3
PARTE PRIMA
RESIDENZA E TRASFERIMENTO
1. Il trasferimento
Trasferire è un termine di uso comune che si compone del prefisso
trans-, al di là, e del verbo ferre, portare. In origine lʼespressione denota
dunque uno spostamento, da un luogo a un altro, di una cosa. Adottando una
perifrasi già in uso in campo civilistico anche il diritto tributario ha accolto nel
suo lessico lʼespressione trasferimento di residenza, più che per la sua
precisione descrittiva, presumibilmente per la sua forza evocativa. Tuttavia
lʼutilizzo dellʼespressione trasferimento, come afferma Melis, “è di natura
evidentemente “atecnica”, in quanto non si trasferisce la “residenza fiscale”,
ma semmai si assiste ad un mutamento materiale degli elementi costitutivi
che la compongono, che vengono meno tout court o si ricostituiscono nel
territorio di un altro Stato”
1
. Dunque, più che assistere a uno spostamento, vi
è un venir meno di quei criteri di collegamento che avevano determinato la
residenza in un dato luogo, e il loro ricomporsi in un altro. In uno scenario
come quello italiano, ma questo è lʼindirizzo intrapreso dalla maggior parte
degli ordinamenti statuali, in cui si è adottato il principio di tassazione
mondiale, è evidente la rilevanza che può assumere il trasferimento,
fenomeno che per lungo tempo è invece stato trascurato dal legislatore
nazionale. Rilevanza per lo Stato, poiché il trasferimento della residenza
comporta il venir meno del criterio di collegamento che determina
lʼassoggettamento del soggetto allʼonere impositivo, con le potenzialmente
devastanti conseguenza con riguardo alle risorse a disposizione dello Stato,
se su larga scala. Ma rilevanza anche per il singolo contribuente, che può
avere un forte interesse a trasferire la propria residenza in ragione del
1
MELIS, G., Trasferimento di residenza fiscale e imposizione sui redditi, Giuffrè editore,
Milano, 2009, p. 2.
4
notevole risparmio fiscale che può ottenere, spostandosi da un Paese ad alta
fiscalità ad uno a bassa fiscalità. A seguito di queste considerazioni è
evidente come il trasferimento di residenza fiscale possa intaccare le finanze
pubbliche e potenzialmente prestarsi a fenomeni di elusione o evasione
fiscale. Queste preoccupazioni hanno spinto il legislatore ad intervenire sul
tema, tenendo ben presente e distinte, tra le perdite complessive di gettito
fiscale, quella che possono ritenersi legali o fisiologiche, sulle quali è
intervenuto con exit taxes solo nei riguardi di soggetti collettivi, e quelle
patologiche ed elusive, a contrasto delle quali sono state apposte presunzioni
legali relative, anche con riguardo alle persone fisiche.
La residenza fiscale, i suoi requisiti e caratteristiche rimangono tuttavia
lʼaspetto centrale da esaminare per capire se, sciolti gli elementi di
collegamento che avevano determinato la residenza in un dato luogo, essi si
siano ricostituiti in altro luogo, così da determinare lʼavvenuto trasferimento. In
ragione di ciò è opportuno ripercorrere le trasformazioni del sistema tributario,
che hanno condotto la residenza fiscale a essere il criterio affinché lo Stato
possa legittimamente avanzare le sue pretese impositive e di come la
maggiore o minore ampiezza di tale nozione possa comportare lʼacquisizione
o la perdita della residenza fiscale.
2. Da un sistema di tassazione reale verso un sistema personale
Il concetto di residenza fiscale nel corso del tempo ha variato
notevolmente il suo peso specifico
2
. Il panorama europeo del XIX secolo era
caratterizzato da un sistema di imposte reali nel quale la residenza aveva un
ruolo marginale, dal momento che ciò che rileva in modello di questo genere è
il locus rei sitae o luogo di produzione del reddito. Come spiega Einaudi “nel
sistema di tassazione reale ciò che si vuole tassare non è il reddito netto
complessivo totale di una persona(…) ma i singoli redditi netti che derivano
2
Per unʼampia panoramica vedi anche BAGGIO, R., Il principio di territorialità ed i limiti alla
potestà tributaria, Giuffrè editore, MILANO, 2009, pp. 270-279.
5
dalle cose capaci di produrre reddito”
3
. Tale sistema, nel quale la tassazione
segue la cosa e non ha invece interesse a conoscere le condizioni personali
del contribuente, comporta degli indubbi vantaggi, dal punto di vista “di
semplicità, di chiarezza, di generalità e di esattezza”
4
e tende ad evitare
doppie imposizioni territoriali, ma risulta inconciliabile con qualunque principio
di progressività.
Di imposte progressive si era già discusso nel periodo illuminista
5
, il
Buonarroti aveva inserito il principio nella sua “Costituzione dʼogni repubblica
italiana”
6
e, indissolubilmente collegato a ciò, aveva auspicato lʼistituzione del
ruolo, comprensivo di tutti i redditi per ogni contribuente, e di una “anagrafe
fiscale”. Tuttavia è forse solo a cavallo tra la fine del ʻ800 e gli inizi del ʻ900
che inizia a farsi impellente la necessità di riformare il sistema tributario
7
e
attuare, attraverso il grimaldello della progressività, una migliore distribuzione
del carico tributario, che un sistema di tassazione reale e proporzionale non
poteva garantire
8
. Una tassazione reale non può difatti che prevedere
unʼaliquota costante in quanto, in un sistema di imposizione di cose, le cose
sono tutte uguali, e non è possibile valorizzare le differenze tra contribuenti.
Unʼulteriore spinta verso un sistema di imposte progressivo e personale fu
3
EINAUDI, L. Princìpi di scienza delle finanze, Editore Boringhieri, Torino, 1966, p.134.
4
EINAUDI, L., Princìpi, cit., p. 148. Sul punto si veda anche MARONGIU, G. Storia del fisco
in Italia I. La politica fiscale della destra storica (1861-1876) Einaudi editore, Torino 1999,
p.380-382.
5
Il 24 aprile 1793, nel corso della discussione sulla dichiarazione dei diritti dellʼuomo,
Robespierre diceva alla Convenzione: “in materia di contribuzioni pubbliche, vi è forse un
principio più evidentemente fondato sulla natura delle cose e sulla giustizia eterna, di quello
che impone ai cittadini lʼobbligo di contribuire alle spese pubbliche progressivamente secondo
lʼestensione della loro fortuna, vale a dire secondo i vantaggi che essi traggono dalla
società?”. GOMMEL, C., Historie financière de la Législative et de la Convention, Paris 1902,
vol. I, pp. 463-464.
6
Progetto di Costituzione di una Repubblica Italiana, Titolo secondo Principi fondamentali di
sociabilità, Artt. 23-25 “Un testaccio generale è la sola contribuzione pubblica. Il testaccio è in
proporzione progressiva della facoltà di ciascun contribuente. Questo testaccio non deve mai
intaccare il semplice necessario.”.
7
Su questo punto vedi MARONGIU, G., Storia del fisco in Italia – II. La politica fiscale della
sinistra storica ( 1876-1896), Einaudi editore, Torino, 1996, pp. 480-492
8
Webber: “There was a gradual shift in the climate of opinion after 1880: equity displaced
efficiency as the chief rationale for taxation. (…) According to the social theory of taxation
emerging in Europe and America, in industrialized societies where large differences in wealth
exist, a citizenʼs ability to pay taxes, not the benefits he receives from government, was the
fairest criterion of how much he should contribute” in WEBBER C., WILDAVSKY, A., A
History of Taxation and Expenditure in the Western World, Simon and Schuster, New York,
1986, p. 343.
6
data dalla trasformazione economica in atto e dalla conseguente esigenza,
nonché volontà, da parte dellʼente tassatore di includere quanta più materia
imponibile possibile tra quelle di sua competenza
9
.
In ragione di queste considerazioni il legislatore pose in essere un primo
tentativo, nel corso della prima guerra mondiale, volto ad introdurre criteri di
progressività nelle imposte reali
10
. Una tassazione progressiva però non può
prescindere dallʼimposta personale, unica in grado di conoscere lo stato
economico del contribuente, così da non dare solamente “lʼimpressione di
tassare di meno i contribuenti piccoli e di più i contribuenti grossi”
11
, ma
andare effettivamente in questa direzione. Tuttavia in quel dato momento
storico lʼapparato amministrativo finanziario era quello di un Paese appena
uscito dalla guerra e non era in grado di governare la maggiore complessità
che un sistema di tassazione personale richiedeva, in termini di gestione e
capillarità. Ciononostante, si decise di perseguire questa strada, per il
simbolico cambio di prospettiva che poteva dare.
Luigi Einaudi, nei suoi scritti, cataloga questi primi tentativi come
incongrui e, più che ravvisare una prima embrionale attuazione di criteri di
progressività, che per essere effettivamente tale richiederebbe di conoscere il
quadro complessivo della situazione personale del contribuente, pone
lʼaccento sugli aspetti extra-tributari della norma. La lettura che viene data di
quelle norme fuoriesce infatti dal campo tributario: è insita lʼidea che, con
lʼaumento dellʼaliquota in ragione delle dimensioni del fondo, si possa
assistere ad un progressivo smantellamento delle grandi proprietà, a
vantaggio di fondi più piccoli, sui quali graverebbe un carico impositivo nel
complesso inferiore rispetto a quello che incomberebbe se il fondo fosse
unico. Con una norma tributaria che vorrebbe introdurre criteri di progressività
nel sistema, si cerca di ottenere risultati che vadano oltre a quello
strettamente tributario.
9
Così Einaudi: “Questa trasformazione per cui i redditi, invece di essere semplici, uniformi e
localizzati tendono a divenire sempre più complessi e provenienti da luoghi diversissimi, ha
favorito il sistema di tassazione personale; lʼente tassatore non si può più contentare di
tassare il reddito originale nel suo territorio”, in EINAUDI, L. Princìpi, p.150.
10
D.L. 9 novembre 1916, n. 1525, e D.L. 9 settembre 1917, n.1546, rispettivamente per
lʼimposta sui terreni e ricchezza mobile e per lʼimposta sui fabbricati.
11
EINAUDI, L., Princìpi, cit., p. 144.
7
Nel dopoguerra Filippo Meda, ministro delle Finanze del tempo, fece un
primo tentativo di mettere ordine alle frammentarie imposte sui redditi e ai
primi abbozzi di progressività. Meda, nel presentare alla Camera nel marzo
del 1919 il suo disegno di legge “Riforma generale delle imposte dirette sui
redditi e nuovo ordinamento dei tributi locali”
12
, non fece proclami illusori sulla
“efficienza restauratrice delle finanze dello Stato” che potrebbe avere la
riforma. Piuttosto, egli afferma che, se ci sarà un merito da riconoscere alla
riforma, sarà quello di aver dato un impulso decisivo affinché “lʼimposizione
diretta tipica sia quella sul reddito, cioè sul coacervo di redditi, o, secondo una
parola dellʼuso, globale; e crescere in ragione progressiva del reddito
imponibile; postulato già accolto in parecchie legislazioni moderne, e che da
noi si è avuto il torto finora di ammirare e di applaudire, senza osarne la
traduzione in atto”
13
. Il progetto si arenò e neppure ebbe seguito il tentativo
immediatamente susseguente, per opera del Ministro delle Finanze Tedesco,
di riesumarlo
14
.
Solo nel 1923, con il regio decreto del 30 dicembre, n. 3062, si affiancò,
al sistema delle imposte dirette reali, una prima imposta personale
progressiva, complementare. Lo stretto legame tra personalità dellʼimposta e
rapporto con il territorio, nonché la rapida evoluzione e crescente complessità
nellʼindividuare il bacino dei contribuenti, fece sì che il legislatore,
contestualmente allʼintroduzione dellʼimposta personale, diede una prima
indicazione dei soggetti, cittadini o stranieri, che, in ragione del loro legame
col territorio, erano tenuti al pagamento dellʼimposta
15
. Imposta personale e
residenza, termine usato ancora in senso atecnico, hanno dunque un forte
12
Per unʼampia trattazione vedi MEDA, F. La riforma generale delle imposte dirette sui
redditi, MILANO, Fratelli Treves Editore, 1920.
13
MEDA, F., La riforma, cit., p. 4.
14
D.L. 24 novembre 1919, n.2162.
15
Art. 4, regio decreto 30 dicembre 1923, n. 3062 “il cittadino o lo straniero che abbia nel
Regno la propria residenza ai sensi dellʼart.16 codice civile, ancorché non sia iscritto nei
registri di popolazione, deve lʼimposta sul complesso di tutti i suoi redditi prodotti nel Regno e
su sulla parte dei redditi prodotti allʼestero, la quale sia goduta nel Regno. Si presume abbia
residenza nel Regno lo straniero il quale vi dimori almeno da un anno. Il cittadino residente
allʼestero deve lʼimposta sulla parte del reddito che si produce nel Regno. Quando il cittadino
o lo straniero dimori per una parte dellʼanno nel Regno deve lʼimposta, oltre che sul reddito
che si produce nel Regno, anche su quella parte del reddito prodotto allʼestero che si
presume goduto nel Regno. Il cittadino che per ragioni di pubblico ufficio risiede nelle colonie,
o allʼestero, è parificato al cittadino residente nel regno”.
8
collegamento: una tassazione che avviene nel luogo di residenza permette di
conoscere in maniera completa lo status patrimoniale del contribuente e il
complesso di redditi sui quali calcolare la tassazione ed è inoltre in tale luogo
che il contribuente usufruisce, in primis, dei servizi pubblici.
Con riguardo allʼimposta personale complementare, il legislatore declina
dunque le possibili situazioni di collegamento con il territorio, nelle quali si
possono trovare cittadini o stranieri.
Il cittadino residente o lo straniero, indipendentemente da quanto risulti
allʼanagrafe (pertanto si va nella direzione di valorizzazione una situazione
effettiva) è tenuto al pagamento dellʼimposta per il reddito che produce nello
Stato e per quello che eventualmente produce allʼestero ma di cui gode in
Italia.
Allʼestremo opposto si desume che il cittadino italiano, residente
allʼestero che produce e consuma il reddito allʼestero, non sia tenuto al
pagamento dellʼimposta personale in Italia, se non altro per la considerazione
pratica che lo Stato non avrebbe strumenti efficaci per esigere tale
pagamento.
Una situazione intermedia è quella del cittadino che ha la residenza
allʼestero ma i suoi redditi provengono da fonti italiane. Il legislatore, nel
disciplinare questa fattispecie, era mosso da diverse considerazioni.
Unʼimposta personale, come tratteggiato in precedenza, ha come elemento
non secondario il legame con il territorio e i servigi resi dallo Stato al
contribuente. Nel caso di specie tuttavia non si intravvede questo legame, dal
momento che in Italia si produce solo il fatto reale del reddito, che è goduto
allʼestero, né tantomeno vi è il godimento di alcun servizio. Ciononostante il
legislatore ha ritenuto che tale categoria fosse soggetta allʼimposta personale
e le ragioni possono essere molteplici. In primo luogo una molto pratica: lo
Stato ha interesse ad aumentare la base impositiva e poiché la fonte del
reddito è in Italia, su di essa può far valere la propria sovranità impositiva.
Tale imposta potrebbe essere inoltre inquadrata, e giustificata, come una
sorta di penale nei confronti di coloro i quali esportano reddito e ricchezza
fuori dai confini italiani. Unʼultima considerazione, che si rifà alla teoria
9
classica dellʼimposta quale controprestazione per servizi forniti dallo Stato, è
costituita dal fatto che un cittadino, sebbene residente allʼestero, continua ad
usufruire e godere di una serie di servizi, quali la protezione diplomatica e
consolare, ed è conseguentemente tenuto a concorrere al pagamento di tali
costi. Questo insieme di elementi ha convinto il legislatore ad assoggettare
questa categoria di cittadini allʼimposta personale
16
. Il reddito complessivo,
utilizzato per determinare lʼimposta progressiva personale, fu
successivamente adoperato anche come base per una seconda imposta
personale, questa volta sui soli soggetti celibi
17
.
È tuttavia solo con la Costituzione, e in particolare con lʼarticolo 53, che
viene definitivamente sancito che il sistema tributario italiano si deve
conformare a principi di progressività. Dalla lettura dei lavori dellʼassemblea
18
emerge lʼampio dibattito che portò alla formulazione dellʼarticolo, così come lo
conosciamo.
Il secondo comma, come si delineò alla fine dei lavori dellʼassemblea,
sancisce che “[i]l sistema tributario è informato a criteri di progressività”. Ai
detrattori di tale formulazione
19
, che sottolineavano le difficoltà pratico
attuative di tale nuova impostazione, dal momento che sottintendeva
necessariamente una revisione dellʼintero sistema impositivo, si rispose che il
comma prevede che “il sistema tributario nel complesso deve essere
informato al principio della progressività”
20
ma che una siffatta formulazione
non può che lasciare intendere che “non tutti i tributi possono essere
16
Per unʼampia disanima sul tema vedi EINAUDI, L., Il sistema tributario italiano, sesta
edizione, Edizioni scientifiche Einaudi, Torino 1958.
17
Regio decreto legge 19 dicembre 1926, n. 2132, e regio decreto legge 24 settembre 1928,
n. 2296
18
Resoconti assemblea costituente, p. 4203 ss.
19
Così Corbino, Resoconti Assemblea costituente, p. 4207, “Se noi vogliamo introdurre nel
sistema tributario il principio della progressività, dobbiamo arrivare alla soppressione di
questo duplice sistema di tassazione (tributi reali e tributi personali) e ricorrere al sistema
unico di tassazione che esiste in altri paesi. Non cʼè niente in contrario, in teoria, ma in pratica
si dovrebbe affrontare una riforma fiscale che non so fino a qual punto nel nostro Paese
potremmo cominciare a studiare”.
20
SCOCA, Resoconti Assemblea costituente, p. 4204.
10
progressivi; e ve ne sono, di diretti e di reali, che debbono essere
necessariamente proporzionali”
21
.
Il comma primo dellʼarticolo 53 della Costituzione sancisce che “tutti
sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità
contributiva”. Dai lavori dellʼassemblea costituente
22
emerge che lʼadozione
del pronome “tutti”, in sostituzione della locuzione “tutti i regnicoli”, adottata
dallʼart. 25 dello Statuto Albertino, e alternativa alla formulazione “tutti i
cittadini” utilizzata invece nelle altre disposizioni del titolo IV sui rapporti
politici, assume un preciso significato. La preferenza accordata al termine
“tutti” deve essere intesa nel più ampio progetto di eventualmente “estendere
lʼesercizio della sovranità impositiva a coloro i quali, pur non essendo cittadini
italiani, appartengono economicamente al territorio dello Stato, nel senso che
sfruttandone i servizi sono tenuti a concorrerne alle spese”
23
. Con tale
locuzione si vuole perciò lasciare al legislatore la più ampia discrezionalità
possibile nellʼandare a determinare, in un momento successivo, i criteri di
collegamento con il territorio che faranno sorgere la pretesa impositiva dello
Stato. Tale formulazione permette, difatti, di valorizzare da un lato criteri
21
Così RUINI, Resoconti Assemblea costituente, p. 4208. Simili considerazioni sono
espresse nel corso dei lavori anche da Scoca: “non tutte le imposte debbono essere
progressive; (…) la progressione non si addice alle imposte reali e può trovare solo
inadeguata e indiretta applicazione nelle imposte sui consumi e nelle imposte indirette in
generale”.
22
Così lʼOn.le Ruini: “Quel “tutti” riguarda anche gli stranieri, come risulta dallʼintero testo
costituzionale che agli altri articoli distingue quando vuol riferirsi ai cittadini, cioè riguarda
“tutti”, ove sono inclusi anche gli stranieri, che potranno essere assoggettati a tributi, in
quanto ve ne siano le ragioni obbiettive, e lo consentano le norme internazionali”. RUINI, Atti
dellʼassemblea costituente, p. 4206.
23
MARINO, C., La residenza nel diritto tributario, Padova, Cedam, 1999, p. 181; su questo
punto MANZONI, con riguardo allʼutilizzo del termine tutti: “con lʼadozione dellʼindefinito “tutti”,
dimostra nel modo più palese come lo stato di cittadinanza non sia affatto requisito
indispensabile ai fini della titolarità del dovere tributario” in MANZONI, I., Il principio della
capacità contributiva nellʼordinamento costituzionale italiano, Torino, Giappichelli Editore,
1965, p.22 . Di avviso opposto BERLIRI: “chi sono i “tutti” tenuti a contribuire alle spese
pubbliche? La risposta non è dubbia: sono i cittadini”. Lʼautore afferma che questa deve
essere lʼeffettiva portata dellʼart. 53 in ragione della “collocazione nel titolo dedicato ai rapporti
politici, cioè a rapporti che presuppongono il possesso dello status di cittadino” e alla luce del
risultato assurdo (“tutti gli abitanti della terra”), imperfetto (“priva (…) della indicazione del
criterio in base al quale discriminare gli stranieri tenuti a contribuire da quelli esenti”) o di
applicazione impossibile (“giacché lo Stato italiano non è in grado di conoscere la capacità
contributiva degli stranieri”) che risulterebbe da una interpretazione diversa. BERLIRI, A.,
Lʼobbligo di contribuire in proporzione della capacità contributiva come limite alla potestà
tributaria, in AA. VV. Scritti in memoria di Antonino Giuffrè, Milano, Giuffrè Editore, 1965, Vol.
III, p. 88-92.