INTRODUZIONE
L’elaborato intende avanzare in un percorso indirizzato alla definizione del termine mockumentary
alla luce di quanto scritto fino ad ora, soprattutto da studiosi italiani di questa particolare tipologia
di film.
Nel primo capitolo si andrà a fornire una panoramica delle definizioni riscontrabili in diversi autori
– da Bill Nichols a Cristina Formenti a Luca Franco – per poi rielaborarle in una formulazione che
prenda in considerazione anche i nuovi metodi di fruizione delle opere via web. Da qui una
distinzione del termine da quelle definizioni alle quali spesso viene equiparato in modo improprio,
come docu fiction e found footage. Oltre a questo si tratterà della storia dei primi due scherzi
radiofonici: il primo ad opera di Padre Knox dai microfoni della radio BBC e il secondo realizzato
in America da Orson Welles. Pur avendo scelto di trattare nella Tesi solamente lungometraggi (oltre
i 45 minuti), a conclusione del primo capitolo sono stati analizzati tre cortometraggi che hanno
fornito, in momenti diversi della storia, spunti di riflessione per un discorso sul linguaggio del
documentario che verrà approfondito poi col mockumentary: Las Hurdes, The Spaghetti Hardest e
No Lies.
Ciascun paragrafo del secondo capitolo si occupa di delineare una panoramica dei generi
cinematografici che più hanno visto al loro interno la produzione di finti documentari. Dei film
citati, non tutti si possono definire propriamente mockumentary in quanto – sebbene considerati tali
dal regista, dalla critica o dalla casa di distribuzione che li ha presentati al pubblico con questa
caratterizzazione – possono risultare film a soggetto girati usando il linguaggio del documentario,
possono contenere inserti di fiction o essere stati interpretati da attori riconoscibili per fama. Per
approfondire i film citati che si è riusciti a visionare per intero, quando non trattati diffusamente nel
capitolo, si rimanda alle schede raccolte nell'Appendice. Qui sono messi in luce quegli aspetti
(come i riferimenti alla troupe all'interno del film, l'utilizzo di campo/controcampo e raccordi,
l'inserimento di una voce over, didascalie, materiale di repertorio ecc.) che possono o meno avallare
l'impressione di veridicità; elemento che vedremo essere indispensabile affinché si possa parlare
propriamente di mock-documentary. Nelle schede realizzate si è fatto riferimento sia al titolo
originale del film che a quello italiano, se presente, o a quello internazionale; le case di
distribuzione indicate sono relative al Paese di produzione del film. Tra i titoli presi in
considerazione all'interno del secondo capitolo troviamo film che trattano tematiche politiche e
sociali, opere che raccontano l'ascesa al successo di fittizi cantanti o gruppi musicali e finti
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documentari che sfruttano l'impressione di veridicità che generano per suscitare orrore nel pubblico,
o riflettono sulla morbosità dei media mettendo in scena reportage dedicati a figure di assassini
seriali. Un altro argomento spesso trattato in questo tipo di film è il retroscena del mondo dello
spettacolo, raccontando storie di attori e di produzioni cinematografiche. Non manca chi utilizza il
finto documentario per raccontare commedie o storie sentimentali, né mockumentary sul mondo
dello sport che narrano storie legate sia a discipline esistenti che a sport inventati.
Nel terzo capitolo sono state trattate le nazioni che più hanno investito in questo tipo di film,
evidenziando i generi maggiormente messi in scena e le case di produzione che hanno realizzato più
di un finto documentario; dagli USA al Canada, passando per l'Europa, l'Australia e la Nuova
Zelanda. Nella seconda parte del terzo capitolo viene fornito un elenco dei Festival cinematografici
di tutto il mondo che al loro interno presentano una sezione relativa ai mockumentary, o sono
interamente dedicati ai finti documentari. Tra questi il Mock Film Fest californiano, il Piemonte
Documenteur Film Festival e il Festival du Documenteur de l'Abitibi-Témiscamingue.
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Capitolo I
PER UNA DEFINIZIONE
I.1 Etimologia e definizioni
Il termine mockumentary deriva dal verbo inglese to mock, ovvero “farsi beffe di qualcuno” –
l'equivalente del francese mocquer “deridere” – ma l'aggettivo corrispondente mock è stato spesso
fatto coincidere con “falso” . Come ci fanno notare Muratori e Prevosti, si tratta di un «Falso che
però non coincide con la mistificazione, ma con lo scherzo creativo».
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I registi di questa particolare
tipologia di documentario, quindi, non realizzano dei falsi documenti (interviste, filmati di
repertorio) avendo come fine ultimo quello di ingannare lo spettatore, bensì cercano di mostrargli
con quanta facilità si è portati ad attribuire uno statuto di realtà a qualcosa, solamente per il fatto
che ci viene mostrato in una determinata forma o veicolata con certi mezzi. Per quanto riguarda la
genesi del termine, dice Formenti: «viene solitamente attribuita al regista Rob Reiner, che si vuole
l’abbia utilizzato per la prima volta nel 1984 per definire il suo film This Is Spinal Tap. Tuttavia, ho
constatato come nel 1983 la critica americana, nel recensire Zelig di Woody Allen, ricorresse già
all’espressione “mock documentary”».
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L'utilizzo del termine, comunque, fuori dalla cerchia degli
addetti ai lavori non è molto d'uso; ci fa notare di nuovo Formenti che:
il vocabolo mockumentary non viene utilizzato nei paratesti con cui tali pellicole vengono presentate
al pubblico, a dimostrazione di come l’industria cinematografica non lo abbia mai riconosciuto
nemmeno come un filone. Al contrario, tali pellicole vengono proposte agli spettatori o come
documentari o come prodotti appartenenti a specifiche categorie del cinema di fiction, quali l’horror,
la fantascienza, la commedia o il film sentimentale.
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Andiamo ora ad esaminare alcuni punti di vista riguardanti la definizione di questa tipologia di
documentario, nello specifico quelli di Nichols, Formenti e Condello.
Nel suo Introduzione al documentario, Nichols fa rientrare il mockumentary all'interno di quella
categoria di documentari caratterizzati da una modalità riflessiva, ovvero quella dove «invece di
guardare attraverso il documentario per vedere il mondo, i film riflessivi ci chiedono di guardare il
1 LETIZIA MURATORI, CRISTINA PREVOSTI, Guida al mockumentary, Einaudi, Torino 2007, p. 5.
2 CRISTINA FORMENTI, Il mockumentary, quando le estetiche documentarie diventano stile cinematografico, in
"Bianco e Nero", LXXIII, n. 572, gennaio-aprile 2012, p. 113.
3 Ivi, p. 110.
3
documentario per ciò che è: una rappresentazione ricostruita».
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Più metacinematografica di tutte le
altre, dunque, questa modalità documentaria
è quella che ha una maggiore consapevolezza di sé e che maggiormente mette in dubbio se stessa. Un
accesso realistico al mondo, l’abilità di fornire prove convincenti, la possibilità di trovare una prova
inconfutabile, il legame tra l’immagine e ciò che indica: tutte queste nozioni vengono messe in dubbio.
[…] Il fatto che queste nozioni possano ispirare allo spettatore una fiducia indiscriminata nelle
immagini porta il documentario riflessivo a esaminare la natura di tale fiducia, invece che a dimostrare
la validità di ciò in cui si crede. [...] Nella sua forma migliore, il documentario riflessivo spinge lo
spettatore a essere maggiormente consapevole del rapporto con il documentario e con ciò che
rappresenta.
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È però contraria all’inserimento dei mockumentary nell'ambito della modalità riflessiva Cristina
Formenti, la quale ritiene che, «pur intendendo anch’essi portare lo spettatore “a essere
maggiormente consapevole del rapporto con il documentario e con ciò che rappresenta”, i
mockumentary raggiungono questo scopo facendo ricorso a vicende di finzione e non a riprese dal
vero».
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Contraria anche all'idea, portata avanti da molti, di far coincidere il mockumentary con un
“genere contenitore”, Formenti fa notare come «con il termine-ombrello mockumentary viene
identificata una pluralità di prodotti tra loro molto diversi che non presentano quell’insieme di
caratteristiche semantiche e sintattiche comuni necessarie per poter parlare di genere»
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, e sia meglio
quindi considerarlo «a tutti gli effetti uno stile narrativo collettivo».
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La maggior parte dei lavori
appartenenti a questa tipologia, difatti
presenta un montaggio frammentato, nonché continue sottolineature della presenza di un obiettivo,
pronto a scrutare tutto ciò che accade, operate sia attraverso i movimenti di macchina prescelti sia
attraverso cenni, ammiccamenti o interazioni dei personaggi con l’apparecchiatura stessa e con coloro
che la utilizzano.
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Un altro ad analizzare i tratti stilistici comuni a più mockumentary (pur considerandoli sempre un
“genere”) è Francesco Condello, che definisce i suddetti «testi di finzione che si appropriano di
4 BILL NICHOLS, Introduzione al documentario, Il Castoro, Milano 2005, p. 131.
5 Ivi, p. 134.
6 CRISTINA FORMENTI, Il mockumentary…, cit., p. 108.
7 Ibidem.
8 Ivi, p. 109.
9 Ivi, p. 111.
4
elementi estetici del genere documentaristico o di altri media basati sulla realtà».
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A differenziarli
dagli altri testi, interviene un
utilizzo di un’autorevole voce narrante fuoricampo o di un presentatore che, nello schermo, si rivolge
direttamente allo spettatore. […] Utilizzo di riprese apparentemente “reali”, materiale d’archivio
(anche fotografico), interviste (con sedicenti esperti o presunti testimoni oculari e ogni altro modo di
rappresentare la realtà che risulti familiare allo spettatore.
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Condello esamina inoltre il rapporto con il pubblico, che caratterizza in maniera unica la fruizione
di questo tipo di lavori, in quanto
i mockumentary funzionano grazie ai presupporti e alle aspettative che lo spettatore ha nei confronti
della rappresentazione del reale. Di fronte ad un testo che appare o “suona” reale, la tendenza è infatti
quella di trattarlo come fattuale, e leggerlo quindi in modo completamente diverso rispetto ad un testo
di finzione.
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E si riaggancia alla modalità riflessiva trattata da Nichols:
Infine, tutti i mockumentary condividono una certa riflessività nei confronti dei documentari (e dei
media correlati), giacché riutilizzano, manipolandole, queste forme comuni e spesso date per scontate.
In questo modo dimostrano quanto facile sia falsificare codici e convenzioni che normalmente
associamo alla riproduzione della realtà, invitandoci a ricercare le motivazioni che ci spingono a
riporre una quasi cieca fiducia nell’integrità e nell’accuratezza dei generi documentaristici.
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Per quanto riguarda il rapporto del film con il pubblico, Nichols ci fa notare come «l’idea che un
film sia un documentario nasce dalla mente dello spettatore tanto quanto dal contesto e dalla
struttura del film».
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Questo può considerarsi valido anche quando si parla di un film appartenente
alla tipologia del mockumentary che però, secondo la Tesi di Laurea di Luca Franco, «introduce una
grossa novità soprattutto nel suo rapporto con il pubblico con cui stabilisce una sotterranea,
implicita complicità. In questo modo il pubblico non è più passivo, ma deve in qualche modo
riconoscere il genere sia per apprezzarlo, sia per poterlo situare nel continuum realtà/finzione»
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.
10 FRANCESCO CONDELLO, Le ragioni dell'aragosta, Tesi di Storia del cinema italiano, relatore Franco Prono,
Università degli Studi di Torino 2012, p. 20.
11 Ibidem.
12 Ibidem.
13 Ibidem.
14 BILL NICHOLS, Introduzione al documentario, cit., p. 46.
15 LUCA FRANCO, Il mock-documentary e la decostruzione del genere documentario, corso di laurea in Lettere,
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