6
INTRODUZIONE
Un biosensore è un dispositivo analitico contenente un elemento biologico reattivo in intimo
contatto con un trasduttore di segnale [1].
In base alla natura dell’elemento biologico coinvolto, i biosensori si distinguono in biosensori
catalitici o enzimatici, biosensori chemioricettivi e immunosensori.
Il segnale elettrochimico che viene registrato in seguito all’interazione del materiale biologico con
l’analita da determinare è di natura chimica o fisica, discreto o continuo, può essere di tipo
elettrochimico (biosensori amperometrici, potenziometrici e conduttimetrici), luminoso (biosensori
ottici), calorico (biosensori termici) e sonoro (biosensori acustici) e viene rilevato da uno strumento
che lo relaziona alla concentrazione dell’analita in esame [2].
I biosensori elettrochimici sono relativamente facili da assemblare, possono essere inseriti in celle
a flusso per effettuare misure in continuo (con tempi di risposta dell’ordine di qualche minuto),
possono essere miniaturizzati e costruiti come sistemi monouso a prezzi estremamente
convenienti. L’enorme vantaggio di questi biosensori consiste nella possibilità di lavorare in
“matrici sporche” mantenendo un alto grado di selettività, ed evitando talvolta, lunghi e complicati
trattamenti del campione. Allo stato attuale i biosensori maggiormente impiegati sono di tipo
amperometrico. [1]
L’immobilizzazione dell’elemento biologico sulla superfice è una caratteristica chiave per il buon
funzionamento del biosensore elettrochimico. L’obiettivo è sviluppare un modo semplice per
immobilizzare la proteina, in modo da mantenere la sua affinità e stabilità per lunghi periodi.
In letteratura si riscontrano diversi protocolli d’immobilizzazione enzimatica: intrappolamento fisico,
legame covalente o cross-linking usando reagenti multifunzionali, e schemi non covalenti come
l’assorbimento superficiale o il mescolamento con il materiale degli elettrodi compositi.
Alcune di queste procedure sono però tediose, offrono poca stabilità operativa e richiedono reagenti
costosi. Recentemente si stanno studiando nuove modalità d’immobilizzazione e materiali avanzati di
rilevamento per migliorare le capacità analitiche dei biosensori: stabilità operazionale, sensibilità e
selettività [3].
Negli ultimi anni, ha avuto un interesse crescente l’applicazione dei sol/gel. Essi offrono un nuovo ed
interessante approccio nel campo dell’immobilizzazione enzimatica.
7
CAPITOLO 1: BIOSENSORI
1.1 BIOSENSORI
Negli ultimi anni i biosensori stanno ricoprendo un ruolo sempre più importante nel campo della
diagnostica e del monitoraggio nel settore clinico, alimentare e ambientale: sono sistemi di analisi
economici, veloci e con dimensioni tali da poter analizzare un numero consistente di campioni in
poco tempo direttamente sul campo, “in situ”.
Con biosensore si intende un dispositivo auto-integrato, in grado di fornire un’informazione
analitica, quantitativa, o semi-quantitativa, utilizzando un elemento di riconoscimento biologico,
capace di interagire con un particolare composto, accoppiato ad un trasduttore di segnale in grado
di convertire il segnale biochimico in un segnale di tipo elettrochimico, ottico, calorimetrico, etc. Il
materiale biologico può essere rappresentato da uno o più enzimi, anticorpi, batteri, cellule,
tessuti viventi animali o vegetali che interagiscono con il substrato che si vuole determinare e sono
responsabili della specificità e selettività del sensore.
I biosensori più conosciuti sono quelli in cui la componente biologica è rappresentata da enzimi, i
quali interagiscono direttamente o indirettamente con il metabolita da determinare e sono
responsabili della specificità del biosensore.
Tra gli enzimi più utilizzati, occorre ricordare gli enzimi ossidoriduttasi che catalizzano la reazione
di trasferimento di elettroni da una molecola (detta riducente, o donatrice di idrogeno o donatrice
di elettroni) ad un'altra (detta ossidante, o accettore di idrogeno o di elettroni). Le ossidasi, in
particolare, sono quegli enzimi che catalizzano la reazione in cui l’ossigeno molecolare, O
2
è
l’accettore e i prodotti finali consistono nel prodotto di ossidazione del substrato e nel perossido
di idrogeno:
2 2 2
enzima ossidoriduttasi
Substrato O Prodotto H O
Misure di
22
HO possono dare informazioni sulla concentrazione iniziale dell’analita di interesse di
cui, in molti casi, non si può fare una misura diretta.
In particolare, i biosensori elettrochimici amperometrici basati sull’uso di questa classe di enzimi
come elemento biologico [4] sono stati tra i più studiati ed utilizzati, grazie anche al basso costo
della strumentazione e dei reagenti, ed alla sensibilità e rapidità della misura. Inoltre l’uso degli
8
elettrodi stampati SPE in questo settore, ha consentito lo sviluppo di sistemi in cui le biomolecole
sono messe in diretto contatto con la superficie elettrodica, in questo caso facile da
funzionalizzare.
1.2 BIOSENSORI BASATI SU ELETTRODI SCREEN-PRINTED (SPE)
Durante l’attività didattica sono stati utilizzati elettrodi stampati (Screen Printed Electrodes, SPE), i
quali sono di largo impiego in campo elettrochimico grazie alle loro piccole dimensioni, alla
elevata riproducibilità ed alla possibilità di poterli produrre in massa. Tali elettrodi sono basati
sulla tecnologia a film spesso Thick Film Technology.
Elettrodi ottenuti mediante l’impiego di tali tecnologie vengono comunemente definiti come
“screen-printed”, “monouso”, “usa e getta”, “elettrodi stampati” o più comunemente “elettrodini”,
diminutivo che denota due delle loro tipiche caratteristiche: dimensioni e massa ridotte.
ll processo di fabbricazione si basa sulla stampa serigrafica, che permette la deposizione
sequenziale del film spesso (thick-film) sul supporto o substrato solido isolante.
La composizione chimica e le proprietà elettriche ed elettrochimiche del thick-film variano in
funzione dei desiderata che stanno alla base dello sviluppo e costruzione degli elettrodi screen-
printed. Lo schema più comunemente applicato nella realizzazione degli elettrodi monouso,
prevede per l’elettrodo di lavoro l’uso di inchiostri o paste, generalmente a base di grafite o vari
tipi di carbone, ma anche a base di metalli nobili (Pt, Au, Ag, etc). Le paste contengono anche
agenti leganti di vario genere (vetro in polvere, resine, solventi, vari additivi, etc.), che influiscono
sulla viscosità, conducibilità, sul grado di idratazione e sulla resistenza alle variazioni termiche. I
normali inchiostri da stampa sono costituiti da una parte liquida (mezzo di dispersione) e dal
pigmento. Il mezzo di dispersione, spesso chiamato anche veicolo, può contenere idrocarburi
alifatici o aromatici, vari esteri, chetoni e alcoli, ed anche un agente legante, di solito resine
fenoliche, acriliche o viniliche. Il pigmento può essere la grafite, il carbone e/o il nerofumo. Per la
stampa dell’elettrodo di riferimento/pseudo-riferimento si usano paste speciali a base di argento
oppure di argento-cloruro di argento. L’elettrodo ausiliario viene, di solito, stampato usando lo
stesso materiale impiegato nella stampa dell’elettrodo di lavoro oppure dell’elettrodo di
riferimento. Una volta che è stata serigrafata la base elettrodica (nella configurazione a tre
elettrodi, questa è rappresentata dagli elettrodi di lavoro, di riferimento/pseudo-riferimento e
ausiliario/controelettrodo, che nello stesso tempo funge anche da contatto elettrico) sul supporto
9
solido, questa si ricopre sempre con un film spesso, di materiale dielettrico che serve da guaina
protettrice.
Il processo di fabbricazione prevede tre fasi:
• deposizione
• asciugatura
• sinterizzazione.
La deposizione dei vari inchiostri e/o paste avviene meccanicamente, in uno o più passaggi, sul
substrato solido, utilizzando una macchina adatta alla stampa serigrafica, munita di vari tipi e
forme di telai che condizionano la forma e le dimensioni degli elettrodi stampati. L’asciugatura
permette l’evaporazione dei prodotti volatili presenti nei vari inchiostri e avviene di norma a varie
temperature. In funzione delle caratteristiche dei materiali impiegati e dei requisiti che si
desiderano, avviene la fase di stabilizzazione e la polimerizzazione degli inchiostri.
La stampa serigrafica permette di ottenere su larga scala elettrodi miniaturizzati, a basso costo
(cca. 1-2 €/elettrodo) e con una riproducibilità elevata. Gli elettrodi utilizzati sono stati prodotti
presso i laboratori di Chimica Analitica del Dipartimento di Scienze e Tecnologie Chimiche
dell’Università di Tor Vergata.
La macchina serigrafica è la “High Performance Multi Purpose Screen Printer DEK 245”, (Figura
1.1.) della DEK, Weymouth, UK.
Figura 1.1. La “High Performance Multi Purpose Screen Printer DEK 245”, macchina per la stampa serigrafica
I supporti solidi utilizzati (poliestere, Autostat HT5, d=0.175 mm) sono della Autotype, Milano.
Gli inchiostri Acheson (Acheson Colloiden Italiana, Milano, Italia) utilizzati sono:
Electrodag 477 SS RFU per lo strato d’argento ed un inchiostro di grafite
Electrodag 423 SS RFU; per lo strato di isolante è stato usato l’inchiostro
Carboflex 25.101S bianco della Argon (Argon Manoukian, Ciampino, Italia).