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INTRODUZIONE
La scelta di questa tematica per il mio lavoro di tesi è nata dal
desiderio di approfondire un argomento ancora poco conosciuto in
Italia, non ancora inquadrabile nelle ordinarie categorie diagnostiche
presenti nel DSM-V.
Il termine giapponese “hikikomori” significa ritiro sociale e indica una
modalità con cui alcune centinaia di migliaia di giovani hanno
“deciso” di esprimere il proprio male di vivere. Sono adolescenti, in
prevalenza maschi, che si sottraggono a tutto e a tutti chiudendosi
nella loro stanza: non vanno più a scuola e non frequentano più
nessuno, spesso si rifiutano anche di parlare con i propri familiari.
Hikikomori è una parola usata per indicare sia il fenomeno che la
persona che ne soffre.
A partire dal 1990, questa forma di ritiro sociale estremo è diventata
un serio problema psico-sociale in Giappone a causa della sua enorme
diffusione.
Ciò nonostante, attualmente esistono pochi studi psicopatologici al
riguardo e non può essere ancora definita una diagnosi psichiatrica.
Gli hikikomori, o “ragazzi tartaruga”, sono espressione di una società
fortemente competitiva che lascia poco spazio all’iniziativa personale,
in cui l’insuccesso è vissuto come un’intollerabile fonte di vergogna
ed è spesso causa di emarginazione sociale. Approfondire la
dimensione socio-culturale nipponica è pertanto fondamentale al fine
di portare alla luce il rapporto esistente tra psicopatologia e
manifestazioni culturali, cercando dunque di individuare gli stressor
sociali che determinano il manifestarsi di questo fenomeno in un
soggetto vulnerabile.
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La cultura è vista come una struttura specifica di origine sociale che
contiene e rende possibile il funzionamento dell’apparato psichico. A
tal riguardo, Beguin, già nel 1952, affermava che “si è folli in rapporto
ad una data società”
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.
Non può esistere, infatti, alcun processo psichico senza l’esistenza di
un filtro culturale che fornisca gli strumenti necessari per l’interazione
della persona con il mondo (Aguglia et al., 2002 pag.2645-72).
La società giapponese si basa su due concetti fondamentali, quello di
amae (dipendenza) e quello di wa (armonia). La solidarietà e la
dipendenza dall’altro come forma di controllo sociale, a discapito
della libertà individuale, risultano essere i maggiori punto di contrasto
tra la cultura nipponica e quella occidentale. In Occidente, in genere,
una persona viene considerata libera quando è indipendente dagli altri.
I giapponesi al contrario ritengono di essere liberi quando riescono a
realizzare, all’interno delle relazioni amicali ed in quelle cooperative,
una vera reciprocità nell'offrire e nell'ottenere indulgenza. Se si pensa
che i proverbi sono lo specchio delle società in quanto ne riflettono
costumi e credenze, per evidenziare la profonda differenza tra la
cultura occidentale e quella giapponese basta citarne due tra i più
rappresentativi di entrambe. In Occidente si è soliti dire "chi fa da sé
fa per tre", che di per sé già suggerisce di affidarsi unicamente alle
proprie forze e capacità; in Giappone, invece, è molto comune sentir
dire "in viaggio è necessario un compagno; nella vita, la
compassione", da cui si evince come lo spirito di appartenenza ad un
gruppo sia per loro di primaria importanza.
“Noi giapponesi crediamo agli occhi degli altri.” - scrive il dottor
Saito Tamaki –“Ci preoccupiamo di come ci vedono. Siamo molto
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Beguin A, Qui est fou?,1952.
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sensibili al giudizio altrui e ci fa male essere disprezzati”
(Pierdominici, 2008).
Quella nipponica è una “società della prestazione”, all’interno della
quale la devozione passiva, il senso di obbligo (giri) e la vergogna
(aimai) sono usati al fine di incrementare la capacità realizzativa dei
suoi membri, e in cui l’individuo viene considerato solo come un
“essere sociale” (social self) privo di una propria identità personale.
Ed è proprio da questo svilimento che possono nascere forme di
ribellione, anche silenziose, come il fenomeno “hikikomori”.
Il recente interesse in Italia per questa patologia si è manifestato in
seguito alla scoperta di alcuni casi nel Sud del paese, dove la struttura
familiare di tipo matriarcale ripropone quella familiare giapponese.
Secondo gli studiosi giapponesi la cultura giapponese e quella italiana
sono accomunate dalla tendenza dei genitori a “trattenere” in casa i
figli oltre una certa età.
Questo fenomeno favorirebbe l’espressione del disagio giovanile
attraverso l’autoreclusione, caratteristica dell’hikikomori, piuttosto
che attraverso modalità maggiormente aggressive come il bullismo o i
“comportamenti di branco”.
Credo inoltre sia necessario considerare la possibilità che il fenomeno
hikikomori sia il primo segnale di un disturbo più ampio all'interno
della società odierna in generale. Non può essere solamente un caso il
fatto che milioni di adolescenti, che vivono a migliaia di chilometri gli
uni dagli altri, manifestino contemporaneamente i medesimi sintomi.
L’hikikomori viene presentato come una modalità di espressione di un
disagio che può differire da cultura a cultura, ma che potenzialmente
può riguardare i giovani di tutto il mondo.
Al fine di comprendere al meglio questo fenomeno è necessario
pertanto analizzare, non solo la patologia individuale che affligge i
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giovani hikikomori, ma anche i fattori socio-culturali che ne sono alla
base ed i possibili fattori che vi contribuiscono.
Nelle pagine seguenti metterò a confronto la realtà giapponese con
quella italiana, esplorandone lo scenario culturale, sociale e famigliare
al fine di trovare affinità e differenze tra gli hikikomori di entrambi i
paesi, cercando così di comprendere perché questo fenomeno possa
ormai essere riconosciuto come universale, caratteristico della società
moderna.
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CAPITOLO 1.
IL FENOMENO HIKIKOMORI IN GIAPPONE
1.1 Epidemiologia
Il termine hikikomori (da hiku, ossia tirare indietro, e komoru, ritirarsi)
è stato coniato per la prima volta negli anni Ottanta, quando un
numero crescente di giovani iniziarono ad essere trattati con interventi
psichiatrici specifici per quadri caratterizzati da ritiro. In Giappone, le
prime manifestazioni di questa forma di ritiro sociale vennero
descritte da Y. Kasahara nel 1978 con il termine “tajkyaku
shinkeishou”, ovvero “neurosi di ritiro” con riferimento a soggetti
che abbandonavano la scuola o il lavoro per lunghi periodi e che non
erano classificabili come depressi o schizofrenici. Inamura
interpretava tali comportamenti come fobie scolastiche e lavorative,
cui ha dato il nome di “adolescent setback symptom”, ritenendo tale
fenomeno una malattia nazionale tipicamente giapponese. Lo
psichiatra nipponico Tamaki Saito (Saito, 2014), illustre esperto del
fenomeno hikikomori, traduce questo termine in “social withdrawal”
(ritiro sociale), e ne dà una definizione: “ si tratta di giovani che si
ritirano da qualsiasi attività sociale. Stanno tutto il giorno chiusi nella
loro stanza, per più di 6 mesi. Questi pazienti non sono affetti da
psicosi come la schizofrenia, non hanno rapporti sociali oltre a quelli
con i loro familiari e questa situazione si protrae anche per molti anni.
Di solito non lavorano, non partecipano a nessuna forma di istruzione
e passano la vita stando nella loro stanza (Saito, 2014).” Carla Ricci
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,
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Carla Ricci è laureata in antropologia culturale ed etnologia all'Università di Bologna. Vive
attualmente in Giappone dove, presso il Dipartimento di Psicologia Clinica dell'Università di
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nel suo libro “Hikikomori: adolescenti in volontaria reclusione”,
paragona tale fenomeno ad una forma di anoressia mentale: in
entrambi i casi infatti vi è la negazione del corpo come elemento
centrale. Si tratta di una forma di sparizione dovuta al senso di
inadeguatezza totale del sé al mondo, verso la società attuale che mira
alla perfezione in ogni ambito. Il fallimento non è contemplato e viene
deriso (Ricci, 2008). Così come afferma anche lo psichiatra Gustavo
Pietropolli Charmet
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, l’adolescente tende a segregarsi
nell’immaginario, ovvero in un contesto narcisistico. A differenza
della segregazione simbolica delle suore, a cui può essere paragonato,
questa non prevede colpe o trasgressioni, espiazioni o gratificazioni:
“la vita dell'hikikomori si compie nell'indeterminatezza e nel vuoto;
senza colpa, senza espiazione, senza senso. Non c'è alcuna chiamata
ma semplicemente una sottrazione di senso: il soggetto scivola
lentamente nel vuoto e si pone nel punto di confine tra la sua esistenza
e la sua negazione. Il giovane in hikikomori non è in grado di
descrivere il suo stato e non conosce il linguaggio per nominare la sua
sofferenza: pur essendo molto intelligente blocca qualsiasi pensiero
che lo riguarda e adotta tecniche che lo distolgono da questa
riflessione (Pietropolli, 2013).”
Attualmente la psichiatria non considera l’hikikomori come una
diagnosi, bensì come una condizione di vita scelta da migliaia di
adolescenti, una vita di immobilità più significativa di qualsiasi
azione, e di silenzi che raccontano più di qualunque parola. Si tratta di
un’espressione più ampia di sofferenza sociale. Secondo un’inchiesta
Tokyo, svolge la sua attività di ricerca riguardanti tematiche psico-sociali;in particolare ha
portato a compimento diversi lavori sul disagio giovanile tra cui l'hikikomori.
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Lo psichiatra Gustavo Pietropolli Charmet è fondatore e socio della Cooperativa Minotauro,
docente della Scuola di Psicoterapia dell’Adolescenza ARPAD Minotauro di
Milano,Responsabile scientifico della Comunità Residenziale per i disturbi della condotta
alimentare Casa per la Salute della Mente di Brusson, Valle Aosta e Direttore Scientifico
dell’Osservatorio Giovani IPRASE di Trento. È Direttore scientifico della collana
“Adolescenza, educazione, affetti” dell’editore Franco Angeli Editore di Milano
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del maggio 2010 del Ministero della Salute Giapponese, che si
occupava delle statistiche relative alla sindrome di hikikomori, il
numero di persone affette da questa sindrome si avvicina a 700.000,
ma si presume che in realtà siano oltre 1.500.000; questa differenza di
valutazione dovuta alla difficoltà di individuarne accuratamente il
numero è legata anche all’atteggiamento della famiglia che tende a
nascondere il fatto di avere un figlio recluso. L’hikikomori interessa
una grande fascia d’età, dall’adolescenza all’età adulta. Koyama ed i
suoi collaboratori, in una ricerca (Koyama et al., 2010 pag. 69-74),
indagano quali fasce d’età siano più colpite da tale fenomeno. La loro
ricerca suddivide le fasce d’età in fasce di 4 anni ciascuna per un
totale di 8 fasce, dai 10 ai 49 anni di età. Come si può notare,
l’ingresso in hikikomori si manifesta a partire dai 10 anni, toccando il
picco nel periodo del liceo e dell’ingresso all’università, ovvero fra i
15 e i 19 anni (37.4%). Ciò mostra come l’adolescenza sia un periodo
particolarmente delicato. I risultati sono direttamente riportati dalla
ricerca di Koyama e collaboratori, pubblicata nel 2010 su “Psychiatry
Res”:
Tabella 1- Età di ingresso in hikikomori
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4
Koyama A., Miyake Y., Kawakami N., Tsuchiya M., Tachimori H., Takeshima T., (2010) .
Lifetime prevalence, psychiatric comorbidity and demographic correlates of hikikomori in a
community population in Japan.Psychiatry Res 176(1), pag. 69-74.
Fasce di età Percentuale
10-14 20.1
15-19 37.4
20-24 11.3
25-29 13.7
30-34 0
35-39 0
40-44 9.4
45-49 4.4
Sconosciuta 3.7