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Introduzione
Potremmo mettere in discussione il concetto di terza età semplicemente facendo notare
che mentre alcune società hanno codificato il ciclo della vita umana definendo e
attribuendo un nome alle successive età, trasformando cioè un lasso di tempo continuo
in periodi discontinui, la maggior parte delle società primitive non ha invece codificato
in modo altrettanto minuzioso le tappe della vita umana.
Qualcuno potrebbe farci notare, a ragione, che in molte di queste società l’ingresso
nell’età adulta è considerato molto importante ed è segnato da importanti rituali ( riti
d’iniziazione ), ma dovrà poi ammettere che in queste stesse società è molto raro che vi
siano cerimonie per segnare il passaggio alla vecchiaia.
Qualcun altro ci potrebbe far notare, facendo riferimento alle stesse società, che si è
spesso osservato che le donne anziane accedono a funzioni di istruzione e di direzione
proprie dei gruppi femminili, mentre gli uomini anziani vengono considerati gli
individui socialmente più autorevoli all’interno della comunità.
A questo punto dovremmo ammettere che anche in queste società c’è un cambiamento
di status legato all’età, ma dovremmo mettere in guardia i nostri interlocutori sul fatto
che le cose non sono così semplici e ben definite come si sarebbe portati a pensare.
Se c’è una cosa che veramente accomuna le descrizioni della vecchiaia e della
condizione di anziani in tutte le società, in qualunque periodo storico, in qualunque
parte del mondo, è un’ innegabile ambivalenza.
I primi etnologi, fedeli allo schema evoluzionista, consideravano tale ambivalenza
diacronica e non sincronica. In un primo periodo della storia dell’umanità i vecchi
sarebbero stati considerati inutili e di peso per il gruppo sociale. In seguito si sarebbe
presa in considerazione la loro saggezza, acquisita con l’esperienza, e si sarebbe
testimoniato loro onore e rispetto. In realtà i due atteggiamenti coesistono nella maggior
parte delle società e nella sorte riservata ai vecchi intervengono molti fattori.
In generale, in tutte le società è stato osservato pressoché invariabilmente che ciò che
conta non è tanto l’età di un individuo, quanto il grado della sua debolezza fisica e il suo
bisogno di aiuto. I primi osservatori della società irochese, tanto per fare un esempio,
riferiscono che gli uomini e le donne cui la vecchiaia impediva di camminare venivano
uccisi nell’assoluta convinzione di rendere loro un favore, anche se poi in questa stessa
società la vecchiaia veniva rispettata al punto che le parole degli anziani della comunità
venivano considerate oracoli dai più giovani
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Del resto, l’ambivalenza è vissuta anche a livello personale. Il fatto più sorprendente
della vecchiaia, intesa come processo di invecchiamento, è che arriva in modo
silenzioso, a differenza della pubertà, che si manifesta in modo evidente, e quindi il suo
esordio varia da individuo a individuo. Tuttavia, il suo esordio è inevitabile e prima o
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“Vecchiaia”, Enciclopedia Einaudi
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poi, se siamo fortunati, perché a ben vedere si tratta di un traguardo auspicabile, ci
dobbiamo fare i conti. Come dobbiamo fare i conti con la morte.
È qui, forse, che si trova l’unica vera risposta alla domanda: “Quand’è che si diventa
vecchi?”; probabilmente la risposta più sensata a questa domanda è che si diventa
vecchi quando della vita si intravede la fine e, da questo momento in poi, il valore
percepito del tempo e delle cose cambia.
E’ forse questo, anche, il momento della vita in cui, più di ogni altro, si avverte il
bisogno di raccontare la propria storia di vita. A questa età, ci si racconta soprattutto per
soddisfare il bisogno di lasciare una traccia, una testimonianza del proprio passaggio
ma, contemporaneamente, nel raccontarsi, ci si rende conto, man mano che i ricordi si
fanno più vicini, di essere ancora vivi; e allora, ancora una volta, si prende coscienza del
fatto che “il narrare di sé”, a se stessi e agli altri, anche in questa fase della vita, può
aiutare a trovare un senso, a fare ordine dentro di sé, al fine di vivere meglio. Sì, vivere
meglio, fosse anche l’ ultimo giorno che ci è concesso ancora di vivere, perché se dei
vecchi si può dire che non hanno futuro, il presente per loro diventa più presente che
mai.
Ma per vivere bene il presente è necessario innanzitutto guardare con benevolenza al
passato e il racconto autobiografico offre proprio questa possibilità di riconciliazione.
Nel raccontarsi si possono ritrovano le proprie ragioni e si possono comprendere quelle
degli altri, solo così ci si perdona e si perdona, e nel perdonare ci si libera, si ritrova la
serenità. Ecco allora che l’autobiografia genera effetti benefici, catartici: ciascuno a
lavoro finito si accorgerà che percepisce il tempo che rimane in modo diverso e che
anche le piccole cose sembrano aver acquisito un nuovo sapore.
Ci sono molti modi per poter tradurre in racconto la propria vita. Nel presente lavoro ci
occuperemo in particolare della fiaba autobiografica, che potremmo definire,
utilizzando una felice espressione di Maria Varano, “una traduzione metaforica della
propria autobiografia”
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, una delle tante possibili, come vedremo. Ciò che rende la fiaba
particolarmente adatta a conferire alla narrazione autobiografica il suo potere catartico
consiste nel fatto che nella fiaba autobiografica si ha la possibilità di raccontarsi e
descriversi in modo fantastico. Avremmo modo di approfondire l’argomento, in questa
sede ci limitiamo ad osservare che, nel momento che ci traduciamo in personaggi di una
fiaba, ci diamo l’opportunità di riflettere su noi stessi attraverso immagini/specchio e di
operare in questo modo quel “decentramento” emotivo che facilita il distacco necessario
per riflettere sull’accaduto e sul vissuto in modo costruttivo.
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Maria Varano, Guarire con le fiabe. Come trasformare la propria vita in un racconto, pag.9
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Capitolo 1: L’invecchiamento
1.1 L’invecchiamento dal punto di vista biologico
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Come ha osservato Robert Ladislas
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: “ L‟invecchiamento è senza dubbio il fenomeno
biologico più equamente distribuito nel regno animale e vegetale, benché esistano delle
differenze: certi esseri viventi invecchiano molto rapidamente, altri più lentamente,
mentre alcuni sembrano non subire senescenza. L‟invecchiamento è il risultato
dell‟incapacità della grande maggioranza degli organismi di mantenersi in uno stato
funzionale uguale e immutato grazie alla rigenerazione continua di tutti i componenti
dell‟organismo via via che questi si deteriorano. D‟altra parte questa alterazione è un
fenomeno che si ritrova anche nel mondo minerale, non vivente. In natura tutto cambia
circa rapidamente: i metalli si ossidano, le rocce subiscono l‟attacco delle onde e dei
venti.
Si fa distinzione tra montagne “giovani” e “vecchie”, le società, i costumi invecchiano
(In realtà) Il solo fattore comune a tutti questi cambiamenti è il tempo, il tempo che
passa […] Per svariate ragioni il tempo resta fra i parametri più misteriosi della fisica e
della biologia. Reversibile in numerose equazioni della fisica, dalla meccanica alla
relatività, non lo è sicuramente per gli esseri viventi. […] ( Dunque ) Se non si tiene
conto della specificità del mondo vivente, si cade in generalizzazioni che, pur attraenti
come “spiegazione” globale dei fenomeni osservati, non permettono tuttavia di costruire
teorie valide, che possano essere applicate specificatamente agli esseri umani e che
diano conto del loro invecchiamento.”
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I dati scientifici riportati in questo paragrafo sono tratti prevalentemente dal libro di Robert Ladislas
L’invecchiamento. Fatti e Teorie, che passa in rassegna in modo critico ed esauriente le principali teorie
dell‟invecchiamento. Ladislas, ungherese, ha completato i suoi studi di medicina e di scienze in Francia e
si è specializzato nello studio dei tessuti connettivi e in gerontologia. Per Ladislas l‟invecchiamento è un
fenomeno complesso: le ricerche finora condotte hanno infatti messo a nudo un complesso intrico di
meccanismi “programmati” e “stocastici”, che rende poco fattibile la ricerca di una causa unica
dell‟invecchiamento.
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Robert, Ladislas, L'invecchiamento : fatti e teorie : un manuale per capire : una saggio per
riflettere , Milano, Il Saggiatore, 1997, Pag.3
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A questo punto ci si potrebbe chiedere: che bisogno abbiamo di costruire teorie?
Le idee sono un elemento naturale della vita umana e non saremmo in grado di esistere
senza il loro supporto: le idee costituiscono il nostro mondo e mediano il nostro
rapporto con la realtà. Per quanto riguarda specificatamente le teorie
dell’invecchiamento, la vera causa che sottende alla loro elaborazione richiede una
riflessione più profonda e argomentata. Parlare di invecchiamento risveglia due
profonde paure: la paura della morte e la paura della malattia; se la morte è vista come il
suo naturale compimento, la meta ultima dell‟invecchiamento, non è così per le malattie
che sembrano accompagnarlo con una certa frequenza. Ci si chiede: si può invecchiare e
morire in buona salute e senza soffrire? Questa domanda esige una risposta e rimanda al
terzo motivo che sottende all‟esigenza di elaborare teorie. Oggi è disponibile un corpus
considerevole di dati sperimentali, solidamente dimostrati, che richiedono di essere
analizzati e sintetizzati in un quadro interpretativo di livello superiore. Ma l‟eterogeneità
di questi fatti sperimentali, che si richiama a una grande varietà di discipline, rende al
momento difficile proporre un‟unica teoria valida; addirittura può succedere che si
rivedano vecchie teorie alla luce delle nuove acquisizioni di una nuova disciplina, la
gerontologia sperimentale ( una branca della geriatria ), che ha cominciato ad operare
soprattutto a partire dalla meta degli anni ‟50 del secolo scorso.
Abbiamo detto che la gerontologia sperimentale nasce intorno alla metà del secolo
scorso, ma esistono teorie dell‟invecchiamento antecedenti a questa data. Ci si può
domandare allora: Quando e perché si è cominciato a parlare di invecchiamento?
Il consiglio degli “anziani” presente in numerose tribù, il senato romano, il rispetto
dovuto ai genitori codificato a chiare lettere nella Bibbia, testimoniano tutti in modo
inequivocabile che ad un certo punto della storia dell‟umanità cominciò a fare la sua
comparsa il fenomeno dell‟invecchiamento. Poco elevato ai tempi preistorici, il numero
degli individui anziani probabilmente aumentò con la sedentarizzazione, che rese
possibile prima l‟avvento dell‟agricoltura e, in seguito, la nascita delle città e delle
società strutturate. E‟ facile immaginare come il modo di vivere dei cacciatori e dei
raccoglitori, così come quello degli animali sottoposti a predazione, non potesse certo
favorire la longevità. Da Ippocrate al secolo dei Lumi, i cinquant‟anni furono
considerati come il momento di transizione dall‟età adulta alla vecchiaia, traguardo, a
dire il vero, raggiunto e oltrepassato da pochi privilegiati: come testimoniano numerosi
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racconti, carestie e malattie rendevano l‟impresa piuttosto ardua per la maggior parte
della popolazione. Dunque, a parte qualche osservazione isolata, si dovrà aspettare il
XX secolo per assistere alla nascita di una specialità medica chiamata “geriatria”;
evento che fu inizialmente favorito dall‟ avvento di una legislazione che potremmo
definire “sociale” e accelerato, a partire dagli anni ‟50, in concomitanza con lo
spettacolare aumento dell‟aspettativa di vita. A partire dagli anni ‟50 del secolo scorso
ad oggi, sono nati vari centri di ricerca che si occupano del fenomeno
dell‟invecchiamento ed è ragionevole affermare che allo stato attuale delle nostre
conoscenze possediamo una descrizione relativamente affidabile dell‟invecchiamento
umano e delle patologie che lo accompagnano. La caratteristica di queste malattie è che
la loro frequenza e la loro gravità aumentano nel corso dell‟invecchiamento, ma alcune
possono essere trattate o addirittura prevenute in modo più o meno efficace.
Negli ultimi anni, la cronaca ha portato spesso sotto i riflettori casi di compleanni a 100
e più candeline, che hanno portato a chiederci se si tratti di casi eccezionali o, piuttosto,
dei primi casi di un più generalizzato allungamento della vita che potrebbe interessare
nel giro di poche generazioni buona parte della popolazione umana. Indubbiamente la
durata media della vita è aumentata drasticamente dai tempi della rivoluzione
industriale ma la durata massima della vita, che è stata calcolata essere di circa 125
anni per le donne e alquanto più breve per gli uomini, è cambiata di poco nella storia,
sebbene diversi esperti suggeriscano che stia lentamente incrementando. Ciò che si è
dunque verificato non è tanto un allungamento della vita delle persone quanto piuttosto
uno spostamento delle curve di mortalità verso l‟età massima accessibile alla specie.
Essa sembra essere cambiata poco nel corso del tempo, ma un numero sempre maggiore
di individui la raggiunge. L‟esistenza di una longevità massima - probabile - della
specie umana sembra essere un fenomeno comune anche ad altre specie: se si prende
come punto di riferimento il risultato finale dell‟invecchiamento, vale a dire la morte, si
osserva un‟enorme disparità della durata massima di vita fra le specie che farebbe
pensare ad un “limite” geneticamente programmato. Del resto, diversi fattori
influenzano la longevità e tra questi uno è rappresentato proprio dall‟eredità familiare.
Ma ammesso pure che esista un “programma”, diciamo così, che stabilisce il proprio
termine, il fatto di avere un termine non è un fatto che ci risulta nuovo e, almeno per i
comuni mortali, poco importa se sia un fatto riconducibile alla specie o a una decisione
soprannaturale. La domanda che più assilla l‟umanità, proprio perché si riscontra una