l’imparzialità e il buon andamento, come si è scritto per tutta la ricerca, sono da considerarsi mezzi
e obiettivi dell’agire amministrativo. La “questione amministrativa”, dal 1945 in poi, sarà
un’occasione mancata molteplici volte e si pensi all’esito della l. 15/68, sull’autocertificazione, che
non ha conosciuto applicazione, fino a quando dalla fine degli anni ’70, il prof. M.S. Giannini
promuoverà una serie di studi volti a definire lo stato della p.A. e l’esigenza di riforma, da cui il c.d.
Rapporto Giannini, che troverà una concretizzazione con i lavori della commissione presieduta dal
prof. M. Nigro, da cui prenderà corpo quella che è da considerarsi una svolta nel sistema
amministrativo italiano, la l. 241/90, modificata successivamente, preceduta dalla l. 142/90 sulle
autonomie locali, ripetutamente modificata fino al t.u. 267/2000, e seguìta dal d.lg. 29/93 sul
pubblico impiego, dalla l. 537/93, la Finanziaria Ciampi, dalle ll. 19 e 29 del 1994, sulla
responsabilità amministrativa e contabile, fino ad arrivare alle cc.dd. leggi Bassanini, dalla l. 59/97,
sul federalismo amministrativo, alla l. 127/97, sullo snellimento amministrativo, dalla l. 191/98, con
modifiche e integrazione delle precedenti, alle ll. 50/99 e 340/2000, la prima e la seconda legge
annuale di semplificazione, come previsto ex art. 20, l. 59/97.
Finalmente dal 1990 in poi, anche se l’aria del cambiamento già la si avvertiva tra le righe
della l. 400/88, sul Governo, si perseguono obiettivi che in quarantacinque anni di storia non erano
stati centrati. Finalmente l’imparzialità e il buon andamento acquistano lo status che formalmente,
ma non sostanzialmente hanno avuto e tutto il prodotto normativo di questi ultimi dieci anni si
presenterà in funzione dell’imparzialità e del buon andamento, due princìpi così apparentemente
semplici, nascosti tra le righe di una Costituzione lunga, ma che rivelano una carica di significati di
cui si parlerà dalla l. 241 in poi. Ormai tutto suona in termini di razionalità, di ponderazione delle
scelte migliori, di ragionevolezza, di equità, di giustizia e di economicità; tutto quello che si legge
dalla 241 in poi è riconducibile a questo, dalla comunicazione dell’avvio del procedimento, alla
partecipazione del cittadino al procedimento amministrativo, all’obbligo di motivazione dell’atto
amministrativo, alla Conferenza di servizi, agli accordi di programma, al diritto di accesso ai
documenti amministrativi, alla separazione della politica dalla Amministrazione,
all’autocertificazione, allo snellimento delle procedure amministrative, allo snellimento del sistema
legislativo, alla delegificazione e così via. Sicuramente c’è voluto del tempo per capire il ruolo dei
due princìpi costituzionali, ma, in fondo, si è già abituati a tempi lunghi di gestazione legislativa se
si pensa all’ultimo comma dell’art. 95 Cost. che ha ricevuto una compiuta e organica attuazione
solamente nel 1988 con la l. 400, oppure si pensi all’art. 128 Cost. a cui ha risposto la l. 142/90,
modificando le prime leggi sulle province e comuni del 1915 e del 1934, ormai in gran parte
abrogate dal nuovo t.u. 267/2000, testo di coordinamento delle autonomie locali.
In un simile contesto è intuitiva la portata e il ruolo svolto dai princìpi che la ricerca ha
inteso esaminare nello specifico. Di motivazione dell’atto amministrativo ce n’era traccia nel
sistema giuridico in discipline di settore, mentre la Costituzione italiana faceva riferimento
all’obbligo di motivazione delle decisioni giurisdizionali, ex art. 111, comma 1, ma non degli atti
amministrativi. Con la l. 241/90, ex art. 3, conosce una codificazione di carattere generale.
L’obbligo di motivazione dell’atto amministrativo è il naturale frutto del “trend” che ha conosciuto
il rapporto p.A./cittadino. Dal 1990 in poi si è voluto recuperare un rapporto perduto, un rapporto
profondamente incrinato tra amministratori da una parte e amministrati dall’altra, forse avendo
rispolverato l’idea, di certo non originale, che la p.A. è fatta per il cittadino e soltanto per il
cittadino. Si è tentato, in definitiva, di democratizzare il rapporto cittadini/p.A.; la verticalità rigida
che intercorreva tra un soggetto pubblico, detentore del potere, e un soggetto privato, soggetto
passivo di atti pregiudizievoli quali espressione del potere del soggetto pubblico, ha tentato di
smussare gli angoli, di ammorbidirsi, di creare una p.A. non solo capace di parlare, ma anche di
ascoltare. Tutto questo fino a non molti anni fa era impensabile, mentre dal 1990 ha preso corpo e,
anzi, la democratizzazione della p.A. è diventata, per la teoria del contrappasso, uno degli obiettivi
prioritari dei Governi degli ultimi dieci anni, avendo intuito che un progressivo allontanamento del
cittadino dalla politica, ormai considerato patologico, e una progressiva ostilità nei confronti del
sistema amministrativo sarebbe stato autolesionistico per il sistema stesso, con tutte le ripercussioni
che una simile situazione avrebbe provocato in altri settori, come quello economico, se si pensa allo
stretto legame che intercorre tra burocrazia e attività degli imprenditori, le cui imprese hanno
conosciuto e, probabilmente, ancora conoscono le distorsioni che scaturiscono da
un’Amministrazione inefficiente, cavillosa e macchinosa. A quanto detto si aggiunga che il rapporto
tra p.A. e cittadini, per definizione di rapporto di diritto pubblico, non potrà mai diventare un
rapporto paritario-orizzontale di tipo contrattuale, ma, sicuramente, si può parlare di una maggiore
disponibilità della p.A. nel dare delle spiegazioni, anziché opporsi categoricamente e nell’aprire le
sue porte per far vedere al cittadino cosa accade dietro ad un sipario rimasto chiuso per
quarantacinque anni. Con l’obbligo di motivazione dell’atto amministrativo la p.A. cerca di
coinvolgere il cittadino, di tenerlo informato; tenta di dimostrare e di provare, attraverso la
motivazione, che quella fatta era la scelta migliore, che tutti gli interessi sono stati ponderati e, alla
fine, se si è deciso in quel modo, lo si è fatto perché era la soluzione più giusta, la soluzione
migliore, la più conveniente, la più ragionevole e la meno onerosa. Così l’interesse pubblico prevale
sull’interesse privato, ma per il bene di una collettività di cui fa parte anche il soggetto privato che
ha subìto il pregiudizio specifico. Il cittadino, pur non potendo pensare che, con la motivazione,
accetti di buon grado un’azione a lui sfavorevole, è sicuramente più consapevole, sa almeno il
“perché” di un evento, come si fa nelle migliori famiglie democratiche, sa quale è stato l’iter che ha
portato a decidere in tal modo e potrà, inoltre, ricorrere all’autorità giudiziaria, sapendo cosa
contestare di un provvedimento finale, potendo addurre a delle motivazioni delle contromotivazioni.
Detto questo, nessun’altra parola servirà per capire la stretta relazione trai il principio dell’obbligo
della motivazione dell’atto amministrativo e le garanzie dell’imparzialità e del buon andamento
della pubblica Amministrazione.
Anche il principio della partecipazione del cittadino al procedimento amministrativo,
secondo oggetto della ricerca, corre nello stesso àlveo tracciato dalla l. 241/90, finalizzato alla
realizzazione dei princìpi dell’imparzialità e del buon andamento della p.A. Il contesto storico-
giuridico è del tutto simile a quello della motivazione dell’atto amministrativo. Si è, anche in questo
caso, nel tentativo di aprire le porte della p.A. al cittadino e di coinvolgerlo nel processo
decisionale, tentando di attuare una sorta di coamministrazione, ma con una differenza
fondamentale rispetto alla motivazione dell’atto amministrativo. Mentre quest’ultima interviene nel
momento in cui un provvedimento è stato già adottato, quindi al termine della c.d. fase decisionale
del procedimento amministrativo, una sorta di riepilogo “ex post”, la partecipazione del cittadino si
inserisce in un procedimento che si presenta “in itinere”, ancora nel suo svolgimento, in quella fase
istruttoria in cui si raccolgono i dati necessari per risolvere il problema. E’ proprio questo l’aspetto
interessante. Il cittadino viene fatto “accomodare”, non in senso stretto per ora, ma permettendogli
di presentare memorie scritte e osservazioni, al tavolo delle decisioni, attorno al quale si
“accomoderanno” tutte le Amministrazioni interessate all’adozione dello stesso provvedimento e
portatori di differenti interessi. In questo modo si giunge all’apice dell’imparzialità e,
consequenzialmente, del buon andamento della p.A., se per imparzialità si intende la ponderazione
di tutti gli interessi coinvolti da un procedimento amministrativo; la partecipazione del cittadini
diventa il momento di incontro-scontro e sintesi tra il pubblico e il privato e l’Amministrazione
accetta di prendere in considerazione interessi che forse fino a non molti anni fa neanche pensava,
dovendo far prevalere, sempre e comunque, a torto o a ragione, un interesse pubblico o presunto
tale. Soltanto dal 1990, in termini di costi-benefici, si potrà dire che l’interesse pubblico è superiore
a quello privato, dal momento che, preso in considerazione quanto esposto dal privato, quest’ultimo
merita di essere sacrificato a beneficio della collettività oppure viceversa. Questo sospirato
“viceversa” si può realizzare solamente se al cittadino si dà la possibilità di esprimere, per ora in
forma documentale, forse un domani in forma di contraddittorio orale, le proprie esigenze, le
proprie ragioni e perplessità. Sarà poi una p.A. competente e capace di distinguere il significato di
interesse pubblico e interesse di parte, quale quello del privato, a decidere quale debba prevalere,
quale sia, pertanto, la scelta migliore, che senza l’intervento del privato sarà quasi sempre
considerata, a torto, esclusivamente quella pubblica, diventando, in questo modo, a sua volta una
scelta di parte, pubblica, ma sempre di parte e non imparziale.
Se le perplessità sul principio dell’obbligo di motivazione dell’atto amministrativo e sulla
partecipazione del cittadino al procedimento amministrativo sono sfumate nel corso della
trattazione, pur rimanendo problemi insoluti di cui si è parlato a suo tempo in merito al contenuto
più o meno completo della motivazione e in merito alle difficoltà e ai limiti che incontra una
partecipazione documentale, altrettanto non può dirsi per il terzo aspetto della ricerca, la
separazione della politica dalla Amministrazione. Nell’affrontare questo argomento, a giudizio di
chi scrive, si deve procedere ad un distinguo per non incorrere in analisi errate o riflessioni
fuorvianti. Da una parte si può argomentare sul tema della separazione della politica
dall’Amministrazione in termini strettamente giuridici, ossia nel senso del come dovrebbe essere,
perché previsto da leggi della repubblica; dall’altra, si potrebbe sacrificare il rigore della scienza
giuridica, vedendo come effettivamente si estrinseca la separazione della politica
dall’Amministrazione. Secondo il primo percorso di indagine l’ordinamento giuridico italiano si
fonda sulla sovranità del popolo (ex art. 1 Cost.), il quale governa (l’etimologia di democrazia è
dèmos, popolo, più kràtos, potere) il paese tramite i suoi rappresentanti (Parlamento), i quali sono
quello che in statistica si chiama “campione statistico”, ossia una parte che rappresenta, più o meno
fedelmente, il tutto, con tutte le caratteristiche dell’insieme che il campione vuole rappresentare.
Allo stesso tempo, nella formazione del Governo, il Presidente della Repubblica, dopo opportune
consultazioni partitiche, nomina il capo del Governo e i ministri su proposta dello stesso capo del
Governo. Il “cerchio democratico” si chiude con la necessità del rapporto fiduciario che deve legare
il Parlamento al Governo, il quale sarà legittimato a operare se otterrà il consenso del popolo,
tramite la fiducia della maggioranza parlamentare. In un simile contesto si inserisce la p.A. come
organo esecutivo, ma non meramente esecutivo (si veda in proposito la distinzione tra gerarchia in
senso stretto e gerarchia in senso lato) di obiettivi politici presentati dal Governo nelle cc.dd. linee
programmatiche, accettate le quali il Governo ha ricevuto la fiducia del popolo sovrano, tramite, si è
detto, la maggioranza parlamentare. In una simile situazione, si dovrebbe dire da manuale,
l’imparzialità e il buon andamento non dovrebbero correre pericoli, promanando tutto, direttamente
o indirettamente, da un popolo sovrano che ha scelto un Parlamento, un Governo, tramite il
Parlamento e degli obiettivi politici, tramite la fiducia parlamentare. La p.A., selezionata tramite il
concorso pubblico, imparziale per definizione, concretizza le scelte governative finalizzate
esclusivamente all’interesse pubblico. In questo caso non si pone nemmeno il problema della
separazione della politica dall’Amministrazione, perché la si dà per scontata, organi diversi, con
funzioni diverse, con provenienze diverse, ma con il medesimo scopo: il perseguimento
dell’interesse pubblico. Tutto questo sarebbe vero se non si verificassero delle distorsioni del
sistema e delle degenerazioni dei buoni propositi, così come Platone faceva degenerare nel suo De
Republica la monarchia in tirannia, l’aristocrazia in oligarchia, la democrazia in oclocrazia. Il
sistema strettamente giuridico viene stravolto da logiche politiche che lo deformano. E’ vero che il
governo espone delle linee programmatiche, ossia le finalità politiche nell’interesse pubblico, come
la lotta all’inflazione e al debito pubblico, la risoluzione della disoccupazione e del problema
Mezzogiorno, la produttività delle imprese e, in generale, l’efficienza del sistema economico, fino
ad arrivare alla semplificazione della p.A., ormai entrata di diritto in tutte le programmazione di
Governo. E’ anche vero che il Governo è un organo politico e come tale risponde a logiche
elettorali, logiche di partito che sono, per definizione, logiche di parte e un interesse pubblico è
quasi sempre disturbato, influenzato, incentivato o disincentivato da altri obiettivi e finalità, da
meccanismi non giuridici, ma politici che condizionano inevitabilmente l’attività di Governo,
avvertendo la presenza, non sempre, ma spesso, dietro le linee programmatiche uno slogan
pubblicitario che viene venduto come un prodotto commerciale e che fa la fortuna di questo o quel
Governo, ma ben lontane dall’interesse pubblico. Partendo da questo presupposto e partendo dal
presupposto che la p.A. è, e non potrebbe essere altrimenti, organo complementare del governo a
cui è legato da un cordone ombelicale che li lega come la madre al figlio, come si può pensare che
un agire amministrativo sia libero da finalità politiche, a loro volta guidate da logiche elettorali? Si
dovrebbe dire che la p.A., interagendo con un organo politico, si è politicizzata, a danno
dell’imparzialità nelle scelte, se queste non rispondono che a logiche di parte. A giudizio di chi
scrive, separare la politica dall’Amministrazione, il Governo dalla p.A. è utopistico e improbabile; è
come voler separare il cervello dal braccio: quest’ultimo non si muove senza gli input del cervello,
il quale darebbe inutilmente degli impulsi se non avesse un braccio a cui darli. Al contrario,
bisognerebbe definire la complementarità dei due organi, per evitare la loro inevitabile
sovrapposizione come si è verificato sistematicamente fino agli anni ’90, durante i quali con la l.
142/90 e, successivamente, il d.lg. 29/93 e successive modifiche, si è cercato di creare margini ben
definiti, tra due organi così strettamente intrecciati. Tutto questo richiederebbe un cambiamento ad
ampio spettro, a partire dal ripensamento del concorso pubblico come forma di reclutamento del
personale, a giudizio di chi scrive, rispondente sempre meno ai princìpi dell’imparzialità e del buon
andamento come espresso dall’art. 97 Cost. e rispondente ad altre logiche più oscure e costituendo,
allo stato attuale, lo strumento meno idoneo per verificare le reali competenze e la professionalità
del candidato. Probabilmente bisognerebbe intervenire a monte del problema, creando dei corsi di
studi specifici per il personale della p.A., evitando la provenienza dai corsi di studi più disparati,
senza competenze, ma una sorta di “tuttologi”, esperti in tutto e in niente. Sarebbe auspicabile
creare dei corsi di specializzazione, post-diploma o post-laurea, a seconda del livello per cui si
vuole concorrere; sarebbe il caso di motivare il personale con incentivi di diverso genere in rapporto
al grado di produttività ed efficienza e, forse, solo allora il personale pubblico potrebbe essere
considerato professionale, specializzato e, soprattutto, motivato, anziché considerare il concorso
pubblico l’alternativa ad altri fallimenti lavorativi o il ripiego alla disoccupazione, ospitando, in
questo modo, persone scontente, demotivate e interessate esclusivamente ad una retribuzione scarsa,
ma sicura. Creata in questo modo una Amministrazione realmente competente, si può fare il passo
successivo di allontanare la p.A. dal Governo, sottraendo a quest’ultimo quel potere di direttiva che
l’organo politico esercita nei confronti dei suoi uffici, la quale, pur costituendo un notevole passo in
avanti rispetto all’ordine, esercita, in modo più o meno velato, una pressione e un indirizzo politico
che non può che politicizzare l’agire amministrativo. All’organo politico spettano funzioni
politiche, quindi disporrà gli obiettivi e le finalità da perseguire; sarà compito esclusivo
dell’Amministrazione scegliere, dall’alto delle sue competenze strettamente tecniche, frutto di una
preparazione tecnica di cui si è fatto cenno precedentemente, l’azione da perseguire, sottoponendola
esclusivamente a controlli esterni dalla politica, da parte, ad es., di una commissione tecnica
formata esclusivamente da tecnici e non politici, designati, ad. es., dal Capo dello Stato, figura
necessariamente super partes del sistema giuridico italiano, facendo valere le responsabilità dei
singoli burocrati, dall’ultimo dipendente al primo funzionario, in termini di opportunità dei mezzi
utilizzati, con la possibilità di una rimozione dall’incarico, non più “fisso”. Allo stesso tempo,
l’organo politico avrà le proprie responsabilità politiche in termini di fattibilità e realizzazione degli
obiettivi, fatte valere dal corpo elettorale con la non rielezione della maggioranza parlamentare di
cui il Governo è una emanazione. E’ opinione di chi scrive che, allo stato attuale, quello che
produce l’inefficienza della p.A. sia l’irresponsabilità dell’Amministrazione, prodotta, a sua volta,
dalla sua inamovibilità. Pertanto, in questo meccanismo, l’unico a farne le spese tra Governo e p.A.
nel mancato raggiungimento degli obiettivi, è il Governo su cui ricade una responsabilità politica
che porterà ad inevitabili crisi di Governo. Quindi, si separi la responsabilità, si faccia cadere su
ciascuno per la parte di propria competenza; si faccia sentire sui burocrati la spada di Damocle della
rimozione dall’incarico, dell’allontanamento, del giudizio e non come adesso in cui la p.A. agisce,
nel bene e nel male, impunita perché tanto a “pagare” saranno altri; come se il fratello maggiore
venisse punito per il comportamento del fratello minore. Da questa distorsione, ne segue un’altra.
E’ normale che l’organo politico utilizzi il potere direttivo per indirizzare una p.A., andando al di là
del contenuto strettamente necessario della direttiva, cercando di guidare il più possibile l’operato di
una Amministrazione alla quale l’elettorato non andrà di certo a chiedere spiegazione su eventuali
fallimenti nell’esercizio delle sue funzioni e quando tenta di farlo se ne pente tristemente, dovendo
cercare in uffici polverosi un personale che non esiste. Allora, il governo con l’ansia e tutto
l’interesse che gli obiettivi siano raggiunti, sentendo il peso delle “sanzioni” e del rischio della
perdita del consenso elettorale, fa diventare la direttiva lo strumento politico con cui “pilota” le
scelte di una Amministrazione la quale, pur dotata di ampi margini di scelta, non può di certo
ignorare tutte le pressioni che dall’organo politico provengono in cambio di altrettanti favori.
Probabilmente, ripartendo la responsabilità tra i due organi, alleggerendo il carico del Governo, la
p.A. sarebbe incentivata e motivata al raggiungimento degli obiettivi fissati in sede politica,
separando due organi che dalla loro sovrapposizione hanno prodotto solamente parzialità,
inefficienza e corruzione.
La ricerca si è conclusa occupandosi di quello che è l’argomento del giorno, l’altra grande
svolta di questo decennio, dopo la l. 241/90: la semplificazione amministrativa. Semplificare
un’Amministrazione inutilmente complessa è stata un’esigenza avvertita fin dal 1990, con la l. 241
che dedica diversi articoli alla semplificazione, ripresa successivamente da altri testi normativi, a
partire dalle cinque leggi Bassanini, dalla l. 59/97 alla l. 340/2000. Sulla semplificazione è stato
detto molto in questo capitolo e non si vuole essere ripetitivi. Di certo, di più non si può dire dal
momento che quella della semplificazione è un iter in corso che si evolve di giorno in giorno, tra
paure e speranze, tra buoni propositi e timori di fallimenti. Le leggi ci sono, le basi sono state
gettate e il problema è in termini di fattibilità; il problema è la strada che il Governo deciderà di
dare alla riforma in corso. Sicuramente la semplificazione rientra in quel tentativo di
democratizzazione della p.A., in cui si cerca di ridurre la distanza tra amministratori e amministrati,
alla quale è preferibile l’espressione cittadini/p.A., guidata dai princìpi dell’imparzialità e del buon
andamento della p.A., gli stessi princìpi che si riscontrano dietro l’obbligo di motivazione dell’atto
amministrativo, la partecipazione del cittadino al procedimento amministrativo e la separazione
della politica dall’amministrazione. L’esigenza di semplificazione diventa indefettibile una volta
raggiunto l’apice di una parabola ascendente in cui la p.A. si è ingigantita, complicata, assumendo
le sembianze del “Leviatano” di Locke, incapace di rispondere alle esigenze della società civile. La
semplificazione corre il rischio di fallire nel tentativo di concretizzare gli obiettivi prefissati,
rischiando di complicare ulteriormente meccanismi gi di per sé complessi, fallendo nel tentativo di
contemperare l’inevitabile esigenza di complessità di una società complessa e industrializzata e
l’esigenza di semplicità. E’ forte il rischio che la semplificazione, nel tentativo di accelerare le
procedure, intacchi quei princìpi che sotto le sembianze della complessità sono, al contempo,
garanzie per il cittadino. Si pensi, a titolo esemplificativo, alla luce di quanto affermato nelle pagine
precedenti, alle conseguenze della semplificazione delle fasi procedurali dell’agire amministrativo,
sopprimendo la fase istruttoria o impedendo la partecipazione del cittadino al procedimento
amministrativo. La semplificazione è l’ultima sfida dell’ultimo decennio del 1900, dopo averla
auspicata e proposta molteplici volte, ma sena esiti favorevoli. Dovrà essere in grado di cancellare
ciò che è accidentale, distinguendolo da ciò che è essenziale e quindi da mantenere, anche se, a
giudizio di chi scrive non basterebbe per costruire un’Amministrazione imparziale ed efficiente.
Bisognerà fare un altro passo in avanti, ossia intervenire culturalmente nei cittadini come operatori
e nei cittadini come utenti. Partendo dal presupposto evidente che la p.A. è fatta da uomini,
manovratori delle procedure previste per raggiungere le finalità più disparate, si dovrà rendere
efficiente e imparziale non solo le procedure, ma anche chi opera all’interno di quelle procedure.
Finché la p.A. sarà formata da un personale non motivato, non responsabilizzato e tecnicamente
impreparato, la riforma della p.A. sarà sempre una riforma a metà. Se l’autocertificazione esiste, ma
non viene utilizzata, perché pochi sanno in quali casi la si può utilizzare, la semplificazione ha
ottenuto l’effetto contrario di complicare meccanismi già complessi. Pertanto, da un lato si dovrà
intervenire sulle procedure, snellire nel rispetto della inevitabile complessità di una società
industrializzata e nel rispetto del giusto equilibrio tra accelerazione e garanzie dei cittadini,
dall’altro, si dovrà intervenire efficacemente, e non considerandolo di secondo piano o strumentale
al primo, sul personale perché la p.A. è fatta dagli uomini che vanno adeguatamente preparati,
seguiti, controllati ed eventualmente “sanzionati” e rimossi, credendo che l’imparzialità e il buon
andamento della p.A. siano perseguibili, responsabilizzando chi ne fa parte e, probabilmente,
l’irresponsabilità dell’Amministrazione italiana è stata dal 1945 ad oggi, la causa della negazione
dei princìpi dell’imparzialità e del buon andamento della pubblica Amministrazione.