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I. INTRODUZIONE
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La villa romana del Casale, ubicata non lontano dal comune di Piazza Armerina
(Sicilia), rappresenta oggi una grande attrattiva del turismo internazionale, collocandosi
per importanza al terzo posto dopo la villa di Tivoli e quella di Spalato; ma la gran parte
degli innumerevoli visitatori che ogni anno, da ogni dove, raggiungono questo ormai
celebre centro della Sicilia interna, ignora che, a monte di questa grande scoperta, è una
vicenda che rappresenta un capitolo per niente edificante dell’ archeologia italiana.
Portato alla luce nella sua interezza negli anni ’50 del secolo scorso, alla fine di una lunga
serie di indagini iniziate il secolo precedente, il complesso è privo infatti della
pubblicazione dello scavo, perché, in realta’, non di scavo si e’ trattato ma di una colossale
opera di sterro. Di conseguenza per sempre perse sono le informazioni relative all’
insediamento arabo-normanno e uno successivo che nel Medioevo sorsero a ridosso delle
strutture tardo-antiche della villa. In pratica, e’ mancata ogni attenzione per la stratigrafia,
quella successione, cioè, di processi naturali e antropici insieme, necessaria per ricostruire
la millenaria attivita’ umana nell’ area.
Negli anni ’60 arriva la valorizzazione: una struttura
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mirabolante in plastica , cemento e
metallo viene innalzata per la conservazione della villa, consegnandola in tal modo al
turismo di massa, senza pero’ riuscire completamente nell’ intento di tutelare in modo
permanente i pavimenti musivi. La copertura è frequentemente soggetta a delle crepe e
va rifatta ogni decennio, il che comporta un ingente sperpero di denaro; molti mosaici
inoltre soffrono l’umidita’ , specie nei punti di insufficiente drennaggio. In modo del tutto
ingiustificato, l’ interesse per i pavimenti musivi predomina su quello delle pitture
parietali e dei pavimenti marmorei.
Perchè si proceda correttamente, è indispensabile che la mentalita’ dell’archeologo si apra
ai contributi che sempre di piu’ possono offrire le scienze esatte. Spesso infatti l’archeologo
italiano denota un eccessivo attaccamento alla propria peculiarita’ culturale e un netto
rifiuto per le novita’ che provengono dal nord. Ma è innegabile che la diciplina trae
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Si ricorda che questo capitolo, come i successivi, specie per le notizie afferenti al quadro storico, fa costante
riferimento all’opera di A. Carandini-A. Ricci-M. De Vos, Filosofiana. La villa di Piazza Armerina,Palermo, 1982.
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Franco Minissi (1957) e’ l’ ideatore della struttura metallica appoggiata alla muratura esistente, che
costituisce l’ossatura portante di un manto di materiale plastico che forma pareti e copertura della villa.
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enorme beneficio dall’applicazione dei metodi quantitativi delle scienze, ponendosi per
cosi’ dire alla cerniera tra sapere umanistico e sapere scientifico.
Agli inizi degli anni ’70, si è cercato di ovviare alla mancanza di uno scavo ben condotto
,ricorrendo a una serie di saggi stratigrafici
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e a un’ analisi di materiali del precedente
scavo: si è trattato di un lavoro breve ma fruttuoso, che è bastato a confutare molte ipotesi.
Si è aggiunta poi l’analisi degli storici dell’arte e degli antiquari, i quali, appuntandosi su
questo o quel dettaglio musivo poco hanno apportato al giudizio complessivo del
monumento. Unico contributo degno di menzione è venuto da Salvatore Settis
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, che ha
studiato il programma iconografico come fonte di interpretazione, sebbene la parte
concernente l’identificazione del proprietario sia poco convincente.
Apriamo adesso una breve digressione introduttiva al fine di inquadrare il monumento
oggetto della nostra indagine nella piu’ ampia categoria delle residenze tardo-antiche; di
queste disponiamo oggi di un quadro in via di progressiva definizione, che i dati della
ricerca archeologica rendono ogni giorno piu’ nitido.
Tra il III e il IV sec. d.C, in molte regioni del mondo romano è in atto un netto
cambiamento nei modi di occupazione del territorio, che ha un’immediata ripercussione
sul modo di concepire la villa. Si tratta di un processo storico i cui prodromi si colgono nei
secoli precedenti, che adesso giunge a piena maturazione. Si perviene alla formulazione di
un nuovo modello di villa che pur inserito nel solco della tradizione , presenta al
contempo indubbie peculiarita’. In questo contesto si assiste a una rarefazione dei centri
rurali che si accompagna a una contestuale crescita dimensionale dei centri stessi. Molte
antiche ville vengono abbandonate, mentre altre vengono scelte come residenza. Queste
mostrano una varieta’ di tipologie e sono spesso realizzate sul riutilizzo o ampliamento di
strutture preesistenti, che subiscono dunque un adattamento per assolvere a una nuova e
diversa funzione , in linea con le esigenze del tempo.
Andrea Carandini, sulla base della documentazione archeologica, supportata da
testimonianze della trattatistica latina, introduce la distinzione tra villa centrale e villa
periferica
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: la prima sorge in prossimita’ di citta’, porti, vie di comunicazione, in zone
fertili e salubri ed è amministrata dal dominus direttamente, avvalendosi di manodopera
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Ampolo-Carandini-Pucci 1971.
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Salvatore Settis (1975) propone l’ipotesi di Massenzio committente.
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E’ stato pero’ osservato che questa nomenclatura e’ impropria, perche’ in realta’ nella distinzione sarebbe
sotteso un dato economico piuttosto che topografico (Capogrossi-Colognesi 1994)
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servile; la seconda si trova lontana dalla citta’, in aree coltivate in modo estensivo ed è
gestita da liberi coloni. E’ quest’ ultimo modello che sembra prevalere in eta’ tardo-antica.
La realta’ è in effetti piu’ complessa: la villa tardo-antica non sarebbe la riproposizione di
un tipo preesistente, cioè la villa periferica, ma il risultato della metamorfosi di ambedue i
tipi, fenomeno indotto da una mutazione generale del tradizionale sistema agricolo con la
conseguente riformulazione del concetto di villa. Qui infatti si riscuotono i canoni pagati
dai coloni, principale risorsa economica del proprietario, qui si coordina tutta l’attivita’ del
fondo e si raccolgono le derrate per poi indirizzarle al mercato: in pratica, fin dal III sec., la
funzione residenziale della villa ,per la prima volta, si combina con le esigenze di
amministrazione del fondo.
Vari fattori avrebbero contribuito a questa trasformazione: anzitutto, un aumento della
pressione fiscale avrebbe portato a una piu’ attenta e diretta gestione della proprieta’
agricola; una perdita di prestigio nell’esercizio dell’attivita’ politica e il conseguente
desiderio di recuperare auctoritas nell’ambito del latifondo; l’otium in villa adesso acquista
peso a scapito del negotium in urbe , la vita contemplativa che si nutre di arte e letteratura,
viene preferita alla frenetica attivita’ politica che ha come centro privilegiato il foro. Molte
ville tardo-antiche hanno, infatti, origine dall’abbandono
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della citta’ da parte
dell’aristocrazia senatoria,non piu’ gratificata dall’attivita’ urbana, cui da sempre è stata
dedita e su cui da secoli si fonda il suo prestigio e la sua fortuna. In tale contesto, le
residenze di campagna, che quanto a comfort nulla hanno da invidiare alle piu’ ricche
abitazioni urbane, diventano un ottimo rifugio. Col particolare non certo trascurabile che
in questo ritrovato silenzio lontano dal chiasso e dalla rissosa vita cittadina, il privilegiato
ceto puo’ ora dedicare piu’ ampio spazio all’ attivita’ culturale. Non piu’ dunque onerose
largizioni, giochi nel circo, contribute vari, ma la vita serena e distaccata del philosophus:
da qui probabilmente il nome di Philosophiana, col quale in origine è chiamata la pars
dominica della villa, poi il latifondo tutto. Questo fenomeno di allontanamento dei senatori
da Roma e quindi dall’ attivita’ politica, sembra essere in crescita, a tal punto che una
legge del 356 stabilisce un quorum per la presenza di senatori in citta’; sara’ piu’ tardi
Teodorico che li richiamera’ dalle lussuose dimore di campagna, imponendo loro la
permanenza nell’ Urbe.
Volgiamo ora la nostra attenzione su un altro problema che e’ necessario affrontare per
meglio inquadrare storicamente la villa e il territorio del quale essa rappresenta il punto
focale: le sorti del latifondo in Sicilia tra prima eta’ imperiale ed eta’ tardo-antica. E’ in
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Cagiano De Azevedo 1966.
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questo arco di tempo che il latifondo schiavistico, che Roma aveva creato dopo la
conquista dell’isola
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, va verso un graduale dissolvimento. E’ questa l’epoca, in cui le
fortune delle aristocrazie romane non conoscono certo un accrescimento, ma al contrario
entrano in una fase di inarrestabile declino. Sono assenti le ville (quella vicino Tindari è
un’eccezione), segno che gli aristocratici non risiedono nel latifondo, che sfruttano in
modo miserabile senza apportare le necessarie migliorie tramite investimenti, ma
traggono piuttosto profitto dalle grandi estensioni. A seguito di questa crisi, le campagne
si abbandonano, le citta’ decrescono. Una graduale decadenza si registra anche a livello
della cultura materiale e figurativa.
La crisi del latifondo in Sicilia, fondato sulla produzione di grano non è un fenomeno
isolato, ma segue le sorti delle ville italiche della costa medio-tirrenica, ormai lontane dal
florido periodo tardo-repubblicano, che abbiamo la fortuna di conoscere attraverso
autorevoli fonti letterarie, i trattati di Catone, Varrone, Columella. Altrettanto lontana è
l’epoca delle rivolte servili , la prima delle quali, quella di Euno
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, aveva avuto come teatro
proprio la Sicilia.
Esiste una storiografia contemporanea che nega la presenza in questo periodo di cesure e
di crisi e che vede il mondo antico sempre uguale a se stesso: le discontinuita’, in realta’, ci
sono e l’archeologo che fonda la sua analisi sul manufatto, oltre che sulle fonti letterarie,
non puo’ non prenderne atto.
Per la Sicilia è dunque un lungo periodo di stagnazione economica, sociale, politica,
culturale , che contrasta con la contemporanea ricchezza di altre province dell’Impero (la
Spagna , la Gallia, il nord-Africa). La Sicilia non piu’ alla pari con le altre province, diventa
terra di sfruttamento, di esilio, di schiavi e briganti.
Dietro questa decadenza produttiva c’è chi scorge la debolezza di certe aristocrazie nel
gestire il potere: in questa fase si registra infatti una marginale presenza di latifondisti
siciliani nelle istituzioni politiche di Roma.
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La conquista dell’isola risale al III secolo a.C, quando Roma intervenne in aiuto ai Mamertini di Messana,
schierandosi dalla parte di Siracusa contro la potenza cartaginese che aspirava all’egemonia sull’isola; la
guerra si concluse favorevolmente per i Romani (241 a.C), dopo un periodo piu’ che ventennale di scontri.
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Questo personaggio ambiguo tra il ciarlatano e il profeta, che si diceva ispirato da una dea , capeggio’
questa prima sanguinosa guerra servile che scoppio’ in Sicilia nel 136 a.C; molti furono i successi conseguiti
dalla iperbolica massa di schiavi che la rivolta riusci’ a mobilitare(200.000), ma i Romani nel memorabile
assedio di Taormina ebbero infine il sopravvento, uccidendo Euno e ripulendo l’isola dal gran numero di
briganti.