Il presente lavoro progettuale nasce dal nostro incontro con il Movimento Shalom di San Miniato, Pisa. Si tratta
di un’associazione di volontariato laica ed indipendente con la missione di educare le nuove e vecchie generazioni
alla pace, alla solidarietà e alla condivisione . A tale scopo opera in due ambiti fra loro complementari e connessi:
la scuola di pace e la cooperazione internazionale. Nella scuola di pace rientrano tutte le attività sociali e culturali
rivolte alla formazione ai valori Shalom. Nel campo della cooperazione internazionale si promuovono progetti in
grado di favorire lo sviluppo delle popolazioni indigene attraverso un processo di crescita economica auto-so-
stenibile. Fondato nel 1974, il movimento è attivo in numerosi paesi del mondo tra i quali: Burkina Faso, Uganda,
Sudan, Eritrea, Kenya, India, Bangladesh, Brasile, Iraq, Bosnia, Jugoslavia e molti altri.
Durante l’ultimo anno accademico abbiamo avuto l’opportunità di conoscere alcuni membri dell’associazione, in
particolare Don Donato Agostinelli, uno dei fondatori del movimento, e Massimo Bucci, attivo da molti anni sul
territorio africano. Da questo incontro è nata l’idea di una possibile collaborazione che, infine, si è concretizzata
nella nostra tesi di laurea.
Il progetto promosso da Shalom prevede la realizzazione di una “Casa della Pace” a Mityana (Uganda), ossia
un centro di formazione giovanile alla pace e alla cooperazione per l’Africa centrale, dotato di un ostello, di una
scuola, di uffici per il micro-credito locale e altre attività commerciali che possano dare opportunità di lavoro per i
giovani ugandesi e generare utili necessari all’autosufficienza economico-finanziaria del centro.
Il primo passo è stata la collaborazione con l’architetto ugandese, per via telematica, per la definizione del proget-
to dell’ostello, già in cantiere nel Luglio 2014. Parallelamente al lavoro di approccio al progetto in Italia, nell’area di
intervento, sotto la supervisione dell’ architetto locale, si avviavano le prime fasi del cantiere, con l’edificazione un
piccolo edificio di servizio per i lavoratori, che in futuro sarà l’alloggio per il guardiano del centro.
Il passo successivo è stata l’esperienza diretta sul luogo di lavoro, necessaria per comprendere a fondo la cultura
e le dinamiche di una realtà così diversa dalla nostra, che nella sua semplicità nasconde tutte le complessità di un
paese ancora in crescita.
Al ritorno in Italia è stata sviluppata la fase vera e propria di progettazione, dall’organizzazione funzionale com-
plessiva di tutta l’area progettuale fino allo studio dei singoli edifici. Il masterplan ha previsto la collaborazione
di entrambi i candidati, i quali, successivamente, hanno sviluppato autonomamente il progetto di due edifici del
complesso: una scuola ed un centro per uffici e attività commerciali.
i ntroduzione
foto
AnAlisi PreliminAre
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AnAlisi PreliminAre c ostruIre In terra d ’a frIca Progetto di un centro PolivAlente in u gAndA
La parola “villaggio” è in un certo modo fuorviante quando si riferisce alla realtà africana. In molti luoghi i villaggi
sono comunità di gente, più che gruppi di abitazioni. Certi villaggi non sembrano esistere fisicamente. Talvolta si
può vedere un’unica grande casa, nella quale vive un intero clan o gruppo parentale.
I primi ufficiali coloniali scrivevano che nell’attuale Uganda non c’erano villaggi, ma soltanto case sparse. Un esame
più attento mostrò che il territorio era suddiviso in zone ben definite, che per la popolazione rappresentavano i
territori dei villaggi di appartenenza.
Di solito i villaggi africani esprimono, nel proprio aspetto spaziale, la struttura sociale della popolazione che li
abita. Le relazioni variano nel tempo con le nascite, i matrimoni, i divorzi o le morti, ma la struttura generale rimane
costante.
La natura non duratura delle costruzioni permette un rapido adattamento al mutamento delle situazioni familiari.
Un uomo che sposa una nuova donna può costruire una casa per lei nel proprio lotto familiare (concessionon,
compound o kraal). Villaggi e case sono costruiti per la gente e per i gruppi sociali, non esiste il concetto oppo-
sto, che la gente possa adattarsi a vivere in case, in villaggi, in spazi precostituiti e non adeguati alla realtà sociale.
Secondo la tradizione, l’ambiente costruito è pianificato con grande attenzione, seguendo principi pratici, direttive
di natura religiosa, tabù.
Per quanto riguarda l’Uganda, una maggiore tradizione, nella costruzione dei villaggi, è presente nelle regioni me-
ridionali del Paese, dove la popolazione ha sempre vissuto in società sedentarie, diversamente dai popoli nomadi
d al vIllaggIo IndIgeno all ’arcHItettura contemporanea In a frIca 1.1 | l A trAdizione i l villAggio Gadames, Libia
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AnAlisi preliminAre Costruire in terra d ’a friCa p rogetto di un centro poliv Alente in u gAnd A
del nord. La vita del tradizionale villaggio ugandese può essere esemplificata dai famosi insediamenti Buganda.
Il Buganda è uno dei quattro regni in cui è suddiviso il Paese, nonché il più grande dei regni tradizionali rimasti
nell’Uganda.
Nell’era precoloniale i villaggi Ganda (o Buganda) era costituiti da una cinquantina di fattorie, ognuna delle quali
amministrate da un capo, responsabile verso il “Kabaka”, o re del Baganda. I villaggi si collocavano sulle sommità
delle colline per evitare i danni da alluvione, spesso causati dal clima tropicale umido.
Nonostante inizialmente la maggior parte di questi villaggi fossero formati da parenti stretti, l’espansione del
regno del Buganda nelle comunità adiacenti portò all’incorporazione di stranieri nell’immediato periodo precolo-
niale. Si sviluppò una forma di capitalismo feudale, dovuto all’emergenza di proprietari terrieri e contadini che la-
voravano per un salario; grazie all’abbondanza di terre fertili ed irrigate di questa regione, da i contadini al Kabaka
godevano di cibo in abbondanza.
Questo sistema ha iniziato ad indebolirsi alla fine del diciannovesimo secolo con l’avvento del colonialismo e la
distruzione dell’ordine politico tradizionale.
La struttura e le caratteristiche dei villaggi, e del resto anche delle stesse abitazioni, variavano, e variano ancora, a
seconda delle risorse disponibili sul territorio e dalle attività svolte dagli abitanti.
Per esempio, fra i gruppi nilo-camitici del nord dell’Uganda, come i Karimojong, è usanza costruire villaggi/ fatto-
rie circolari “ a grappolo”, che costituiscono recinti per il bestiame(“kraals”). Il villaggio è circondato da un recinto
circolare principale per difendersi da eventuali incursioni ed invasioni di animali e da numerosi recinti minori inter-
ni per custodire il bestiame dei singoli proprietari.
Una caratteristica, spesso invariante nei villaggi ugandesi, è l’organizzazione nella disposizione delle abitazioni.
Uomini e donne vivevano in capanne distinte: il capofamiglia in una capanna separata e circondata dalle capanne
delle mogli, con cui spesso vivevano anche i figli. Queste modalità di vita sono ancora diffuse in molte zone rurali
del Paese.
Tipico villaggio ugandese
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Le dimensioni del gruppo familiare non corrispondono a quella che noi consideriamo la famiglia nucleare (una
coppia con i propri figli non sposati), ma possono cambiare da un gruppo di popolazione all’altro. L’abitazione
familiare raggruppa solitamente posti-letto per tutti i componenti, un luogo per cucinare, granai per le scorte
di cibo e ricoveri notturni per gli animali domestici (ovini e polli), spazi per il pranzo, per attività artigianali e per
sedersi a chiacchierare. Quando il tempo lo permette, gran parte di queste attività si svolgono all’aria aperta. Gli
spazi aperti sono parte integrante della casa, con scopi funzionali e non solo decorativi. La cucina, il pranzo e
le altre attività diurne, che richiederebbero l’ombra di un albero, sono più gradevoli all’aperto con la ventilazione
naturale, piuttosto che in un ambiente chiuso.
Soltanto presso pochi popoli africani l’abitazione familiare è costituita da un solo edificio o casa; in questi casi, la
costruzione è preferibilmente quadrata o rettangolare, anziché che rotonda.
Esistono edifici circolari plurifunzionali, nei quali pareti interne dividono gli spazi per dormire, cucinare, conservare
le derrate, custodire gli animali di notte, ma di solito, anche in questi casi, ogni moglie possiede una di queste
costruzioni tutta per sé. Secondo la disposizione più comune, ogni raggruppamento familiare consiste di diverse
costruzioni separate. Ognuna di queste, più che una “casa”, è in effetti una “stanza” monofunzionale: la cucina, la
camera del capofamiglia… I bambini piccoli possono dormire anche sopra il granaio, l’alloggio di una donna può
contenere anche la cucina; in questo caso, si ottiene una migliore protezione contro gli insetti infestanti grazie allo
strato di fuliggine che si deposita sotto il soffitto.
La varietà delle realizzazioni delle case africane è molto ampia, ma esistono diversi caratteri comuni.
Il primo è che queste costruzioni sono a misura d’uomo; il corpo umano ne determina le dimensioni e le propor-
zioni.
Il secondo è che esse materializzano nello spazio i rapporti sociali fondamentali, l’ordine sociale, dando ai sessi,
alle generazioni, alle unità di parentela tutti i loro rispettivi posti; esprimono gli stati sociali; delimitano i luoghi
di appropriazione collettiva. Lo spazio abitato diviene, per così dire, una descrizione materializzata della società.
Infine, la casa africana non realizza una struttura rigida, ma si pone in sintonia con l’ordine dell’universo, doppia-
mente legata alla società e al mondo. Essa viene costruita materialmente e ritualmente, costituendo uno spazio
reale e simbolico, con marchi del sacro e della tradizione. Le decorazioni non sono puramente estetiche, ma
costituiscono una “scrittura” che fa della casa un libro, un archivio di tradizione e di storia.
Un luogo fondamentale della casa è la cucina, il cui essenziale non sta nella sua funzionalità. Lo spazio di una cu-
cina fissa il passato e annuncia il futuro, racconta il vissuto e progetta l’avvenire, costituisce il perno fra il dentro e
il fuori, è il luogo trasparente e aperto di una casa. Trasparente come può essere un incrocio; aperta come fulcro di
l A c As A
Schema di un’abitazione tradizionale ghanese
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AnAlisi preliminAre Costruire in terra d ’a friCa p rogetto di un centro poliv Alente in u gAnd A
continuità fra la vita interna della famiglia e le sue relazioni con l’esterno. Nella cucina si riunisce la famiglia estesa,
con tutte le età della vita. Essa si trova al centro dello “spazio vivente” della casa.
Nelle società africane, l’entrata e l’uscita non sono regolate come nei lotti di abitazione di tipo europeo. Invece di
regolare rigidamente i movimenti e gli spazi interni ed esterni, il filtro fra la casa e il resto dell’ambiente serve a
creare una fluidità tale da rendere l’uomo padrone dello spazio. Nelle case africane non esiste una gerarchia spe-
ciale di entrate e di uscite; gli accessi sono multipli e, secondo la tradizione, essi erano organizzati da simbologie
cosmiche.
Capita a volte, nelle città africane, di vedere gente che cucina con il fornello a carbone nella tromba delle scale.
Capita di vedere edifici moderni con i pavimenti sfondati, perché le donne usano il mortaio in casa per ridurre in
farina il miglio, il mais o la manioca. Queste attività, tradizionalmente, si svolgono nei cortili. La casa organizzata
attorno un cortile aperto non è un’invenzione soltanto africana. Tuttavia, nell’Africa delle tradizioni, non solo la
casa ma tutti gli spazi di formazione, d’informazione, d’educazione e di insegnamento erano dei cortili. Per un
africano, l’idea di una casa per una famiglia è piuttosto quella di una radura o di un cortile; introno ad esso i vari
locali chiusi sono destinati a funzioni di ripostigli o di speciali attività.
Donne che cucinano nel cortile