La rappresentazione della vergogna negli spot televisivi italiani -  Emiliano Germani 
 
Introduzione 
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Introduzione  
  
Spesso, forse molto più spesso di quanto possiamo o vogliamo 
immaginare, ci capita di esclamare o pensare frasi del tipo: “Che vergogna!”, 
“Che figura!”, “Come mi vergogno!”, “Ho perso la faccia!”, “Mi sento morire dalla 
vergogna!”. La vergogna occupa in modo costante e pervasivo la nostra realtà 
e la nostra esperienza quotidiane. Eppure ci appare invisibile, misteriosa, 
inafferrabile. Un vero paradosso, quello di un’emozione che sembra tanto più 
presente, quanto più sconosciuta.  
Questa tesi parla della pubblicità, ma considera la pubblicità un 
escamotage per parlare degli uomini, delle interazioni sociali e di una delle 
emozioni più tipicamente umane: la vergogna. 
Una tesi di psicologia sociale ha per suo naturale vocazione l’uomo e gli 
scambi sociali tra uomini. La vergogna ci interessa perché parte 
importantissima e essenziale di tali rapporti. Scrive Giddens: 
 “Il mondo sociale si differenzia da quello della natura essenzialmente a causa del suo 
carattere etico (normativo); si tratta di una differenziazione veramente radicale perché gli 
imperativi etici non presentano alcuna analogia con quelli della natura e in nessun modo 
quindi possono esserne dedotti, pertanto viene esplicitamente dichiarato che l’azione può 
considerarsi come condotta orientata all’attuazione di norme e convenzioni
1
”. 
 
Quando diciamo che la vergogna è un’emozione propriamente umana, 
giustifichiamo questa affermazione in virtù dell’indissolubile legame esistente 
tra le nostre azioni, il rispetto della norma sociale e l’esperienza della vergogna. 
Gli uomini vivono all’interno di un ordine sociale strutturato e governato da un 
insieme di regole; se le regole vengono violate, la vergogna è una delle 
punizioni più dolorose riservate al trasgressore.  
La pubblicità, specie quella televisiva, sembra essere in grado di 
recepire l’importanza di tale meccanismo e di rappresentare la complessità 
della vergogna come fenomeno sociale.  
Nel momento in cui parliamo di “rappresentazione” della vergogna, ci 
riferiamo al senso che questo termine assume in relazione a un modello 
drammaturgico dell’esistenza e dei rapporti umani. Ispirandoci al pensiero di 
Erving Goffman possiamo considerare gli uomini come degli attori intenti a 
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rappresentare un personaggio (o più personaggi) sulla base di modelli e regole 
di condotta socialmente codificati. La parola “rappresentazione” assume, 
quindi, il valore di “messa in scena”; non nel senso di inganno o falsa 
apparenza, ma in quello propriamente teatrale di interpretazione di un ruolo e 
comunicazione di significati ad esso legati.  
La tesi di fondo del modello drammaturgico è che gli uomini tentano di 
esercitare un continuo e costante controllo sulle proprie azioni ed espressioni, 
cioè sulla rappresentazione del proprio sé, che costituisce per gli altri una fonte 
di informazione e giudizio. 
Naturalmente, il problema principale di ogni individuo è la corretta 
proiezione del sé nel corso delle normali interazioni con gli altri. Ognuno di noi, 
cioè, si sforza di esternare e comunicare quegli aspetti della propria identità che 
risultano coerenti con un’immagine di sé connotata positivamente. E’ ciò che 
Goffman definisce buona immagine di sé o faccia: 
“la faccia di una persona non è evidentemente qualcosa che fa parte del suo corpo, ma 
piuttosto qualcosa che è diffuso nel flusso degli eventi che hanno luogo durante l’incontro e 
che diviene manifesto soltanto quando di questi eventi vengono interpretate le valutazioni che 
in esso sono espresse
2
” 
 
La faccia è il valore che la società attribuisce alle varie definizioni del sé. 
Essa è oggetto costante di osservazione e valutazione. Colui che appare 
incapace di proiettare un'immagine di sé coerente con le aspettative degli altri e 
le richieste del contesto sociale è soggetto al giudizio di inadeguatezza, e la 
sua punizione consiste nella vergogna.  
La vergogna appare come un meccanismo sociale con due volti. Uno si 
rivolge sempre all’individuo, spingendolo con forza a adeguarsi e dimostrarsi 
socialmente adatto. L’altro si rivolge al complesso sociale, e agisce come 
strumento di difesa nei confronti di ciò che appare contrario ai valori e alle 
norme condivise, quindi potenzialmente minaccioso per l’ordine stabilito. Ciò 
che è inadeguato, diverso, inadatto, appare pericoloso e disturbante, e per 
questo diventa oggetto di rifiuto e esclusione. 
La pubblicità è una rappresentazione della realtà e dei suoi modelli di 
interazione. Una rappresentazione mirata alla realizzazione di particolari finalità 
di natura commerciale. Quando l’interesse della pubblicità si concentra sulla 
                                                                                                                                               
1
 Giddens A., “Nuove regole del metodo sociologico”, Il Mulino, Bologna, 1979, p. 132, cit. 
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vergogna dobbiamo quindi pensare che ciò avvenga coerentemente a tali 
finalità. La pubblicità mette in scena i rapporti degli uomini tra loro, la reazione 
all’inadeguatezza, l’effetto della vergogna sull’individuo e sui suoi rapporti 
interpersonali, nonché le possibili soluzioni al disagio e allo smarrimento 
connessi all’esperienza di vergogna.  
In questo senso identifichiamo un secondo significato dell’espressione 
“rappresentazione della vergogna”, intesa come “messa in scena” a carattere 
teatrale di un’emozione in rapporto alle finalità commerciali della pubblicità.  
Infine, facendo riferimento alla teoria delle rappresentazioni sociali, 
proveremo ad individuare una terza dimensione della “rappresentazione della 
vergogna”. Se la vergogna è legata all’insieme dei significati che ognuno di noi 
tenta di applicare alla definizione del proprio sé, dei rapporti con gli altri 
individui e della realtà sociale, è probabilmente possibile identificare un 
“immaginario collettivo” della vergogna, ricco di valori, simboli e strutture di 
senso largamente condivise e capaci di caratterizzare e spiegare un dato 
assetto dell’organizzazione culturale e materiale dei rapporti sociali.  
In questa prospettiva, la vergogna appare un fenomeno propriamente e 
profondamente sociale perché basato su modi “socialmente condivisi” di 
interpretare la realtà. Come scrive Kurt Lewin: “La realtà per l’individuo è in 
grande misura determinata da ciò che è convenzionalmente accettato come 
realtà”. 
 
                                                                                                                                               
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 Erving Goffman, “Modelli d'interazione”, Il Mulino, Bologna, 1971b, pag. 9, cit. 
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Le emozioni 
 
La vergogna è un’emozione. Quindi per capire cosa è la vergogna 
dobbiamo prima comprendere cosa è un’emozione. Tuttavia, ci accorgiamo 
subito che non si tratta di un’impresa facile.  
 Ognuno di noi possiede una nozione intuitiva di cosa sono le emozioni, 
sia perché le viviamo direttamente (esperienza soggettiva), sia perché siamo in 
grado di riconoscerle negli altri (espressione emotiva). 
 Sarebbe più corretto dire che ciascuno di noi sa cosa è “per lui” 
un’emozione. Infatti, anche se utilizziamo tutti le stesse parole per parlare delle 
diverse emozioni, non è assodato che intendiamo descrivere esattamente le 
stesse esperienze. Quando si parla di emozioni in generale, o più 
semplicemente di una singola emozione, non si possono dare definizioni 
univoche e precise, perché ci confrontiamo con una classe variegata di 
fenomeni accomunati da somiglianze facilmente intuibili a livello di senso 
comune, ma sulla cui essenza è difficile raggiungere un accordo. Ecco perché 
spesso risulta difficile spiegare le emozioni o parlare delle emozioni. In altri 
casi, è necessario un processo di negoziazione sociale per riconoscere le 
emozioni, come succede quando parliamo con gli altri per stabilire quale 
emozione effettivamente stiamo sperimentando o abbiamo sperimentato. 
Senza contare che una vasta serie di fattori – natura e caratteri della 
situazione-stimolo, ambiente sociale, condizioni psicofisiche – possono 
influenzare il vissuto e la percezione delle emozioni, modulando per la stessa 
emozione una serie di manifestazioni fenomeniche assai differenziate; si può 
essere tristi, arrabbiati o spaventati in tanti modi differenti, secondo le influenze 
interne e esterne del momento. 
Non dobbiamo, tuttavia, pensare che non esista alcuna possibilità di 
caratterizzare con sufficiente certezza un’emozione rispetto alle altre. A grandi 
linee è possibile individuare per alcune emozioni una peculiare specificità, cioè 
un nucleo significativo di componenti che ricorrono contemporaneamente con 
grande frequenza. E poiché le emozioni sono fenomeni multiformi e complessi, 
il loro riconoscimento si fonderà sulla valutazione di un'articolata varietà di 
elementi.  
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In questo senso, una buona definizione di emozione è stata data da 
Kleinginna e Kleinginna: 
“L’emozione è un insieme complesso di interazioni tra fattori soggettivi e oggettivi, 
mediati da sistemi neurali/ormonali, che può: a) suscitare esperienze affettive come senso di 
eccitazione, di piacere e dispiacere; b) generare processi cognitivi come effetti percettivi 
emozionalmente rilevanti, valutazioni cognitive, processi di etichettamento; c) attivare 
adattamenti fisiologici diffusi di fronte a condizioni di eccitamento; d) condurre a un 
comportamento che spesso, ma non sempre, è espressivo, diretto a uno scopo e adattivo
3
”. 
 
Sulla base di questa formula definitoria, possiamo dire che l’esatto 
riconoscimento di una specifica emozione presuppone sempre una valutazione 
globale dei peculiari processi neuro-psicologici, psico-fisiologici, cognitivi e 
comportamentali legati all’emozione stessa.  
Le dimensioni delle emozioni 
Come già accennato, in ogni emozione è possibile distinguere due 
dimensioni fondamentali: l’esperienza soggettiva (o vissuto) e l’espressione 
emotiva (o tonalità emotiva). La prima consiste nella diretta percezione delle 
modificazioni fisiologiche, emotigene e cognitive indotte in noi stessi dal 
manifestarsi di un emozione. L’espressione emotiva rappresenta, invece, il 
complesso di modificazioni indotte nel comportamento e nell’aspetto degli altri 
da un emozione, che ci consentono di riconoscere negli altri la presenza 
dell’emozione stessa; ad esempio, capiamo che qualcuno si sta vergognando 
perché lo vediamo arrossire, abbassare la testa, irrigidirsi, etc.. In questo 
senso, alcuni hanno parlato dell’espressione emotiva come qualità fisiognomica 
[Werner 1957], in quanto complesso di elementi capaci di comunicare e 
definire semanticamente con immediatezza un’emozione. 
Le componenti delle emozioni 
Possiamo riconoscere all’interno di ogni emozione alcune componenti 
fondamentali [v. Battacchi 1992, Lewis 1995]: 
• risposte fisiologiche: attivazione del sistema nervoso autonomo, 
endocrino e immunitario; 
                                                 
3
 Kleinginna P. R. jr e Kleinginna A. M., “A categorised list of emotional definitions with 
suggestions for a consensual definition”, in “Motivation and Emotion”, 1981, pp. 345-379, cit.  
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• risposte tonico-posturali: modificazione dell’atteggiamento, della 
posizione e della tonicità (tensione o rilassamento) del corpo; 
• risposte comportamentali: esibizione di comportamenti o azioni 
specifiche, come aggredire, scappare, nascondersi, etc., oppure 
modificazioni nella struttura del linguaggio (balbettare, commettere 
lapsus linguae, etc.). A volte, l’emozione determina nell’individuo solo 
uno stato di prontezza a compiere determinate azioni o comportamenti; 
• risposte espressive: mimica facciale, gestualità delle mani, tonalità e 
modulazioni della voce, etc.; 
• risposte cognitive: modificazione dei modi di percezione e 
interpretazione di sé e della realtà esterna; 
• esperienza emotiva o feeling; il sentire che si sta provando 
un’emozione.  
Le funzioni delle emozioni 
E’ possibile identificare tre funzioni fondamentali delle emozioni [v. Buck 
1984]:  
• preparazione o reazione all’emergenza (reazioni fisiologiche, tonico-
posturali e comportamentali); 
• comunicazione con gli altri (risposte espressive); 
• comunicazione con se stessi (esperienza emotiva). 
Sembra importante ricordare, come fa Battacchi, che si può parlare di 
funzioni, ma non di scopi delle emozioni:  
“Parleremo sempre di funzioni e non, come altri fanno, di scopi, perché si vuole 
denotare l’effetto sistematico di un dato comportamento, a prescindere dall’eventuale 
intenzione di raggiungere quell’effetto (e in tal caso sarebbe appropriato paralare di scopi). La 
paura, ad esempio, ha la funzione (cioè l’effetto) di segnalare che si è in pericolo, o di togliere 
dal pericolo, ma sarebbe improprio dire che ha lo scopo di togliere dal pericolo o di 
segnalarlo, così come sarebbe improprio dire che il mal di denti ha lo scopo di segnalare la 
carie. Un’emozione, insomma, in quanto comportamento, non ha una motivazione (o scopo) 
esterna ad essa, ma è automotivata
4
”.  
                                                 
4
Battacchi M. W. e Codispoti O., “La vergogna”, Il Mulino, Bologna, 1992, pag. 11, cit. 
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Classificazione delle emozioni 
Quasi tutti gli autori concordano nel riconoscere la possibilità di 
distinguere le emozioni in due gradi categorie: le emozioni primarie o 
fondamentali o semplici, e le emozioni complesse o secondarie. Tuttavia, 
non esiste un consenso univoco su quali siano le emozioni appartenenti ai due 
gruppi e su come giungere alla loro classificazione.  
Secondo alcuni, la distinzione dovrebbe basarsi su considerazioni di 
ordine filogenetico e ontogenetico, per cui le emozioni primarie la cui 
espressione è invariabile transculturalmente, e che sarebbero presenti già nei 
bambini al di sotto di un anno e addirittura nei primati superiori.  
In altri casi, la distinzione è affidata a considerazioni di ordine linguistico, 
per cui le emozioni primarie sarebbero quelle utilizzabili per descrivere il 
contenuto di altre emozioni (che per questo motivo sono dette complesse)
5
. In 
questo senso, la vergogna sarebbe un’emozione complessa perché si può 
descrivere il suo contenuto riferendosi a emozioni come la paura, il dispiacere, 
la tristezza, la pena, etc..  
Emozioni autoconsapevoli  
Secondo M. Lewis le emozioni complesse si distinguono da quelle 
primarie perché le prime presuppongono una riflessione su di sé, o 
autoconsapevolezza oggettiva [Lewis 1995].  
Ogni organismo, come una macchina, svolge un costante monitoraggio 
degli stati e delle attività interne. Le variazioni dei livelli di attivazione fisiologica, 
del ritmo della respirazione, della frequenza cardiaca vengono immediatamente 
registrate. Questo livello di esperienza viene definito esperienza soggettiva o 
autoconsapevolezza soggettiva.  
                                                 
5
 Un’interessante metodo per distinguere le emozioni primarie da quelle complesse è stato 
proposto da Plutchick, secondo il quale un’emozione primaria: 1) ha rilevanza in ordine a 
processi biologici e adattivi; 2) è rintracciabile in qualche forma a tutti i livelli dell’evoluzione 
3) non necessita dell’introspezione. Quest’ultimo principio è coerente con la teoria delle 
emozioni autoconsapevoli abbracciata dalla presente ricerca. (Plutchik R., “The Emotions: 
Facts, theories, and a new model”, Random House, New York, 1962) 
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L’esperienza oggettiva o autoconsapevolezza oggettiva, invece, consiste 
nell’attivazione di particolari processi cognitivi e valutativi centrati sul sé [Lewis 
1995]. 
Per comprendere meglio la differenza tra i due fenomeni ricorriamo a un 
esempio concreto. Se ci troviamo di fronte a un pericolo reagiamo con uno 
stato di paura. Il nostro organismo registra immediatamente le variazioni dello 
stato di attivazione fisiologica prodotte dall’emozione (battito accelerato, 
sudorazione, affanno, etc.), e in ciò consiste l’esperienza soggettiva. Per capire 
che si tratta di paura, tuttavia, dobbiamo riflettere su noi stessi e sull’esperienza 
e giungere a una definizione del tipo: “Io provo paura”. Questo secondo 
processo, di natura eminentemente cognitiva, e ciò che abbiamo definito 
esperienza oggettiva [v. Lewis 1995].  
“Seguendo la terminologia proposta da Duval e Wicklund uso autoconsapevolezza 
oggettiva per designare l’atto dell’organismo che si volge verso di sé, a quello che sa, che 
progetta o desidera, e autoconsapevolezza soggettiva per tutti quei processi e sistemi che 
hanno conoscenza del mondo ma cui non prestiamo (o non possiamo prestare) attenzione
6
”. 
 
Si ha autoconsapevolezza oggettiva quando la nostra attenzione è rivolta 
all’interno e siamo soggetti coscienti di una coscienza indirizzata su noi stessi. 
Si ha, invece, autoconsapevolezza soggettiva quando la nostra attenzione è 
rivolta al mondo esterno e diventiamo soggetti coscienti di una coscienza 
indirizzata fuori di noi [Lewis 1995]. Si ha autoconsapevolezza oggettiva 
quando il sé riflette su se stesso, viceversa, si ha autoconsapevolezza 
soggettiva quando il sé è volto alla conoscenza di oggetti esterni. Scrive M. 
Battacchi: 
“Come in ogni atto linguistico vi sono un enunciato espresso e delle presupposizioni 
rimaste inespresse o implicite ma necessarie per comprendere l’enunciato, così in ogni atto 
psichico, ad esempio percettivo, v’è la percezione attuale di qualcosa ma insieme la 
consapevolezza latente del percipiente di stare percependo qualcosa. Per riunire in un solo 
esempio l’atto linguistico e l’atto psichico in generale, se si dice: « C’è un albero laggiù », 
rimane inespressa la presupposizione autoreferenziale « Io vedo che… », così come nel 
percepire un albero laggiù rimane latente la consapevolezza del percipiente di stare 
percependo un albero laggiù. Questa è l’autoconsapevolezza soggettiva […]. Se si dice invece 
« Io vedo che c’è un albero laggiù », la presupposizione autoreferenziale viene espressa, così 
come il percipiente può prendere come oggetto di consapevolezza non l’oggetto della 
percezione ma il suo stesso percepire […]. Questa seconda forma di autoconsapevolezza è 
l’autoconsapevolezza oggettiva
7
”.  
 
                                                 
6
 Lewis M., “Il sé a nudo”, Giunti, Firenze, 1995, pag. 56, cit. 
7
 Battacchi 1992, pag. 14, cit. 
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I due livelli di autoconsapevolezza possono essere presenti
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 in tutti i tipi 
di emozione. Tuttavia, nel caso delle emozioni primarie l’autoconsapevolezza 
oggettiva è necessaria solo per avere esperienza cosciente dell’emozione; al 
contrario, le emozioni secondarie non potrebbero nemmeno prodursi senza 
autoconsapevolezza oggettiva. Ad esempio, per provare vergogna occorre 
prima riflettere sul proprio sé e confrontarlo con norme e modelli esterni 
(autoconsapevolezza oggettiva); l’eventuale fallimento del confronto genera un 
giudizio di inadeguatezza e porta alla manifestazione della vergogna 
(consapevolezza soggettiva) [Lewis 1995].  
Le emozioni autoconsapevoli richiedono sempre una valutazione di sé in 
relazione al contesto sociale e situazionale.  
Possiamo definire emozioni autoconsapevoli o self-conscious 
emotions o emozioni secondarie, tutte quelle esperienze di natura emotiva che 
per prodursi necessitano dell’autoconsapevolezza oggettiva.  
Funzione reattiva e funzione adattiva delle emozioni 
Un’importante distinzione tra emozioni primarie e emozioni 
autoconsapevoli riguarda il loro valore per l’individuo.  
In linea generale, le emozioni primarie corrispondono a reazioni 
necessarie ad un immediato adeguamento degli stati interni dell’organismo nei 
confronti di stati che si verificano nell’ambiente esterno. In questo senso, si può 
parlare di una funzione reattiva delle emozioni primarie
9
. Esemplificando, 
proviamo paura quando avvertiamo una modificazione dell’ambiente esterno 
percepibile nei termini di un pericolo.  
Lo sviluppo delle emozioni autoconsapevoli, invece, richiede un 
complesso processo cognitivo, che implica la valutazione di se stessi, del 
contesto e di una serie di elementi connessi a norme, valori, modelli e standard 
                                                 
8
 Il condizionale è d’obbligo. Può capitare di sperimentare un’emozione senza esserne 
coscienti. Ad esempio, si può essere arrabbiati senza rendersene conto coscientemente.  
9
 Secondo Johnson-Laird e Oatley esistono cinque emozioni fondamentali (felicità, tristezza, 
paura, rabbia e disgusto) che funzionano come segnali interni per comunicare la necessità di 
attivarsi e predisporre all’azione. Queste emozioni sono trasmesse per via ereditaria e possono 
svilupparsi anche al di là di ogni esperienza cosciente, poiché risultano necessarie ai fini della 
sopravvivenza della specie e dell’individuo. (Johnson-Laird N. P. e Oatley K., “Il significato 
delle emozioni: una teoria cognitiva e un’analisi semantica”, in D’Urso V. e Trentin R., 
“Psicologia delle emozioni”, Il Mulino, Bologna, 1988) 
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sociali. In questo senso si può parlare di una funzione adattiva delle emozioni 
autoconsapevoli. Ad esempio, proviamo vergogna quando ci giudichiamo 
inadeguati rispetto a determinati standard sociali, ma la vergogna può avere la 
funzione automatica di spingerci verso un adeguamento agli standard (funzione 
adattiva della vergogna). 
In questo senso, le emozioni autoconsapevoli sono emozioni 
propriamente umane e sociali, perché richiedono la capacità di riflettere 
coscientemente sul sé (propria solo degli esseri umani) e perché emergono 
solo a seguito dell’interiorizzazione, mediata dai processi di socializzazione, di 
una serie di norme, modelli e scopi sociali.   
Il lessico delle emozioni 
Il vocabolario con cui ci si riferisce alle emozioni è abbastanza vario e 
articolato, per cui a volte si rischia di incorrere in una certa confusione 
terminologica, non solo nel parlare comune, ma anche nella letteratura 
scientifica. In primo luogo è bene ricordare che esiste differenza tra emozione e 
sentimento, e non in tutti i casi i due termini sono intercambiabili. Nella tabella 
che segue vengono illustrati, in rapporto a varie dimensioni, i caratteri distintivi 
dei due fenomeni. 
Tabella 1 – Emozioni e Sentimenti 
Dimensioni Differenze Caratteri 
Durata  Le emozioni sono meno 
durevoli dei sentimenti 
 
Contenuto 
cognitivo 
I sentimenti sono più 
strutturati cognitivamente 
delle emozioni 
Si può provare rabbia (emozione) senza 
sapere contro chi o per quale motivo, ma 
non si può provare vergogna (sentimento) 
senza conoscerne la ragione precisa 
Complessità  Un sentimento può 
comprendere la presenza 
di più emozioni, ma non 
viceversa 
Quando ci si vergogna (sentimento) si 
può provare rabbia, pena, tristezza etc.; la 
paura può essere correlata a un’altra 
emozione, ma non può contenerla come 
carattere specifico.   
 
L’emozione deve poi essere distinta dalla motivazione o pulsione, nel 
senso di bisogno primario (fame, sete, sesso). La pulsione può essere oggetto 
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dell’emozione (paura della fame, paura della sete, etc.) e la presenza di 
un’emozione può attenuare la portata di una pulsione (ad esempio, se si è 
troppo tristi o troppo felici si attenua la percezione della fame o della sete) 
[Battacchi 1992]. 
Si può distinguere l’emozione dal tratto emotivo: ad esempio, la 
vergogna è un’emozione, mentre la timidezza è un tratto emotivo. 
Infine, le emozioni si differenziano dall’umore o tono affettivo (mood), nel 
senso di disposizione affettiva diffusa e durevole (euforia, depressione, etc.) 
[Battacchi 1992]. 
Teorie sulle emozioni 
Possiamo identificare tre diversi approcci allo studio delle emozioni, 
ognuno dei quali, tuttavia, non rappresenta affatto un ambito di studio 
rigidamente separato rispetto agli altri.  
L’approccio biologico, il cui fondatore può essere considerato Charles 
Darwin [Darwin 1971], collega il manifestarsi delle emozioni alle modificazioni 
degli stati fisiologici interni. Secondo Darwin, ogni specie è dotata di alcune 
emozioni fondamentali caratteristiche, le quali svolgono un’importante funzione 
ai fini della sopravvivenza dell’individuo e della specie stessa. Per esempio, la 
paura è una reazione naturale al pericolo, un segnale che ci induce a cercare 
riparo e protezione. Viceversa, la rabbia è una risposta emotiva geneticamente 
privilegiata al superamento degli ostacoli che impediscono il raggiungimento di 
particolari scopi legati alla sopravvivenza [Plutchik 1980].  
Uno dei principali limiti dell’approccio biologico consiste nel fatto che non 
si è mai potuto dimostrare alcun legame specifico ed esclusivo tra un’emozione 
e una particolare sequenza di reazioni fisiologiche. Oltre all’esistenza di 
differenze fisiologiche macroscopiche, la distinzione tra un’emozione e l’altra è 
molto difficile. Un altro difetto è certamente la tendenza a trascurare 
l’importanza dei fenomeni cognitivi.  
L’approccio cognitivo valorizza il rapporto tra gli effetti della percezione 
individuale e il manifestarsi delle emozioni. Ad esempio, non si può affermare 
che esistano situazioni o eventi capaci di stimolare automaticamente la paura, 
perché il verificarsi dell’emozione dipende dal punto di vista del soggetto, cioè 
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dalla sua conoscenza e percezione del mondo. Se le emozioni fossero 
rigidamente codificate nei geni della specie, tutti gli uomini proverebbero paura 
nelle stesse situazioni; ma sappiamo che non è così, e che anzi le reazioni 
emotive ad una stessa situazione possono essere molto diverse da individuo a 
individuo, e per lo stesso individuo in momenti differenti.  
Una delle linee di ricerca più interessanti nell’ambito dell’approccio 
cognitivo è quella che fa capo alla teoria bifattoriale delle emozioni di Stanley 
Schacter [Schacter 1964]. Secondo questa teoria, tutte le emozioni hanno inizio 
con uno stato di attivazione fisiologica generalizzata (primo fattore) che poi 
viene interpretato attraverso un processo di classificazione cognitiva 
condizionato dalle regole sociali (secondo fattore).  Un classico esempio è dato 
dal sentimento amoroso. Quando ci sentiamo attratti da un individuo di sesso 
opposto le regole sociali prevedono la classificazione (etichettamento) 
dell’emozione come amore, infatuazione o attrazione sessuale. Se invece 
siamo attratti da un individuo del nostro stesso sesso, classifichiamo l’emozione 
come amicizia, ammirazione, lealtà, etc..  
Un altro elemento importante nella definizione delle emozioni è 
rappresentato dall’influenza della negoziazione sociale, come sostengono le 
ricerche sulla riattribuzione degli stati emotivi [Nisbett e Schachter 1966, 
West e Wicklund 1980]. Poiché le sensazioni legate alle differenti emozioni 
sono ambigue, un fattore di fondamentale importanza nel riconoscimento degli 
stati emotivi sarebbe dato dalla ricerca del consenso sociale sulla “giusta 
definizione”.  
L’importanza dell’ipotesi cognitiva risiede nel riconoscimento del peso 
dei fattori di influenza sociale sulla manifestazione e determinazione delle 
emozioni. Tuttavia, anche questo approccio non è esente da limiti e critiche. Gli 
esperimenti condotti per la conferma delle teorie di Schacter non hanno sempre 
dato risultati univoci e inconfutabili [Reisenzen 1983]. Inoltre, si è ottenuta 
conferma di come lo stato di attivazione fisiologica (primo fattore di Schacter) 
non sia affatto un requisito indispensabile per sperimentare un emozione. Ci si 
può sentire tristi o felici senza che all’interno dell’organismo avvenga alcuna 
modificazione fisiologica [Reisenzen 1983]. Addirittura, si è verificato che molti 
individui non manifestano attivazione fisiologica se prima non viene loro chiarito 
che tipo di emozioni stanno provando [Maslach 1979].  
La rappresentazione della vergogna negli spot televisivi italiani -  Emiliano Germani 
 
Introduzione 
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Un terzo percorso di ricerca è offerto dalla teoria delle emozioni come 
prestazione sociale. Coerentemente con la teoria goffmaniana che considera 
gli individui attori sociali intenti a recitare delle parti, possiamo immaginare che 
ogni individuo abbia la capacità, più o meno sviluppata, di esibire le emozioni 
più appropriate nelle diverse situazioni sociali, seguendo precise regole di 
comportamento. Le emozioni sarebbero, in questo senso, parte integrante di un 
rituale di scambio sociale [Goffman 1969, 1971a, 1983; Elias1988, 1998].  
Naturalmente, la teoria delle emozioni come prestazione sociale non 
esclude l’intervento di fattori biologici e cognitivi. Viene però esaltata 
l’importanza dei fattori di influenza sociale: regole, norme, valori e modelli 
socialmente condivisi, natura e sviluppo dei rapporti interpersonali. 
Secondo molti studiosi, gli scambi sociali sarebbero regolati da veri e 
propri copioni [Gagnon 1973; Schank e Abelson 1977; Conway e Bekerian 
1987], cioè sequenze di comportamento ispirate dalle norme sociali che 
determinano anche le emozioni più adatte alle varie situazioni.  
Esibire l’emozione più corretta in ogni occasione è considerato un vero e 
proprio “dovere morale”. Se a manifestazione delle emozioni fosse rigidamente 
determinata, frasi del tipo: “dovresti vergognarti!” non avrebbero alcun senso. 
Ogni comportamento, secondo Goffman, ha la funzione di esercitare un 
controllo sull’impressione che comunichiamo agli altri. La soddisfazione della 
nostra vita sociale e lo sviluppo di relazioni umane soddisfacenti dipende anche 
dalla nostra competenza emotiva. Luigi Anolli definisce competenza emotiva: 
“[…] la capacità tipicamente umana di comprendere, riconoscere e rispondere in 
modo coerente alle emozioni altrui, nonché di regolare la manifestazione delle proprie 
esperienze emotive in modo appropriato al contesto di riferimento 
10
”.   
 
Questo studio cercherà di dimostrare che, pur essendo rilevante 
l’intervento di fattori di natura fisiologica e cognitiva, le emozioni, e nella 
fattispecie la vergogna, possono essere considerate delle vere e proprie 
prestazioni sociali, funzionali allo scambio comunicativo tra gli individui e al 
corretto svolgimento dei rapporti interpersonali.  
                                                 
10
Anolli L., “La Vergogna”, Il Mulino, Bologna, 2000, pag. 78, cit.