loro senso
morale e studiati nella loro propensione alla sudditanza o alla ribellione. Desacralizzando la
coscienza quanto l'autonomia morale, e constatandone la docile inefficacia quale baluardo
contro l'azione immorale e malvagia, il saggio di Milgram, ormai un classico imprescindibile
della psicologia sociale, dischiude scenari inquietanti e attualissimi. Quelli di un mondo
colonizzato da una «burocrazia della mente» che, una volta anestetizzato nello svolgimento
del proprio compito il giudizio su ciò che è bene e ciò che è male, rende pericolosamente
fluttuante e labile la responsabilità soggettiva.
E’ il 1971 in una placida estate californiana. Philiph Zimbardo, compagno di classe di liceo di
Milgram ed emergente professore della rinomata Stanford University mette in scena un
esperimento destinato a lasciare per sempre il segno nell’ambito della psicologia sociale.
Ragazzi comuni, selezionati proprio per la loro “normalità” a rappresentanza del campione di
“bravi studenti universitari” vengono scelti per simulare la vita in un carcere e per studiare le
conseguenti relazioni tra carcerati e secondini.
I risultati di questo esperimento, interrotto dopo appena 5 giorni a causa degli abusi e delle
oscenità che si stavano perpetrando contro i prigionieri ha sconvolto la società civile e la
comunità scientifica ribadendo ancora una volta che il confine tra “male e bene”- “bravi
ragazzi” e “ tremendi aguzzini” è molto labile.
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Ne “L’Effetto Lucifero” Philiph Zimbardo ci racconta la sua personale esperienza e le sue
riflessioni così basilari ed attuali che lo stesso autore sarà costretto a riaffrontare, con
scenari molto simili, quando sarà invitato a prestare assistenza ai soldati americani
responsabili delle atroci torture verificatesi nel carcere iracheno di Abu Grahib.
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CAPITOLO 1 - INTRODUZIONE
Che cosa fa funzionare il comportamento umano? Che cosa determina il pensiero e l’azione
umana? Che cosa fa sì che alcuni di noi conducano una vita morale, giusta mentre altri
sembrano scivolare facilmente nell’immoralità e nel crimine? Ciò che pensiamo della natura
umana è fondato sull’assunto che a guidarci sulla buona strada siano dei determinanti
interiori? Prestiamo sufficiente attenzione alle determinanti esterne dei nostri pensieri,
sentimenti e delle nostre azioni? In che misura siamo il prodotto delle situazione, del
momento , della massa? Siamo nati buoni e successivamente siamo stati corrotti da una
società malvagia o siamo nati cattivi e poi siamo stati redenti da una società buona?
(Philiph Zimbardo, 2008)
Questi sono gli interrogativi che hanno motivato le ricerche e gli esperimenti degli ultimi 70
anni di psicologia sociale, queste sono le domande alle quali mi propongo di rispondere in
questo elaborato utilizzando come faro, appunto, il prodotto degli sforzi della psicologia in
campo sociale.
Il primo punto preso in esame è il più eclatante caso storico di obbedienza cieca ad autorità
con delle conseguenze atroci e distruttive, l’Olocausto, attraverso l’acuta-ma anche toccante-
immagine che ne emerge dal best seller di Hannah Arendt, La balanalità del male, seguito
da uno più recente relativo alla guerra in Vietnam con le atrocità commesse nel nome della
democrazia, per arrivare, infine, ad analizzare ampiamente la ricerca del dottor Milgram e,
soprattutto, del Dottor Zimbardo relative all’obbedienza ad autorità e il conformismo rispetto
alla massa che si attiva in determinate situazioni.
Da “La banalità del male: Eichamann a Gerusalemme” di Hannah Arendt:
“(….) una mezza dozzina di psichiatri lo aveva dichiarato “normale”, e uno di questi, si dice,
aveva esclamato addirittura “più normale di quello che sono io dopo averlo visitato” mentre
un altro aveva trovato che tutta la sua psicologia, tutto il suo atteggiamento verso la moglie e
i figli, la madre, i fratelli e le sorelle, i suoi amici “non solo era normale, ma ideale (….)”
“(…) Ma il guaio nel caso Eichmann era che di uomini come lui ce n’erano tanti e che questi
tanti non erano né perversi né sadici, bensì erano, e sono tuttora, terribilmente normali. Dal
punto di vista delle nostre istituzioni giuridiche e dei nostri canoni etici, questa normalità è più
spaventosa di tutte le atrocità messe insieme, poiché implica (…) che questo nuovo tipo di
criminale, di questo hostis generis umani, commette i suoi crimini in circostanze che quasi gli
impediscono di accorgersi e di sentire che agisce male.(…)”
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il male che Eichmann incarna è tanto più “banale” quanto terribile perché i suoi servitori più o
meno consapevoli non erano che piccoli, grigi, burocrati.
“ I macellai di questo secolo non hanno la “grandezza” dei demoni: sono dei tecnici, si
somigliano e ci somigliano.”
E Eichamann? Non aveva una coscienza? Del resto, nella vita privata, era un buon marito e
un amorevole padre di famiglia; non era un pazzo squilibrato, un mostro: tutt’altro.
Il fatto è che la coscienza di Eichmann parlava con una voce rispettabile, quella della
rispettabile società che lo circondava: le parole di Hitler avevano forza di legge, erano
vincolanti; Il Fuhrer era l’autorità fatta persona e tutto quello che diceva e proclamava era
giust , alla stregua di un dogma, non si poteva né si doveva mettere in discussione.
(Bauman, 2010)
Del resto, chi mai era Eichmann per contrastare autorità morali e militari come Hitler,
Himmler, Heyrich? Se il loro pensiero si articolava così, necessariamente ciò rappresentava
il giusto, il bene da compiere; Eichmann faceva solo il suo dovere, obbediva agli ordini e
anche alla legge. Non avrebbe potuto fare altrimenti.
Al suo processo Eichmann, spiegò che se riuscì a tacitare la propria coscienza, compiendo
tutti i crimini di sui ci rese colpevole, fu solo perché non vide mai nessuna opposizione o
dubbio alla soluzione finale.
“Secondo l’atto di accusa egli aveva agito non solo di proposito, ma anche per bassi motivi e
ben sapendo che le sue azioni erano criminose. Ma quanto ai bassi motivi, Eichmann era
convintissimo di non essere un “Inner Schweinenhund”, cioè di non essere nel fondo
dell’anima un individuo sordido e indegno; e quanto alla consapevolezza, disse che
sicuramente non si sarebbe sentito la coscienza a posto se non avesse fatto ciò che gli
veniva ordinato-trasportare milioni di uomini, donne e bambini verso la morte- con grande
zelo e cronometrica precisione”
Bauman, nel suo libro “Paura liquida” ci propone una riflessione che riassume i nostri
pensieri al termine della lettura del libro della Arendt:
“Le vittime di Eichmann erano-persone come noi. Ma lo erano (terribile idea) anche molti dei
loro assassini, esecutori agli ordini di Eichmann. E Eichmann? Entrambe le idee grondano di
paura. Ma mentre la prima è un richiamo all’azione la seconda ci blocca e ci rende inabili,
sussurrandoci nell’orecchio che resistere al male è un’impresa vana. Forse è questo il motivo
per cui ci opponiamo così strenuamente a quel secondo pensiero.
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Una sola paura è realmente e disperatamente insopportabile: la paura dell’invincibilità del
male”
Di casi di terribili violenze e massacri compiuti in nome dell’obbedienza ad autorità è pieno il
mondo e la storia: i crimini più terribili sono stati compiuti eseguendo dei semplici ordini
piuttosto che ribellandosi a questi.
A tal riguardo riporto un piccolo brano che illustra un’altra terribile storia di violenza causata
dall’obbedienza all’autorità e dal conformarsi al gruppo di appartenenza, per dimostrare
come i “mostri” non si celino solo sotto la bandiera dell’ideale nazista ma possono trovarsi
anche nei luoghi e sotto bandiere di ideali da noi considerati come buoni e giusti.
"Tra le tattiche utilizzate dagli americani durante la guerra del Vietnam vi era quella di
prendere di sorpresa soldati nemici nascosti nei villaggi effettuando incursioni molto rapide
sotto la guida, dall'alto, degli elicotteri. Nel marzo 1968, una di queste azioni che doveva
distruggere un battaglione di Vietcong si risolse invece in un massacro della popolazione
civile, gli abitanti del villaggio di My Lai.
Contrariamente alle previsioni, infatti, nel paese all'ora programmata non vi erano i
combattenti nemici ma solo gli inermi abitanti del villaggio. I soldati americani, guidati dal
tenente Calley, massacrarono oltre cinquecento persone, commettendo ogni sorta di
atrocità, trucidando spieta-tamente i bambini sotto gli occhi delle madri, violentando le
donne. Questo terribile episodio, contrario a ogni regola del codice militare, costituì senza
dubbio una delle pagine più nere di quella terribile guerra.
Il tenete Calley fu in seguito condannato dal tribunale militare poiché fu ritenuto il principale
responsabile della strage, avendo ordinato ai suoi soldati di sparare e avendo egli stesso
ucciso.
La difesa del tenente si fondò sulla sua obbedienza a ordini superiori. Egli sostenne che per
un soldato qualsiasi ordine era da considerasi lecito e che il compito di un soldato consisteva
proprio nell'eseguire al meglio qualsiasi ordine gli venisse dato.
Per questo motivo, avendo ricevuto l'ordine di eliminare il nemico, egli aveva obbedito, senza
soffermarsi a pensare se le persone che si era trovato di fronte erano uomini o donne o
bambini ma considerando tutti ugualmente come avversari.
La corte marziale non accettò la difesa di Calley e non condivise la sua interpretazione del
dovere militare. Nell'atto di condanna del tenente si fece presente che, se è vero che
l'efficacia di un'azione militare dipende dall'obbedienza agli ordini, "l'obbedienza di un soldato
non è l'obbedienza di un automa. Un soldato è un essere in grado di ragionare e di
rispondere, non una macchina ma una persona" [cit. "Crimes of obedience, towards a social
psychology of authority and responsability" in Kelman e Hamilton 1989].