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INTRODUZIONE
Giornalismo, critica, informazione e cultura hanno “convissuto” insieme sin dalle
prime gazzette e dagli ancestrali fogli che supportavano il nascente mercato
editoriale, sorto con la rivoluzione di Gutenberg del XV secolo. Analogamente la
recensione, il concetto di “valutare” un prodotto dell’intelletto e dell’animo umano, è
stata in grado di travalicare le frontiere dei salotti, dei caffè e dei circoli e di trovare
piena accoglienza nella stampa “borghese”, sublimata con i grandi quotidiani
inaugurati nell’Ottocento industriale e “tecnologico”.
Nell’Italia post unitaria, afflitta dall’analfabetismo, da una mancata lingua comune e
da strutture giornalistiche regionali, frammentate e arretrate, una prestigiosa élite di
intellettuali riuscì ad accedere nelle prime redazioni nazionali, affrancandosi da un
ruolo politico filo risorgimentale ormai desueto. La Terza Pagina, creata da Alberto
Bergamini sul “Giornale d’Italia” nel 1901, rappresentò per quasi tutto il Novecento
la “cartina tornasole” dell’informazione culturale italiana: alla volontà di «mettere un
po’ d’arte dappertutto» e di mostrare «una certa soggezione verso le belle lettere, con
un uso della lingua spesso aereo, ricercato, retorico, una tendenza ad una concezione
estetica più che fattuale della notizia, un inestirpabile calligrafismo», come disse
Guido Piovene, la Terza dell’Elzeviro contrappose un atteggiamento blasonato,
aulico, aristocratico, poco propenso ad accogliere nei suoi “salotti bene” il popolo dei
non scolarizzati che non poteva fruire di giornali, libri e riviste e tantomeno
estrapolarne un giudizio critico personale. E proprio questo difetto, questa
imperfezione che condussero l’illustre Terza a una lunga crisi e allo scontro con la
televisione e il suo linguaggio nazional-popolare, sino alla “morte” definitiva nel
1992 con la rivoluzione di Paolo Mieli e la diffusione della cultura
“commercializzata”, “consumistica” e “spettacolarizzata”, propugnata e incoraggiata
dalle emittenti private e dalla “telecrazia”.
Ma anche la formula della “spettacolarizzazione” televisiva dovette affrontare il
nuovo, temibile competitor chiamato internet. Il web bussò alle porte della società
già alla metà degli anni Novanta e ben presto i flussi di comunicazione e
informazione scelsero la strada della virtualità. Dieci anni dopo, l’ultima frontiera dei
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network sociali riscattò l’individuo dalla passività dei mass media, consacrandolo
come valido produttore di messaggi al pari del mediatore di professione:
dall’interprete “legittimato” si è dunque passati all’“e-critico” della rete, sincero,
attivo e spontaneo, minacciato tuttavia dalla seconda “ondata” commerciale, quella
del marketing virale e dei grandi colossi di e-commerce, intenzionati a sfruttare i
micro-critici a scopi promozionali-pubblicitari.
L’elaborato che mi accingo a illustrare presenta una nota iniziale “storica” e si
allarga successivamente in un ambito “analitico” e “tecnico”. Dapprima espongo il
cammino del giornalismo, della critica e dell’informazione culturale, focalizzando il
discorso sul contesto italiano, e dunque presento una triplice riflessione
contemporanea declinata nei mass media e nei new media, quest’ultimi a loro volta
suddivisi nelle componenti dei blog e dei social network.
L’analisi concernente i media tradizionali (ovvero giornali, riviste e televisione)
intende far luce sui rispettivi ruoli e sull’impatto generato nell’odierna “cultural
information society”, sempre più propensa ad abbracciare internet e le dinamiche
online. La digressione sulla virtualità prende avvio con i blog e i “lit blog”, simbolo
della “web letteratura” e dei dibattiti che cambiano postazione e aumentano di
intensità, accogliendo le “voci dal basso” e gli interventi dell’utenza, ma che devono
ormai scontrarsi con l’intensissima attività degli “e-critici” sui network sociali, sia
sui generalisti (Facebook e Twitter) sia su “Anobii”, “GoodReads” e sugli altri
portali settoriali-specifici.
Il capitolo relativo al “networking culturale”, il quale prende in considerazione
fenomeni affini come il “self publishing”, il “social reading”, il “citizen criticism” e
lo “scouting” letterario, si conclude con un importante quesito: le reti sociali
manterranno la loro “autonomia” e “indipendenza” oppure si trasferiranno in
“megafoni” promozionali a servizio dei colossi di e-commerce? In tale occasione
propongo un piccolo approfondimento sull’evoluzione “commercial” della
recensione, ovvero i siti di “customer review”, indubbiamente contraddistinti dalla
notorietà del celebre “TripAdvisor”.
Arriviamo, infine, alle conclusioni e alla manciata di domande che mi sono posto: i
media tradizionali potranno ancora vantare un proprio ruolo nell’informazione
culturale? La ripresa delle tecniche di “commercializzazione”, interessate ai flussi
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della rete, proseguiranno indisturbate o verranno arrestate? Quale futuro aspetta
l’informazione culturale italiana? A questi interrogativi ho cercato di rispondere
prudentemente, conscio di vivere in una bizzarra epoca di transizione e ripensamenti,
estremamente dinamica e difficilmente riducibile a canoni e blande teorie.
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CAPITOLO 1. LA PARABOLA STORICA
DELL’INFORMAZIONE CULTURALE:
DALLE PRIME GAZZETTE ALLA
SCOMPARSA DELLA TERZA PAGINA
1.1 Le origini dell’informazione culturale: dalle gazzette al
giornalismo industriale di massa
La notizia e il fatto culturale compongono un genere affermatosi durante la
modernità storica occidentale, nel pieno dello sviluppo della stampa e delle arti
tipografiche. Le origini risalgono al tardo Seicento, tuttavia solo il secolo successivo
avrebbe assistito a una circolazione degna di rilevante attenzione.
Nella prima metà del XVII secolo i principali Paesi europei, inclusi gli Stati italiani,
avviarono le prime pubblicazioni di periodici di varia natura, che inizialmente
proponevano informazione generale, notizie dall’estero e fatti d’attualità, di cronaca
e d’opinione, arricchiti spesso con illustrazioni. Tali strumenti conobbero uno
sviluppo sui generis nelle metropoli e nei principali porti (da Amburgo a Francoforte,
passando per la Lega Anseatica e le regioni fieristiche francesi), laddove la nascente
borghesia mercantile e le compagnie di navigazione necessitavano di dati e
indicazioni riguardanti l’universo commerciale. L’Inghilterra, in particolar modo,
assistette a una grande fioritura di giornali, gazzette e pamphlet che nel Settecento
rivoluzionario avrebbero orientato e guidato l’opinione pubblica illuministica.
Qualche decennio dopo sorsero i primi prodotti di informazione culturale, di cultura
generale e filosofia: la Germania introdusse nel 1660 il “Leipziger Zeitung” e nel
1663 il “Monatsgesprache”, Francia e Inghilterra il “Journal des Savantes”, le
“Nouvelle de la République des Lettres” e le “Philosophical Transactions of the
Royal Society” nel 1665, mentre la Roma papale e controriformista accolse il
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“Giornale de’ Letterati” nel 1668
1
. I periodici e le “riviste” ante litteram
contribuirono a diffondere e ad amplificare idee, notizie, opinione ed eventi, seppur
consentendo la proprio fruizione, in un numero limitato di copie, quasi
esclusivamente ai ceti colti, alle corti, ai “gentiluomini”, agli alfabetizzati e agli
affiliati della cosiddetta “Repubblica delle Lettere”.
L’eccezionale “balzo in avanti” del genere culturale avvenne nell’epoca dei “Lumi” e
della prima Rivoluzione Industriale. La cerchia dei lettori si ampliò notevolmente e
fecero il loro ingresso nel mercato editoriale alcune categorie sino ad allora estranee
e ignorate, in primis il pubblico femminile. Nacque il concetto moderno di “best
seller”, incoraggiato proprio dalle già produttive commistioni fra letteratura e
giornalismo; mentre i periodici inglesi ospitarono romanzieri di punta quali Jonathan
Swift e Daniel Defoe, i grandi fermenti italiani che si raccolsero attorno al celebre
“Caffè” di Milano privilegiarono firme del calibro di Gasparo Gozzi e Pietro Verri.
Più tardi, nell’Ottocento, sorse il “feuilleton”, il romanzo in appendice al giornale,
introdotto dal direttore del “Journal des Débats” Louis François e definitivamente
affermato nel 1836 dalla “Presse” di Emile De Girardin; maestri del “feuilleton”
furono Octave Feuillet (da cui il nome) con “Il romanzo di un giovane povero”,
Honoré De Balzac, Alexandre Dumas padre, Victor Hugo, Frédéric Soulié e, una
volta diffusa la formula fuori dai confini francesi, Emilio Salgari, Carlo Collodi,
Edgar Allan Poe e Robert Louis Stevenson.
Infine, se nel XVII secolo non mancavano fogli che “notificavano” e “aggiornavano”
il pubblico colto sui libri freschi di stampa, solo un secolo più tardi gazzette, riviste e
periodici si trasformarono in generosi contenitori di recensioni, segnalazioni
letterarie e persino di interventi polemici e analitici.
Nel celebre saggio del 1962 “Storia e critica dell’opinione pubblica”
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il filosofo e
sociologo tedesco Jürgen Habermas stabilì un’interconnessione fra il prodotto
giornalistico- letterario, il progresso sociale e lo sviluppo della sfera dell’opinione
pubblica europea e rivolse la propria analisi sugli ambienti e sui salotti (nobili-
aristocratici prima, dunque progressivamente borghesi) di Inghilterra, Francia e
Germania imperiale. Motivandola con la frammentazione dell’antica Repubblica
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G. Zanchini, Il giornalismo culturale, Roma, Carocci, 2013, p.12
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J. Habermas, Storia e critica dell’opinione pubblica, Roma-Bari, Laterza, 2006