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Introduzione
Quando ho scelto come argomento della mia tesi l’Ilva di Taranto non sapevo
precisamente a cosa sarei andata incontro. Quello che conoscevo dell’Ilva
l’avevo appreso dai telegiornali e dalle varie notizie di cronaca che
documentavano infortuni, morti sul lavoro, vicende giudiziarie legate alla
famiglia Riva e vari scioperi di operai che temevano la perdita del loro posto di
lavoro. Solo per sentito dire sapevo che a Taranto si moriva di tumore, ma non
avevo la minima idea di a quanto ammontassero i numeri delle vittime, e che
l’Ilva producesse diossina l’avevo scoperto ascoltando la canzone di Caparezza
“Vieni a Ballare in Puglia”, ma nemmeno sapevo quanto fosse pericolosa
questa sostanza. Dopo che il 9 maggio 2013 la Corte Costituzionale con la
sent. n. 85/2013 aveva dichiarato legittima la c.d. legge “salva Ilva”, ho deciso
di approfondire l’argomento per capire di cosa si occupasse esattamente questa
legge e da cosa andasse salvata l’Ilva. Scopro quindi che alla base della
vicenda c’era un conflitto tra due diritti inalienabili: al lavoro e alla salute,
quest’ultima poi indissolubilmente legata all’ambiente, e che la Corte
Costituzionale era stata chiamata a risolvere questo conflitto. Taranto, come
gran parte del sud Italia dove purtroppo la disoccupazione dilaga, è ormai da
molti anni preda di un gravissimo ricatto occupazionale, che si verifica quando
la tutela dell’ambiente e della salute si scontra con la difesa del posto di lavoro;
con la prima conseguenza che i lavoratori scendono in piazza contro il
magistrato che minaccia la “loro” fabbrica, schierandosi oggettivamente al
fianco di chi è la causa di tutto, e cioè l’industriale inquinatore. Nel contempo
mette le une contro le altre due categorie di inquinati, quelli dentro e quelli
fuori la fabbrica, ciascuna portatrice di un fondamentale diritto costituzionale.
Con questa tesi ho voluto analizzare la soluzione adottata dalla Corte
Costituzionale, soffermandomi in particolare sul bilanciamento “drammatico”
tra i due principi costituzionali, entrambi insopprimibili, ma che nel caso
dell’acciaieria tarantina, si sono trovati ad essere controparti di un assurdo
dilemma che non dovrebbe neppure porsi in un Paese civile. Il lavoro senza
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diritti e senza salute regredisce a schiavitù. Nessun corretto sviluppo industriale
può esistere senza il rispetto per la salute e l’ambiente, nessuna attività di
impresa può svolgersi se non rispetta i limiti della libertà, sicurezza e dignità
umana. Questo lo dice la nostra Costituzione, all’art. 41. Spetta allo Stato e alle
sue istituzioni garantire che ciò avvenga, e se la magistratura si vede costretta
ad intervenire, vuol dire che queste istituzioni non hanno funzionato e che chi
doveva controllare non lo ha fatto. Taranto ha ignorato per troppo tempo i
rischi connessi con la presenza di una fabbrica così grande e obsoleta, così a
ridosso di una città di 200 mila abitanti, fino a quando non è intervenuta la
magistratura ordinando arresti e mettendo sotto sequestro gli impianti, facendo
così venire a galla il “sistema Riva”, basato su ricatti e corruzioni, e su facili
profitti ottenuti risparmiando sulle misure di sicurezza per i lavoratori e non
rispettando le norme poste a tutela dell’ambiente, avendo cura di procurarsi
l’appoggio da parte della politica, delle istituzioni, della Chiesa, dei sindacati e
degli operai. Di fronte alla realtà dei fatti la città, anziché essere unita contro il
“padrone delle ferriere” si è divisa in due, configurando così lo scontro assurdo
tra operai e cittadini di Taranto, cioè tra chi non vuole morire di fame e chi
invece non vuole morire di tumore. A Taranto infatti anche fumare è diventato
un lusso che pochi si possono permettere, perché i polmoni sono neri già nei
bambini di 12 anni che mai in vita loro hanno toccato una sigaretta. Ma il
conflitto tra i diritti fondamentali al lavoro e alla salute ha una storia lunga, che
inizia ben prima dell’Ilva di Taranto. Comincia dagli impianti chimici di Porto
Marghera, dall’Italsider di Genova e di Bagnoli, da Casale Monferrato dove
decenni dopo la chiusura dell’Eternit si continua a morire di mesotelioma
pleurico. L’Ilva di Taranto ha però qualcosa di speciale, perché sembra essere
sottratta al naturale corso della giustizia. Sequestrare gli impianti e i capitali di
Riva per sanare quel che Riva ha inquinato è sembrata essere solo una
provocazione, dal momento che dapprima è intervenuto il Governo con il
primo dei decreti legge “salva Ilva”, il 207/2012, che di fatto ha reso inefficace
il sequestro effettuato da parte della magistratura, che aveva sigillato prodotti
finiti e semilavorati per più di un miliardo di euro. Dopo i consueti 60 giorni il
decreto è diventato legge dello Stato e successivamente la legge ha ricevuto la
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benedizione della Corte Costituzionale, la quale ha ritenuto ragionevole il
bilanciamento tra diritto alla salute e diritto al lavoro, realizzato attraverso la
combinazione del d.l. 207/2012 con l’autorizzazione integrata ambientale
riesaminata nel 2012 per l’Ilva. Il problema che mi sono posta è se tale
bilanciamento operato dalla Corte sia stato davvero ragionevole oppure sia
prevalso il criterio della sopportabile compressione, di modo che soltanto il
diritto al lavoro è stato tutelato in modo pieno ed immediato attraverso
l’autorizzazione a proseguire l’attività produttiva, mentre il diritto alla salute è
stato destinato a sopportare rischi maggiori. Quel che è certo è che la soluzione
adottata dalla Consulta non ha risolto i problemi di Taranto, dal momento che
la produzione è continuata senza che fossero rispettati i vincoli dell’Aia,
costringendo il Governo ad intervenire di nuovo, persistendo la situazione di
“necessità e di urgenza”. Dapprima l’Ilva è stata affidata ad un commissario
straordinario che avrebbe dovuto garantire il risanamento ambientale accanto
alla tenuta dei livelli occupazionali, poi, dal momento che le prescrizioni
dell’Aia risultavano troppo difficili da portare a termine, il Governo ha pensato
bene di emanare altre norme ad hoc per alleggerire gli oneri dell’Aia e
prorogarne i termini, oltre a norme specifiche sui finanziamenti all’Ilva al fine
di realizzare in concreto il risanamento ambientale dello stabilimento, troppe
volte annunciato, ma in realtà i finanziamenti erano destinati soprattutto a
garantire i creditori contro il rischio di fallimento dell’Ilva stessa. In questi due
anni, dal primo decreto del 2012, le azioni del Governo italiano sono state
sempre orientate a salvaguardare più l’azienda, dietro la maschera della tutela
dei livelli occupazionali, piuttosto che la salubrità dell’ambiente. Per tali
ragioni l’Italia è andata anche incontro ad una procedura d’infrazione da parte
della Commissione Europea per non aver garantito che l’acciaieria più grande
d’Europa rispettasse la normativa europea in materia di emissioni industriali e
che adottasse le misure correttive necessarie e sostenesse i costi di tali misure
per rimediare ai danni già causati. Inoltre è stata ravvisata l’inadempienza
dell’Italia rispetto alla direttiva sulla responsabilità ambientale, che impone il
principio del “chi inquina paga”. Il caso Taranto è giunto anche in sede di
Parlamento Europeo, grazie al lavoro di privati cittadini riuniti in associazioni
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ambientaliste, che da anni ormai lottano contro il “mostro a due teste”, che da
una parte dà lavoro e dall’altra genera morte. L’Italia - per non trovarsi ad
affrontare anche la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, che potrebbe
imporre pesanti sanzioni pecuniarie, in caso di mancato adeguamento alle
normative europee, - ha risposto al parere motivato della Commissione del 16
ottobre 2014, con l’ennesimo decreto-legge, il settimo dal 2012, con cui l’Ilva
viene posta in amministrazione straordinaria. Questo è solo il primo passo che
porterà verso la nazionalizzazione del siderurgico, - facendo un salto indietro di
vent’anni, quando l’Ilva pubblica venne svenduta ai Riva da parte dell’Iri, -
addossando così i costi del risanamento ambientale sull’intera collettività. Altro
che rispetto del principio del “chi inquina paga”.
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CAPITOLO PRIMO
L’ACCIAIERIA PIÙ GRANDE D’EUROPA: UN MOSTRO A DUE TESTE
1. Origini della vicenda
1.1. Nascita del siderurgico. Da Italsider a Ilva S.p.a.
Il 1 febbraio del 1905 a Genova è costituita la società anonima Ilva (antico
nome latino dell’isola d’Elba, con riferimento alla miniere di ferro elbane). Il
capitale iniziale di 12 milioni di lire controllato dalla Terni sale ben presto a 20
milioni grazie alla partecipazione della società Elba. L’obiettivo del gruppo
Terni-Elba, diretto da una cerchia di industriali e finanzieri genovesi, è di
sfruttare le agevolazioni previste dai piani per lo sviluppo
dell’industrializzazione nel napoletano elaborati dall’allora deputato Francesco
Saverio Nitti. Dopo circa cinque anni tra progettazione e lavori, il 19 giugno
del 1910 viene inaugurato lo stabilimento Ilva di Bagnoli. In seguito alla crisi
del 1907 e al conseguente calo del mercato siderurgico in Italia, si giunge,
attraverso una serie di accordi fra banche ed imprese, alla creazione del
Consorzio Ilva. Vi confluiscono le società Alti Forni, Fonderie e Acciaierie di
Piombino, Elba di Miniere e Altiforni, Siderurgica di Savona e altre minori. Il
consorzio, sotto la guida di Attilio Odero, conferisce all’Ilva per dodici anni il
compito della gestione delle imprese consorziate. Il capitale totale è di circa
130 milioni di lire. La Prima Guerra Mondiale stimola il settore della
siderurgia e permette alle imprese del Consorzio Ilva di accumulare notevoli
capitali. Nell’ottobre 1917 Massimo Bondi riesce ad estromettere dalla
direzione dell’Ilva Odero e a costituire l’Ilva-Alti Forni e Acciaierie d’Italia.
Nel maggio del 1922 l’Ilva viene rilevata dalla Banca Commerciale Italiana,
suo maggior creditore, ma la crisi del 1929 non risparmia il grande
stabilimento siderurgico, il cui indebitamento lo porta sotto il controllo dell’IRI
nel 1934, così da concentrare nelle mani dello Stato tutta l’industria
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siderurgica, da Cornigliano a Bagnoli, da Piombino a Portoferraio
1
. Il nuovo
presidente dell’Ilva è Oscar Sinigaglia, che razionalizza l’impresa puntando sul
rilancio del ciclo integrale e sulla vicinanza degli impianti ai porti, per
facilitare le operazioni di importazione di carbone e materie prime. Le
devastazioni della Seconda Guerra Mondiale si abbattono anche sugli
stabilimenti e sui lavoratori del gruppo Ilva. Finita la guerra occorre rilanciare
l’economia e ricostruire gli impianti andati distrutti, ma l’Ilva affronta da
monopolista del settore lo straordinario boom economico, caratterizzato dalla
motorizzazione di massa e dalla diffusione capillare degli elettrodomestici in
tutte le case degli italiani. E così le automobili e i frigoriferi fanno correre
l’industria dell’acciaio. Sul piano della struttura societaria, nel 1949 la
Finsider, finanziaria che controlla l’intero settore, costituisce la Nuova Italsider
e cominciano i lavori per la costruzione del quarto centro siderurgico a ciclo
integrale a Taranto e quella del complesso di laminazione a freddo di Novi
Ligure. Vengono poi ultimati i potenziamenti di Cornigliano (GE), di Bagnoli
(AV), Piombino (LI) e Trieste (TS). Nel 1961 l’Ilva incorpora la ex Siac-
Cornigliano (fondata nel 1951 a Genova) e muta la denominazione in Italsider
Alti Forni e Acciaierie Riunite Ilva e Cornigliano, fino al 1964 quando assume
la più sintetica denominazione sociale di Italsider, per poi riprendere il nome
Ilva nel 1989. Dopo essere stata disboscata un’area ricolma di alberi d’ulivo, il
9 luglio 1961 viene posata la prima pietra e il 10 aprile 1965 viene inaugurato
da parte del presidente della Repubblica Giuseppe Saragat, lo stabilimento
Italsider di Taranto, con un investimento da 400 miliardi per dare lavoro a 6000
operai. Attraverso l’industrializzazione forzata del Meridione d’Italia, lo Stato
in quegli anni puntava a ridurre il divario tra Nord e Sud del Paese. Quello
tarantino è un impianto siderurgico a ciclo integrale, dove cioè avvengono tutti
i passaggi che dal minerale di ferro portano all’acciaio, il fulcro della
produzione sono i cinque altiforni, che consentono di produrre circa 3 milioni
di tonnellate di acciaio liquido all’anno, portate a 4,5 milioni di tonnellate già
1
CAMPETTI L., Ilva Connection. Inchiesta sulla ragnatela di corruzioni, omissioni, colpevoli
negligenze, sui Riva e le istituzioni., Manni Editore, Lecce, 2013, p. 48.