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INTRODUZIONE
La follia non è qualcosa di estraneo alla vita […] la follia nella sua radice più profonda è
una possibilità umana, che è in ciascuno di noi, con le sue ombre più o meno dolorose, e
con le sue penombre […] perché la distanza tra la follia e la non-follia non è tanto
qualitativa quanto invece quantitativa.
Questa considerazione di Eugenio Borgna (2014) è a proposito della schizofrenia, la
malattia che oggi, più di ogni altra, assurge a icona della follia. È una malattia che
colpisce una percentuale relativamente scarsa della popolazione ma che rappresenta il
cuore della psichiatria (Lorenzi P. & Pazzagli A., 2006). Psichiatra di stampo
fenomenologico, Borgna, ha intrapreso la strada della speranza […] di indicare come
non sia ammissibile […] qualsiasi affermazione sulla inguaribilità della “malattia”
(Borgna, 2002). Nonostante ciò, la malattia mentale continua a sfuggire alla
comprensione chiara degli psichiatri e degli uomini, ma non ci è totalmente aliena;
condividiamo la stessa natura e c’è una parte in noi, fosse anche un cantuccio, da cui
possiamo intuirla proprio perché è una possibilità umana. Le parole di Borgna si legano
in qualche modo ad alcune parole del primo atto della commedia di Terenzio «Il
punitore di sé stesso», di cui è divenuta ormai nota l’espressione Sono un uomo, nulla di
ciò che è umano mi è estraneo. E’ da questo assunto, che potrebbe sembrare quasi
sfacciato, che Cremete si interessa alla condizione del punitore di sé stesso, Menedemo,
e gli dice: […] noi siamo vicini, e per me la vicinanza è prossima all'amicizia. Avviene
di seguito un incontro in cui, dopo qualche resistenza, Menedemo con un ti dirò non
molto convinto inizia a narrare i motivi del suo dolore: […] mio figlio io l'ho scacciato
di casa, povero figlio, con la mia ingiustizia.
Nel presente elaborato ho intenzione di focalizzare i contenuti dei tre capitoli proprio
attorno ai vocaboli che rappresentano i tre momenti relazionali evidenti anche nel primo
atto della commedia: «interesse», «prossimità», «incontro».
L’interesse affrontato nel primo capitolo è quello che hanno avuto gli psichiatri e
psicopatologi che ci hanno preceduto: acquisizioni fondamentali fatte con Pinel,
Kraepelin, Bleuler per primi, sino alla nosografia odierna in base al DSM-5, un
interesse che ha portato a interrogarsi e allo studio per conoscere la patologia nelle sue
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forme tramite l’osservazione e la descrizione, a volte peccando di impersonalità,
peccato forse inevitabile in questa prima fase storica. Questo interesse è maturato con il
tempo, si è spinto oltre, ha tentato, e lo fa tuttora, di cogliere il nucleo essenziale della
patologia e ha assunto man mano una forma e una direzione sempre più relazionali.
Progressivamente, dal superficiale al profondo, muoverò verso la tematica della
possibilità della follia intesa come vulnerabilità, proponendo alla riflessione alcuni
modelli di malattia avvalorati dall’opinione scientifica, e raccoglierò le idee sul rapporto
ancora dibattuto tra personalità e psicosi.
Nel secondo capitolo ci approssimiamo al malato e lo sguardo è fisso su di lui: è lo
sguardo di un osservatore ha meno paura del «folle». Lascerò spazio alle recenti
riflessioni fenomenologiche sulle esperienze schizofreniche del delirio e
dell’allucinazione, indagando il significato che hanno per l’individuo, senza trascurare il
corpo dello schizoide e dello schizofrenico, studiato dall’Analisi Bioenergetica, fondata
negli anni ‘50 da Lowen.
L’incontro del terzo capitolo è la relazione tra il terapeuta e il paziente schizofrenico, in
prospettiva psicodinamica: è lo «stare-con», accoglienza autentica e supportiva: è
l’Incontro tra tutti gli incontri che hanno caratterizzato fino ad allora la vita del paziente.
Infine illustrerò la frequenza e le tipologie di guarigione, con alla mano il caso clinico di
Roberto, proposto da alcuni psichiatri del Dipartimento di Salute Mentale di
Montebelluna (TV).
Seguendo tale suddivisione un capitolo-un vocabolo, ho intenzione di radunare alcune
conoscenze e tracce di consapevolezza che abbiamo ad oggi, proponendo idealmente un
percorso dal superficiale al profondo, dalla schizofrenia allo schizofrenico che psichiatri
e psicopatologi prima, fenomenologi poi, e infine terapeuti hanno compiuto, sino a
sondare, dati alla mano, il mito dell’inguaribilità (Borgna E., 2002).
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CAPITOLO I
LA SCHIZOFRENIA E L’ÈIDOS SCHIZOFRENICO
Questo è il capitolo dell’interesse psichiatrico e psicopatologico per la schizofrenia, che
ha condotto allo studio teorico e ha caratterizzato in modo quasi esclusivo la prima fase
dell’approccio al disturbo. Propongo una disamina che muove da una definizione
dilatata di schizofrenia, tale che Bleuler (1911) riteneva fosse da declinare al plurale, a
una più attenta: muovendo dalla kraepeliniana dementia praecox e dopo aver definito il
disturbo secondo i criteri diagnostici riportati nel DSM-5, proporrò le riflessioni
fenomenologiche sulla paucisintomaticità della patologia. Cos’è la schizofrenia?
Tentiamo di definirne il nucleo eidetico, di identificare il soggetto vulnerabile e di
marcarne i confini, così labili da far paragonare la diagnosi di schizofrenia a un «cestino
dei rifiuti» (Lewis N., 1936).
1.1. La «base sicura» di Pinel, Kraepelin e Bleuler
Il termine Schizofrenia deriva dal greco σχίζειν, schìzein, cioè «dividere, scindere», e
φρήν, frén, cioè «cervello, anima» (Bleuler E., 1908): un’etimologia concisa e secca,
che rimanda all’essenza stessa della malattia. La schizofrenia, infatti, non ha mai dato
molte spiegazioni; molti si sono addentrati nei suoi recessi, per poter dare una
chiarificazione che rendesse giustizia del dolore che provoca lo stare alla presenza di un
parente o un amico che ne soffre. Compare circa 220 anni fa: il caso James Tilly
Mattews (1797), un esportatore di thè inglese originario del Galles, è ad oggi ritenuto il
primo caso di schizofrenia paranoide documentato (Haslam J., 1810).
Il primo interesse medico della contemporaneità per la follia prende forma ufficialmente
nel Trattato di Philippe Pinel (1809): oggetto della trattazione è la follia morale (ivi).
Costui vuole servirsi di criteri osservabili: la descrizione dei segni del disturbo e
l’osservazione puntuale del decorso della malattia, resa possibile dalla convivenza
stretta col malato. In reazione ai secoli precedenti dominati da un oscurantismo
superstizioso e da […] tutti gli errori, e le illusioni di una credulità stupida, ed
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ignorante, coi miracoli, coi pretesi invasamenti del demonio […], si attiene ai principi
del neonato Illuminismo: vuole collocare la psichiatria tra le scienze naturali. Per Pinel,
che va oltre la tradizionale prospettiva organicista, l’alienazione mentale sarebbe dovuta
ad affetti intensi e in contrasto tra loro, le passioni violente (ivi). Anticipando lo studio
dell’eboidofrenia di K. L. Kahlbaum (1890), una devianza giovanile di tipo psicotico,
assimilabile a una «follia morale», introduce una novità: la riscoperta dell’uomo nella
sua dignità, che lo porta a riorganizzare i manicomi come famiglie con a capo il
direttore. Il trattamento ora si configura come morale (ivi), e il manicomio un ordine
strutturale esterno da contrapporre al disordine delle passioni dei pazienti. È il primo
abbozzo della moderna psicoterapia (Civita A. & Molaro A., 2012).
La situazione cambia con Emil Kraepelin (1883), il quale nella sua opera espone
concetti che sono alla base della moderna psichiatria e che hanno ispirato le riflessioni
presenti nel DSM, il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali. Si distacca
il più possibile dalla speculazione per descrivere il dato empirico e focalizzarsi sulla
patologia; apre la strada alla nosografia descrittiva, inserendosi in parte nel percorso
tracciato da Pinel, livellare cioè la psichiatria alle scienze naturali. Merito di Kraepelin
fu operare una separazione nell’ambito delle psicosi endogene, cioè la cui causa non è
organica: distingue la dementia praecox dalla psicosi maniaco-depressiva, prima
accomunate. Definisce la prima una patologia degenerativa con esordio nella prima età
adulta e intacca le capacità intellettive, emotive e volitive, e conduce a una globale
interruzione delle funzioni percettive e cognitive: l’espressione latina rimanda a uno
stato di fragilità mentale dovuto a modificazioni della corteccia cerebrale.
Riferendosi al modello anatomo-clinico, distingue in base a segni osservabili la
dementia praecox in ebefrenica, catatonica, paranoide e intuisce la compresenza di
fenomeni generali e sintomi specifici: tra i primi il deterioramento cognitivo,
l’ottundimento affettivo e la perdita di energia e di forza di volontà. I sintomi vanno
interpretati in un quadro clinico complessivo, perché non esiste alcun segno decisivo
per la diagnosi (Kraepelin E., 1896).
Eugen Bleuler (1908) battezzò l’antiquata definizione di dementia praecox, oramai
scomoda poiché non si assisteva a un vero deterioramento mentale, Schizofrenie,
ponendo l’accento sullo Spaltung, la scissione delle funzioni affettive e intellettuali.
Lodevole per aver coniugato il modello kraepeliniano con quello psicodinamico di