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INTRODUZIONE
L’idea iniziale di questo mio lavoro è piuttosto semplice: mettere a fianco e esaminare
nello specifico la tecnica ekphrastica di Roberto Longhi con quella di Melania Mazzucco.
La mia analisi è stata condotta attraverso circa sei mesi di analisi dei testi dei due scrittori,
con un piccolo distinguo da farsi però. La selezione è stata severa e spietata, mi si permetta
di usare questa parola, dato che ambedue gli autori hanno dietro le spalle una produzione
molto vasta; per una analisi totale del corpus dei due, rimando a successivi lavori.
Qui ho preferito soffermarmi, principalmente, su due snodi, per me, fondamentali della
produzione: cioè per quanto concerne Longhi le opere giovanili e della”prima maturità”
(grosso modo i saggi fino al 1936) e per Melania Mazzucco, anche per l’importanza che il
giornalismo ha nel mio corso di laurea in Informazione e Editoria, l’analisi degli articoli
formanti la rubrica settimanale, uscita su La Repubblica, denominata “Il Museo del
Mondo”. Ho operato questa selezione perché ho trovato che meglio si adattasse ad una
analisi, verticale, sotto la luce dell’ekphrasis. Sono andato a ricercare, attraverso la
citazione di passi più o meno lunghi ora dell’uno ora dell’altra, le differenze e le contiguità
tra i due.
Confesso che il risultato finale si è molto discostato dall’iniziale “scintilla” che ha mosso
l’opera. In fase preliminare mai avrei pensato di andare a rintracciare non soltanto nella
produzione letteraria, ma anche nell’humus culturale (seppur a distanza di mezzo secolo!)
e addirittura nella vicenda biografica e addirittura nelle più intime passioni, anche
giovanili e “secondarie” (una su tutte, il cinema e il teatro), che hanno reso appassionante
la mia ricerca. Non posso dire che il risultato sia stato pienamente centrato (ma non era
questo il mio obbiettivo): le differenze tra permangono, forti, e certamente non dimentico
quanto diversi siano, i due.
Nonostante questo, e qui sta la motivazione più vera e intima di tale lavoro, il solo fatto di
aver comparato Longhi e Mazzucco, rende questo lavoro non alieno da un certo interesse.
Al di là di facili discorsi qualunquisti, bisogna ammettere che raramente, nelle Università
italiane, si presta attenzione per il contemporaneo ( e a questo non mi riferisco soltanto al
mio specifico corso di laurea o all’Ateneo dove ho studiato, ma è un discorso in senso
assolutamente lato).
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In questa tesi ho potuto, grazie anche alla libertà concessami dal relatore, di spaziare tra il
molto vicino e il molto lontano. Infatti, come spero di poter e sapere illustrare nel corso dei
vari capitoli che compongono questo lavoro, sono partito dalla “classica” spiegazione del
concetto “ekhprasis”, non rinunciando a richiamare a me i precetti degli antichi, per
arrivare a discutere intorno ad un nuovo modo di intendere la critica d’arte, la storia
dell’arte e la letteratura artistica contemporanea.
Detto questo il lavoro in questione è stato certamente ambizioso e mi scuso
preliminarmente per gli errori o le dimenticanze che senza dubbio si potranno incontrare.
Devo ammettere però che è stato stimolante approcciarsi ad una tematica tanto cangiante e
“proteiforme”, non facilmente imbrigliabile entro comuni gabbie scientifiche ma forse per
questo, così affascinante.
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«Le incrostazioni della salsedine e degli acidi marini che irritano
e macchiano il cristallo della conchiglia più gentile di tinte».
Momenti ekphrastici negli scritti longhiani su giornale.
La comparsa dell’ekphrasis fra le pagine della “sterminato accumulo” di scritti di Roberto
Longhi è tanto naturale, come dalla notte s’avanzi all’aurora, da parere un processo irto di
artificiosità, allo stesso modo del raggiungimento di quel lucore diffuso che ha reso Piero
della Francesca immortale. Vi è che nell’opera di Longhi, la lingua viene costantemente
torta e ritorta, arzigogolata fino all’astrusità di taluni neologismi, una specie di “barocco
espressionista” che è stato, e viene tutt’oggi ancora, sviscerato, sino alla sua intimità più
“secreta”, da ridde di, ora più ora meno, valenti studiosi. Spesso per comodità, ma non
senza una buona dose di lapalissiani riscontri, la sua lingua è stata comparata e affiancata
con quella del “magnifico lombardo” Carlo Emilio Gadda; quasi coetanei i due, l’uno
ammiratore dell’altro (e se si presta fede alla corrispondenza di Roberto Longhi,
maggiormente quest’ultimo del primo), costruttori di magnifiche architetture “â la
Piranesi” in letteratura e accumunati da un piacere, peccatore e benedetto, per le infinite
trasformazioni della lingua italiana. Tuttavia, lo sbocciare di quella particolare tecnica,
perfetta simbiosi di letteratura applicata all’arte, denominata “ekphrasis” va indagata a
fondo, attraverso il combinato disposto dell’arrovellarsi attorno alla lingua e allo stile
proprio dello scrittore ed alle letture, i gusti e le inclinazioni personali dell’”essere umano”
Roberto Longhi. Questo processo, che deve apparire come ambizioso e privo di ogni sorta
di modestia (perché solo così si può discernere l’intima natura impervia di tale impresa), è
la somma via per attraversare gli scritti longhiani fermandosi, come il Rousseau delle
Passeggiate solitarie, a riflettere sulla forma uomo (silloge di natura e cultura) e a cogliere, di
tanto in tanto, quelle stelle alpine sublimi che sono le pagine migliori.
Come scritto in sede di introduzione al mio lavoro, mi concentrerò sulle opere della
giovinezza di Longhi, quindi fermandomi non oltre il 1930. Senza ritornare sulle
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spiegazioni di questa scelta, già esaurite precedentemente, occorre ragionare sul comune
denominare che questi gruppi di scritti, per certi versi molto eterogenei gli uni fra gli altri,
possiedono in larga misura. Sono tutti lavori di un giovane studioso, brillante e enfant
prodige quanto si vuole, conosciuto e stimato però ancora soltanto negli angusti e asfittici
hortii dei dipartimenti delle facoltà di Lettere (gli stessi che Longhi non avrà problemi a
bollare negativamente in maniera definitiva, come egli stessa ricorda in una lettera-
denuncia sullo “stato dell’arte della Facoltà di Lettere della regia università di Torino”
inviata a Prezzolini). Un ragazzo di poco di più di vent’anni, già fine ragionatore e
conoscitore delle cose d’arte italiana, che ha uno spiccato interesse e mi si permetta
affermare, simpatia, verso le frange più innovative e estremiste delle avanguardie. Si
potrebbe dire “un ragazzo che si sforza di essere contemporaneo pur sentendosi dello
stesso stampo degli antichi”. Ecco perché, a distanza di anni, durante le ristampe delle
proprie opere oppure in occasioni di convegni o interviste, Roberto Longhi sarà quasi
sempre critico verso gli “scritti giovanili”, tacciandoli di una ingiustificata protervia
lessicale e malcelata superbia. Ho usato però il “quasi”; vero è che i critici hanno
sapientemente diviso l’intera produzione longhiana in tre fasi, cioè la prima fase (oggetto
di questa ricerca) avanguardista e incendiaria, la fase centrale di ritorno in fila e di
assestamento manierista e infine la terza, quella della piena maturità, in cui c’è un ritorno
alle origini di sapore classicista. Tutto questo è universalmente accettato e certamente
Longhi, nei casi in cui si “rilesse”, si preferì maturo e tonante nella prosa senile che nei
suoi primi vagiti; eppure rimane quel “quasi”. Infatti Longhi non dimenticò mai di
sottolineare a sufficienza quanto i giudizi benevolenti di taluni scrittori o studiosi, in
primis il suo “primo storico lettore” Emilio Cecchi e poi in seconda battuta Benedetto
Croce, fossero quelli che più lo riempivano di orgoglio e di una infantile gioia. In più c’è
da considerare il fatto che i temi trattati in quegli anni, cioè l’influsso della pittura veneta
in Piero della Francesca, Caravaggio e nei ferraresi, sarà l’architrave dei suoi futuri
capolavori; ed è interessante sottolineare il fatto che, questa fase spesso la si fa terminare
con la prima uscita del Piero dei Franceschi, nel 1927, primo nucleo cioè di uno dei suoi
capolavori della maturità, Piero della Francesca, frutto consapevole di ragionamenti dei suoi
vent’anni.
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Gli scritti del primo periodo di Longhi non sono di facile approccio. Sono scritti scorbutici,
talvolta per stessa ammissione dello scrittore, e come è naturale che sia, frettolosi e troppo
tranchant nei giudizi. Ma proprio la loro natura “asperrima” li rende ideali focalizzatori
per ritrovare fra le pieghe di una lingua sfruttata forse all’eccesso, i mille piccoli eden
dell’ekphrasis. Non che l’ekphrasis scompaia alla comparsa della canizie in Longhi,
tutt’altro, ma viene come levigata da una prosa che si è fatta muscolosa e arieggiata, non
più nervosa e schizoide come quella degli esordi. Questo spiega anche il fatto dei continui
inserti “dalla viva carne” che immetterà nella mia analisi; perché solo rileggendo
direttamente dai testi le contorsioni dello scrittore, si possono capire i gangli vitali del suo
pensiero.
Il primo scritto di Roberto Longhi uscito su rivista si intitola «Rinascimento Fantastico» ed
è comparso sulle colonne della rivista La Voce nel 1912. È un reperto interessante perché in
esso sono contenuti, già abbastanza delineati, le tipiche caratteristiche degli scritti
successivi di questa fase. Innanzi tutto il tono è perentorio e senza possibilità di
ripensamenti o secondi appelli, la sicurezza, che però non trascende mai in sicumera (e se
lo fa, lo fa per artem), del giovane ventenne appare stupefacente, soprattutto alla luce di un
mondo accademico abbottonato e precluso alle novità come quello, storicamente, italiano.
In seconda istanza la lingua della critica d’arte viene costantemente sferzata e irrorata con
prestiti dalle più disparate discipline, soprattutto la chimica, la botanica ma anche la
filologia letteraria. Infine, ed è forse il dato più importante, Roberto Longhi pare voglia
concentrarsi, anzi amare, le zone d’ombra dell’arte figurativa italiana, cioè quei periodi
meno studiati dalla grande critica. Ed è interessante e consustanziale a ciò che il primo
scritto sia un “attacco” contro l’impianto teoretico del Rinascimento, vero e proprio
immutabile archetipo di bellezza ideale e vetta dell’espressione artistica per tutti, studiosi
e non, gli italiani. Longhi, giovane imberbe ricordiamolo, parla di “cadavere del
Rinascimento” nel suo primo scritto; gli echi dei futuristi, inneggianti al cannoneggiare
Venezia (poco più tardi, ossequiosi, gli austriaci dall’aquila bicipite li prenderanno in
parola) sono ad un tiro di schioppo.
La conclusione? Seria sincera. Era un ripiego. È ben certo che non v’è distinzione di capacità
figurative, che l’attuazione è perfetta solo nella totalità della visione :«in verità il mio parere