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INTRODUZIONE
In Italia, per quanto riguarda l’assistenza alle famiglie in difficoltà e
la tutela dei minori, si sta assistendo ad un aumento degli
allontanamenti e a un debole investimento sul rafforzamento della
famiglia d’origine, nonostante l’articolo 1 della legge 149/2001
preveda il diritto del minore ad essere educato nell’ambito della
propria famiglia, sottolineando così la necessità di occuparsi non solo
del diritto del minore ad avere una famiglia, ma anche di sostenere il
suo nucleo familiare d’origine. Nell’ambito dei servizi di tutela si
lavora, invece, più per realizzare dei “buoni” allontanamenti che per
evitare le separazioni. La situazione di fatto, dunque, si discosta dal
principio enunciato al primo articolo della legge, tanto che la funzione
che l’opinione pubblica attribuisce ai servizi sociali è quella di
separare i bambini dalle proprie famiglie, anziché di ri-unire. Nel
nostro paese, infatti, la letteratura e la riflessione metodologica si
sono dedicate principalmente a delineare le situazioni in cui sia più
opportuno effettuare l’allontanamento del bambino dal suo ambiente
familiare e all’individuazione delle soluzioni migliori per accoglierlo,
mentre non esistono informazioni esaurienti sugli esiti di
allontanamenti a lungo termine e vengono trascurate le tematiche del
rientro e dei contatti con la famiglia d’origine durante la separazione.
La funzione dell’istituto dell’affidamento si riduce spesso a quella
di “parcheggio” dove collocare il bambino la cui famiglia si trova in
una situazione di vulnerabilità, costretto a vivere sospeso fra famiglia
di origine, genitori affidatari e un futuro incerto quando invece l’affido
dovrebbe rappresentare uno strumento volto alla protezione del
minore ed occasione di cambiamento a favore della sua famiglia in
difficoltà, nella prospettiva del superamento della temporanea
situazione di crisi e dell’auspicabile ricongiungimento fra genitori e
figli. È in quest’ottica che l’affido dovrebbe essere considerato, come
parte di un progetto più ampio che prevede un lavoro sulle capacità
residue della famiglia, nell’interesse del bambino. Qualunque
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soluzione individuata per l’accoglienza del bambino, anche se ben
progettata, contiene in sé il trauma profondo della rottura dei legami
e della separazione. Il luogo migliore per la crescita dei bambini,
infatti, è la sua casa, con la sua famiglia, a condizione che i suoi
genitori siano in grado di assolvere alle loro funzioni genitoriali in
modo “sufficientemente” adeguato ai suoi bisogni di sviluppo e, nei
casi di inadeguatezza conclamata dei genitori bisogna aiutarli a
recuperare e a potenziare le proprie capacità e a mantenere i
rapporti con i figli. Quando la separazione è inevitabile, è importante
gestire questo passaggio lavorando fin dall’inizio sul processo di
riunificazione familiare. Dare la possibilità al bambino di mantenere
continuità con le proprie origini, anche nei casi in cui la situazione
familiare sia problematica o conflittuale, rappresenta una condizione
essenziale per la garanzia di uno sviluppo equilibrato e di un
adattamento alla complessa realtà del vivere in affido.
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In questo lavoro ho ritenuto interessante volgere lo sguardo alla
famiglia d’origine del bambino allontanato e approfondire la tematica
della riunificazione familiare, partendo dall’ipotesi che questa pratica,
centrata sull’importanza di mantenere i legami tra il bambino e gli
adulti di riferimento, ossia quelle persone che lui identifica come
famiglia, possa salvaguardare lo sviluppo psico-fisico del bambino ed
essendo focalizzata sul recupero dei genitori, rappresenti un punto di
riferimento per contrastare gli allontanamenti, per favorire
l’autodeterminazione e per affermare ulteriormente il lavoro di
sostegno alla genitorialità, come strumento preventivo al
determinarsi di forme di disagio nei bambini e nelle loro famiglie.
L’idea di fondo che ha motivato l’elaborazione del presente lavoro,
considerato che nella realtà dei servizi sociali italiani non si è ancora
affermata un’attenzione sistematica a questo tema, è quella che
nell’ambito di un affidamento familiare, se non viene progettato un
percorso individuale e di sostegno familiare che favorisca l’adeguata
ripresa del processo di crescita del bambino e riduca i rischi di uno
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Greco O. - Iafrate R., Un legame tenace: il bambino in affido e la sua famiglia d’origine, in
“Studi interdisciplinari sulla famiglia”, n. 11, 1992.
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sviluppo patologico, non si sta operando per il ben-essere del
minore. Credere che il problema delle famiglie vulnerabili si risolvi
con l’allontanamento del figlio, per proteggerlo da una situazione di
rischio, svuota di significato l’istituto dell’affidamento familiare, che è
invece volto al recupero della famiglia di origine in vista di una
possibile ri-unione del bambino con la stessa, e crea ulteriore
sofferenza al minore, costretto a vivere uno strappo dai legami
originari.
Nel primo capitolo, dopo una breve illustrazione del percorso
storico, legislativo e culturale che ha portato al riconoscimento dei
diritti del fanciullo, viene fatto un breve approfondimento relativo alla
famiglia, intesa come ambiente più adatto allo sviluppo equilibrato
del bambino, per poi introdurre il tema dell’affidamento familiare,
quale strumento per sostenere il nucleo familiare in difficoltà e per
non compromettere la crescita sana del bambino durante il momento
critico che sta attraversando la sua famiglia.
Nel secondo capitolo viene presentato il modello della
riunificazione familiare, elaborato in America da Anthony Maluccio e
dai suoi collaboratori del Boston College ma adattabile anche al
contesto italiano o comunque a cui ci si può riferire per individuare
nuovi orientamenti nella tutela dei minori e nel lavoro di sostegno alle
famiglie in difficoltà e per migliorare i servizi attuali.
Nonostante questo modello si sia affermato nei servizi americani
dagli anni ‘80, presenta molteplici elementi di portata innovativa, a
partire dal concetto stesso di “riunificazione familiare” con il quale
non si intende esclusivamente il rientro fisico del bambino presso la
sua famiglia biologica, ma comprende anche tutte quelle forme di
contatto finalizzate a proteggere, rafforzare o ricostruire i legami fra il
bambino allontanato e la sua famiglia, riconoscendo la possibilità
che, in determinati casi, il rientro del figlio a casa non sia praticabile
né auspicabile.
Risulta una condizione indispensabile l’essere convinti del fatto che
la famiglia di origine rappresenta il luogo privilegiato in cui far
crescere un bambino, ove ciò sia ritenuto possibile, in quanto nel
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lavoro di riunificazione familiare i genitori dovrebbero essere
considerati dei collaboratori e coinvolti nei processi decisionali. Il
modello della riunificazione familiare rappresenta, dunque, un
esempio pratico di lavoro con le famiglie vulnerabili in un’ottica
pedagogica.
Il capitolo conclusivo, quindi, è dedicato al tema del sostegno alla
genitorialità, visto come strumento da promuovere per garantire il
benessere dei minori e delle loro famiglie, così come viene delineato
nella legge 285/1997.
Le famiglie in difficoltà, dunque, non devono essere considerate solo
come portatrici di bisogni e di inadeguatezze, ma anche di risorse e
di capacità che possono essere potenziate e valorizzate attraverso
un adeguato lavoro di accompagnamento e di sostegno. Il periodo di
separazione del bambino dalla famiglia assume così un valore
riabilitativo, diventa un’occasione per intervenire sulle competenze
della famiglia e per preparare il bambino o ragazzo, nella prospettiva
di un loro ricongiungimento.
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CAPITOLO I
L’AFFIDAMENTO IN ITALIA NELLA PROSPETTIVA DELLA
RIUNIFICAZIONE CON LA FAMIGLIA D’ORIGINE
1. Il riconoscimento dei diritti del bambino
Nella cultura occidentale contemporanea la sensibilità verso la
tutela dei diritti del minore è una conquista relativamente recente.
L’attenzione per i minori, quali soggetti di diritto in forma non
residuale rispetto agli adulti, infatti, è maturata in occidente solo
recentemente, mentre in altre parti del pianeta perdura una
situazione preesistente alle conquiste di natura giuridica, psicologica
e sociologica, responsabili del mutamento della nostra ideologia e
del nostro atteggiamento nei confronti dei minori.
Fino al XVII secolo l’infanzia non veniva riconosciuta come una
specifica fase della vita, con caratteristiche proprie, distinta dall’età
adulta; di conseguenza non esisteva un diritto particolare a tutela del
bambino, tanto che risultavano diffusi atti oggi giudicati ignobili quali
l’abbandono, l’infanticidio, la vendita e lo sfruttamento di minori.
Con l’avvento dell’industria si acuirono i problemi che avevano
riguardato la condizione minorile fin dai tempi antichi, quali
l’abbandono e la mortalità, e a questi se ne aggiunsero di nuovi,
legati al lavoro svolto in fabbrica. Le città iniziarono a riempirsi di
bambini poveri, invalidi, ammalati e tutto ciò rappresentava un
problema non più ignorabile per le coscienze dell’epoca. La nascita e
diffusione dei brefotrofi e degli orfanotrofi nel corso del XVI secolo in
tutta l’Europa centro-settentrionale, rispondeva alla necessità di
trovare un posto per questi bambini, di nutrirli, vestirli ed educarli a
divenire sudditi.
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Fu durante il Romanticismo che iniziò ad affermarsi una nuova
attenzione al minore, visto come soggetto da proteggere. L’impiego
2
Bruni C. - Ferraro U., Tra due famiglie. I minori dall’abbandono all’affido familiare, Franco
Angeli, Milano, 2006.
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dei bambini nelle fabbriche e, in generale, il lavoro minorile fu
l’oggetto principale delle opposizioni da parte dei sostenitori di
questa nuova ‘cultura dell’infanzia’. In quegli anni prese avvio il
dibattito relativo alla necessità di prevedere una specifica
legislazione a tutela dei diritti dei minori. In Inghilterra prima, e poi in
tutti i Paesi europei si iniziò a legiferare in materia di lavoro minorile:
si stabilirono l’età minima di ammissione, la durata della giornata
lavorativa, l’obbligo delle interruzioni e il divieto al lavoro notturno.
I brefotrofi e gli orfanotrofi continuarono a rappresentare la soluzione
più diffusa al problema dell’abbandono dei minori.
Solo nel corso del XX secolo, con l’affermarsi e il delinearsi di un
nuovo modo di intendere l’infanzia, si è iniziato a pensare che la
migliore soluzione per il bambino abbandonato fosse una risposta
che fosse il più possibile simile a quella familiare, tramite il ricorso a
servizi e strutture in grado di far vivere al bambino le stesse
esperienze e relazioni che si possono ritrovare all’interno di un
qualsiasi gruppo familiare. Nascono così le prime strutture a
carattere familiare e le prime esperienze di affido familiare.
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Per quanto riguarda l’Italia, il primo tentativo di intervento da parte
dello Stato in materia di tutela del minore si individua nel Regio
Decreto 1357 del 31 Luglio 1919, con il quale si cercò di tamponare
le ferite create dalla prima guerra mondiale, dichiarando adottabili i
minori orfani di guerra. In seguito, con il R.D. 798 dell’8 Maggio 1927
venne istituito il servizio di assistenza ai minori illegittimi o
abbandonati.
Tra gli anni ‘20 e gli anni ‘40, comunque, la tutela dei minori in Italia
fu incentrata sulla presenza di enti nazionali di assistenza
categoriale: - ENAOLI (Ente Nazionale di Assistenza Orfani di
Lavoratori Italiani), nato nel1948 con lo scopo di mantenere ed
educare gli orfani dei lavoratori mediante l’inserimento nei propri
collegi o convitti; - ENPMF (Ente Nazionale per la Protezione Morale
del Fanciullo), istituito nel 1949, questo ente pubblico offriva
assistenza morale e materiale ai giovani in difficoltà, accogliendoli in
3
Ibidem.