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Premessa
Nella società attuale è sempre più evidente come nei contesti lavorativi, amicali e sociali la
possibilità di riuscita nel raggiungere un obiettivo, nel fronteggiare imprevisti e situazioni di
disagio, sia strettamente legata alle capacità e risorse personali, sia per sé stessi che nel fornire un
aiuto, un supporto o un vero soccorso a chi si trova in difficoltà. Spesso l‟aiuto - sia esso fatto di
azioni vere e proprie sia anche psicologico, di comprensione e partecipazione - si rivela
fondamentale per superare un ostacolo, un momento di disagio o di transizione, una problematica
emotiva e affettiva, quando la richiesta viene esplicitata e quando resta implicita ma viene recepita.
Ciò che mi ha spinto ad intraprendere questo lavoro è l‟interesse per le potenzialità delle persone
di esercitare un ruolo attivo nel cambiare il corso degli eventi, coinvolgendo loro stesse e mettendo
in campo azioni e comportamenti di aiuto verso chi ne necessita, per riuscire a superare una
difficoltà, per raggiungere un traguardo o nel leggere in maniera alternativa una situazione
complessa.
L‟obiettivo di questa tesi è partire dalle riflessioni, dagli studi teorici e dai contributi di ricerca che
in decenni precedenti sono stati forniti sul comportamento prosociale, per poi giungere ad
approfondire alcune caratteristiche individuali sottese alla tendenza a mettere in atto
comportamenti d‟aiuto. Nello specifico, il presente lavoro prende in esame le determinanti
emotive, sociali e cognitive dell„agire in favore di qualcuno, con la consapevolezza di
comprenderne e percepirne le necessità e il bisogno di supporto.
L‟elaborato ricostruisce un quadro teorico, concentrandosi sugli aspetti del comportamento
prosociale in un contesto lavorativo, esaminandone - attraverso analisi statistica - le correlazioni
tra variabili personali (come l‟empatia, la gestione delle proprie emozioni, l‟impegno civico) e
variabili contestuali (come il supporto percepito nell‟ambiente lavorativo), per poter verificare
come tali componenti promuovano la tendenza a mettere in atto condotte prosociali in generale e
nei luoghi di lavoro.
Nel 1° capitolo, dopo una breve introduzione sulla tematica del comportamento prosociale viene
definito il fenomeno, prendendone in considerazione gli aspetti funzionali alla riuscita, la
reciprocità positiva nelle relazioni interpersonali, la componente empatica e la consapevolezza
delle proprie intenzioni. La definizione è poi seguita da un quadro di insieme che riporta i
contributi teorici più salienti che hanno concorso alla conoscenza e studio del fenomeno, fino a
contributi recenti sullo sviluppo empatico e sulla socializzazione, con evidenze di studi empirici
sulle differenze individuali di genere e dei “tratti” di personalità. La chiusura del capitolo è
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dedicata all‟introduzione del comportamento extra-ruolo e ad un tipo di condotta più specifico che
è il “comportamento di cittadinanza organizzativa” (OCB, Organizational Citizenship Behaviour,
Organ-1988), e a come alcuni studi ne abbiano rilevato l‟importanza all‟interno delle
organizzazioni.
Nel 2° capitolo, il comportamento prosociale viene considerato in relazione a variabili personali e
ambientali che possono promuoverlo oppure ostacolarlo: a) caratteristiche personali come
l‟empatia (Eisenberg e Fabes, 1991), l‟autoefficacia percepita (Bandura, 2001) nei suoi aspetti
emotivi ed empatici, i valori (Schwartz, 1992), il disimpegno morale (Bandura,1999) e civico; b)
caratteristiche contestuali come influenze normative e supporto percepito, con particolare
riferimento al comportamento “extra-ruolo” e all‟impegno organizzativo all‟interno di
un‟organizzazione.
Nel 3° capitolo viene presentato lo studio empirico progettato sulla base delle considerazioni
esposte in precedenza, esplicitandone gli obiettivi, il metodo, il campione, la procedura e gli
strumenti con cui è stato realizzato, all‟interno di un contesto lavorativo; viene poi svolta l‟analisi
dei dati raccolti su alcune delle caratteristiche esposte nel 2° capitolo, esaminandone le
correlazioni, in un campione di 50 soggetti, impiegati in una azienda di telecomunicazioni. Nelle
ultime pagine vengono esposti i risultati, la loro discussione conclusiva e gli eventuali risvolti
applicativi.
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1. IL COMPORTAMENTO PROSOCIALE
1.1 Introduzione
Il termine “prosocialità” che deriva dal prefisso latino “pro”, significante di un “moto in avanti”
(spaziale, temporale e concettuale) e “a favore di”, è oggi un termine con il quale gli psicologi
indicano una tendenza o disposizione individuale a mettere in atto comportamenti che producono
effetti positivi e vantaggiosi per altre persone, senza aspettative di ricompensa (Eisenberg, 1982).
Nell‟ambito della psicologia i ricercatori si sono interrogati sulle funzioni e sui fattori psicologici
che sorreggono l‟azione a beneficio degli altri, per comprenderne le determinanti individuali e
sociali, e sul perché alcuni individui siano più inclini di altri a venire in soccorso delle persone.
All‟inizio l‟interesse è stato per le differenze individuali, di fronte all‟evidenza che alcuni
individui ricorrono più frequentemente a comportamenti prosociali di altri: anche se le situazioni
hanno importanza fondamentale nel facilitare le condotte prosociali, a parità di condizioni, alcuni
più di altri rispondono alle richieste di aiuto oppure si mostrano capaci di aumentarne il benessere
(Roche-Olivar; 1995). Lo studio delle differenze individuali si è poi esteso al di là dei
comportamenti e verso le emozioni, le convinzioni morali, le mete e gli obiettivi collegati ad esse e
la ricorrenza a condotte di aiuto in contesti e tempi diversi ha portato ad indagare quali
organizzazioni mentali potessero assicurare continuità e coerenza alle condotte, quali strutture
mentali potessero governare la tendenza ad operare per il bene altrui (Caprara, 2006, p.8). La
riflessione sulla prosocialità ha orientato la ricerca psicologica oltre lo studio del comportamento
osservato, e ha diretto l‟attenzione ai processi cognitivi e affettivi che sottendono la condotta.
Quindi, la prosocialità appartiene sempre più alle potenzialità e opportunità che l‟esperienza
personale può mettere insieme, e si esplica come una modalità di interazione sociale in cui entrano
in gioco caratteristiche emotive, convinzioni morali, abilità e condizionamenti sociali. La
riflessione sulla prosocialità si è venuta intrecciando con l‟altruismo, inteso come dedizione e
disponibilità incondizionate verso il prossimo: valori come simpatia, benevolenza e generosità
sono stati argomentati come indispensabili per la convivenza sociale (Nagel, 1970; Blum, 1980).
Ma al contrario dell‟altruismo - inteso come un “sentire a favore dell‟altro”, come parte dei
sentimenti, valori e motivazioni che guidano nel desiderare il bene altrui (Caprara, 2006, p.10) - la
prosocialità si distingue come tendenza a far ricorso ad azioni che hanno effetti benefici negli altri,
agendo in modo da realizzare il bene altrui, piuttosto che il solo desiderarlo. La prosocialità
costituisce quindi altra cosa dai propositi altruistici, e rappresenta parte di abitudini, pratiche e
modalità di interazione sociale: l‟efficacia dell‟agire prosociale non dipende solo dai valori e dai
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motivi dell‟individuo, ma è strettamente legata alle capacità di realizzazione e alle sue convinzioni
di poter agire e riuscire.
1.2 Definizione del fenomeno
La prosocialità, intesa come disposizione individuale a mettere in atto un comportamento
prosociale (condotta che produce effetti positivi a vantaggio di altre persone), è stata studiata con
metodi sperimentali a partire dagli anni ‟70, con l‟intento di migliorare le dinamiche sociali e la
salute fisica, oltre a fornire nuove basi per la progettazione educativa scolastica ed incrementare, di
riflesso, il rendimento scolastico collettivo e individuale, grazie all‟unione coerente di motivazioni,
interessi e condotte di cooperazione (Roche-Olivar, 1995; 1997). La disposizione ad aiutare è
inoltre risultata un importante predittore del rendimento scolastico, per un percorso di successo
anche a distanza di anni, oltre che un forte contrasto allo sviluppo di tendenze aggressive o
depressive (Caprara, Barbaranelli, Pastorelli, Bandura, Zimbardo, 2000). Tra le definizioni più
ampie del comportamento prosociale vi sono quelle proposte da Eisemberg (1982), come “azioni
dirette ad aiutare o beneficiare un‟altra persona o gruppo di persone, senza aspettarsi ricompense
esterne” e da Roche-Olivar (1995), che hanno sottolineato il ruolo del destinatario come criterio di
validità ed efficacia dell‟azione prosociale, intesa come “comportamento che, senza ricercare
gratificazioni estrinseche o materiali, favorisce altre persone o gruppi o il raggiungimento di
obiettivi sociali positivi, aumentando la probabilità di dare corso ad una reciprocità positiva e
solidale nelle relazioni interpersonali che ne conseguono, salvaguardando l‟identità e la creatività
delle persone coinvolte”. Altri autori come Fabes e Spinrad (in Eisenberg, Fabes & Spinrad, 2006)
sottolineano l‟orientamento verso gli altri e l‟abilità nel realizzare attività di aiuto come
componenti in forte relazione, uniti alla regolazione ottimale delle emozioni in presenza dell‟altro,
così da evitare reazioni negative o sensazioni di disagio personale. Inoltre, la componente empatica
e il coinvolgimento affettivo (Eisemberg e Fabes, 1998), uniti alla consapevolezza delle proprie
intenzioni, completano l‟immagine della persona prosociale, in grado di comprendere i pensieri
altrui e provare sentimenti simili.
1.3 Contributi teorici
I contributi della ricerca in psicologia sul comportamento prosociale sono giunti da diverse
interpretazioni teoriche della condotta, in un percorso che è partito da assunti teorici basati su
modelli astratti psicoanalitici, per poi porre l‟attenzione prima sui processi di apprendimento e
socializzazione, poi sullo sviluppo delle funzioni cognitive e morali, fino a giungere alle teorie
evoluzioniste e sociobiologiche e infine agli studi più recenti sulle dimensioni di personalità, sullo
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sviluppo e maturazione delle capacità cognitive e dei processi affettivi. Allo scopo di comprendere
il significato della prosocialità dal costrutto all‟azione, è opportuno ripercorrere le interpretazioni
più salienti che ne hanno fornito importanti basi di ragionamento e confronto.
1.3.1 La teoria psicoanalitica: la prosocialità come risoluzione di un conflitto
Secondo Freud (1933) la generosità sarebbe il risultato di un conflitto interno: il Super-io, struttura
con funzione di arbitro della condotta morale, si sviluppa dall‟Io a partire dai cinque o sei anni di
età, come effetto di un graduale processo di identificazione con i genitori e di interiorizzazione dei
loro tratti, valori e comportamenti, favorendo il controllo degli impulsi e condotte in accordo con
gli standard sociali. Quindi, rinunciando a soddisfare fantasie e desideri egoistici, oppure
trovandone un “surrogato” di gratificazione attraverso gli altri, il bambino risolve tale conflitto.
Sulla base di questa teoria, il comportamento prosociale rappresenterebbe un epilogo quasi
naturale, allo stesso modo – sempre secondo Freud – del conflitto “epidico”, per il quale il
bambino – sempre alla stessa età di cinque o sei anni - si “libera” del desiderio quasi erotico della
madre (per il quale vive la non soddisfazione come una punizione) e si identifica anche con la
figura paterna, scoprendone ed imitandone i valori, gli atteggiamenti, i comportamenti.
1.3.2 L’apprendimento sociale: imitazione e osservazione di un comportamento
Mentre la teoria psicoanalitica ha attribuito la ragioni di un comportamento a motivi interni, istinti
di difesa e identificazioni con le figure genitoriali, i fattori fondamentali sarebbero invece – per la
teorie dell‟apprendimento sociale (Bandura, 1977) - le variabili contestuali e ambientali, poiché si
sostiene che gran parte dei comportamenti siano appresi tramite imitazione e modellamento
dall‟ambiente, sulla base di punizioni e ricompense, incoraggiamenti e divieti. Una persona diventa
generosa e attenta a bisogni e necessità degli altri nella misura in cui ne apprende l‟abitudine, con
l‟influenza dei genitori e sulla base di comportamenti rinforzati (con ricompensa o in assenza di
punizione) o non incoraggiati e vietati (senza ricompensa o in presenza di punizione). Sarebbe
fondamentale l‟apprendimento mediante osservazione, imitazione e modellamento, secondo i
principi di rinforzo diretto e secondo condizionamenti di tipo operante (orientati allo scopo di
ricevere ricompense/evitare punizioni), per i quali il bambino viene premiato se la sua condotta è
prosociale, punito se agisce in maniera antisociale. Secondo Bandura (2001), l‟osservazione e
l‟imitazione consentono di apprendere comportamenti prosociali, imparando cosa e come fare, con
effetti di azioni “identiche” che persistono nel tempo e si generalizzano nei vari contesti.