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Introduzione
Il diciannovesimo canto dell'Inferno di Dante Alighieri si tiene nella terza
bolgia dell'ottavo cerchio, ivi troviamo i Simoniaci e come indicazione
temporale è il 9 aprile 1300.
Questa bolgia è introdotta in maniera non canonica rispetto alle altre: invece di
descrivere l'aspetto generale del luogo per poi scegliere un peccatore, il quale a
sua volta indichi poi i nomi di altri dannati, qui Dante inizia con un'invettiva
piuttosto solenne che annuncia il carattere del canto, dove il poeta esporrà le sue
idee in merito alla corruzione.
La struttura di questo canto è lineare e divisa in sequenze, il canto si svolge in
un clima di sdegno. Il tema principale di tale canto è il potere temporale della
chiesa, vi è un importante riferimento ossia la pietra livida dove si aprono pozzi
circolari, qui sono i simoniaci a testa in giù e da questo pozzo escono i piedi
dell'ultimo dannato i quali sono lambiti dal fuoco. I primi versi sono rivolti ai
Simoniaci ed il canto inizia con un'invettiva contro Simon Mago, personaggio
degli Atti degli Apostoli che intendeva acquistare con il denaro la facoltà di fare
prodigi da San Pietro, è proprio da Simon Mago che deriva il nome Simonia.
Dante è subito attratto da una fossa dove il dannato scalcia ed ha una fiamma più
rossa più degli altri ; Virgilio si offre di accompagnarlo e scendendo si scoprirà
presto che quella è la fossa riservata ai papi.
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Arrivati alla fossa a Dante sembra che l'uomo pianga "con la zanca"
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.
Dante si avvicina al peccatore e gli chiede di parlare, il dannato lo scambia per
Bonifacio VIII chiedendo come mai sia già giunto lì e se per caso si fosse già
stancato di fare scempio della Chiesa. Dante ne resterà stupito ma non saprà
proferir parola, così Virgilio lo inviterà a riferire al dannato di non essere colui
che crede. Il dannato storcerà dolorosamente i piedi e si presenterà come
Niccolò III, appartenente alla nobile famiglia degli Orsini e che fu assai avido
nell’arricchire i membri della sua famiglia tanto da esser finito all’inferno.
Sotto di lui, nella medesima buca, sono conficcati gli altri Simoniaci, tutti
appiattiti nella roccia ed anche lui verrà schiacciato man mano che giungeranno
gli altri peccatori,ossia Bonifacio VIII e successivamente Clemente V.
A questo punto lo sdegno di Dante esploderà in una violenta invettiva contro
Niccolò e tutti i papi dediti alla simonia, contenuta solo per il rispetto che il
poeta prova per la parola Papa anche se in questo caso l’avarizia ha sovvertito
ogni giustizia terrena e la Chiesa si è asservita agli interessi della monarchia
francese dopo essersi trasformata in un’orrida bestia.
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Dante Alighieri, Divina Commedia canto XIX v. 45
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Capitolo primo
Il Canto XIX dell’Inferno secondo gli antichi commentatori
1. L’Ottimo commentatore del XIX Canto.
L’autore ha già trattato due specie di fraudolenti e nel XIX canto intende parlare
della terza specie, i simoniaci. Il nome simoniaco deriva da chi volle comprare
da San Pietro la grazie dello Spirito Santo con ovvio rifiuto dell’Apostolo che,
restando fedele a Dio, congedò Simon Mago di Samaria assieme alla sua
pecunia. La pena di questi peccatori consiste nel trovarsi piantati a testa in giù
con lo sguardo che può essere rivolto solo verso il basso, proprio come fecero in
vita: manifestarono il loro affetto per il denaro, le cose terrene e temporali
anziché per la fede. Dato il peccato la parte più degna di queste anime fu
esonerata dall’aspirare al cielo e per contrappasso le loro gambe bruciano
costantemente per via di un’ “aureola” di punizione.
Il capitolo viene diviso dal commentatore in quattro sezioni: nella prima parte
c’è l’invettiva contro i Simoniaci, nella seconda viene descritto il luogo ove essi
sono puniti e la pena, nella terza parte narra di chi si ricoprì di tal peccato ed
infine viene narrato l’abbandono della terza bolgia per passare alla successiva.
Commenta l’Ottimo che il peccato di Simonia deriva dall’avarizia.
Simoniaci definisce coloro che comprano, mentre Eliseiti coloro che vendono; il
nome Eliseiti deriva da Eliseo profeta il quale per liberare dalla lebbra Aman,
procuratore Siriano, dalla lebbra chiese ed ebbe rimunerazione.
Secondo l’Ottimo mettere in secondo piano le cose sacre scaturisce dalla
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corruzione e dall’usare strumenti sacri in modo diverso anziché usarli per
venerare Dio; un altro modo è vendere o comprare con pecunia le cose spirituali.
Dopo questa fase proemiale l’Ottimo inizia il commento.
Parte seguendo una linea temporale temporale, quindi ricorda che Simon Mago
fu contemporaneo all’Imperatore Nerone e che vedendo i miracoli degli
Apostoli in Giudea si recò presso S.Pietro per comprare la grazia dello Spirito
Santo. La reazione di S.Pietro non fu delle migliori poichè, tenendo fede a
Cristo, cacciò Simone ed ammonì tutti coloro che praticavano simonia.
Successivamente il commentatore ricorda il luogo presso il quale i peccatori
sono puniti, la terza bolgia; allo stesso tempo esalta l’operato di Dio definendo
giusto il suo metro di valutazione nei confronti dei peccatori. Nella seconda
parte c’è la descrizione del luogo e la pena dei simoniaci. Il luogo, nonostante
sia l’Inferno, manifesta un clima di gelido peccato ed è colmo di fori tondi in
pietra che sono sede dei peccatori. Confronta i fori infernali in pietra con altri
fori: ricorda quindi i fori della Chiesa fiorentina di S.Giovanni Battista
commentando anche un episodio accaduto all’Alighieri. Fu proprio Dante a
rompere uno di questi fori nella Chiesa fiorentina. Molti attribuiscono a tale
gesto un valore eresiaco, ma l’Ottimo è del parere che Dante, nel rompere il
foro, sia stato il salvatore di un giovane che era caduto all’interno. L’Ottimo è
attento a sottolineare la descrizione di Dante riguardo i fori di S.Giovanni: sono
posizionati nel mezzo della Chiesa, sono di marmo e sono stretti. A causa della
loro scarsa ampiezza si capisce che questi fori erano pronti ad imprigionare i
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peccatori senza dar loro via d’uscita, inoltre quelli infernali sono in pietra,
mentre quelli fiorentini in marmo; chiaramente assolvono a funzioni diverse, i
primi luogo di prigionia ed i secondi luogo di religiosità. In ogni foro infernale
era detenuto un peccatore a testa in giù e con i piedi rivolti al cielo, erano puniti
mediante una fiamma che era più intensa a seconda della grandezza del peccato
commesso. Tra i vari piedi ardenti Dante scorge un peccatore che divincola le
gambe più di tutti; su autorizzazione del Maestro Virgilio il poeta fiorentino si
reca presso il dannato, ma prima di giungervi dovrà, assieme al Maestro,
discendere una rupe dalla quale scorgeva ciò che accadeva dinanzi ai suoi occhi.
L’Ottimo, circa i dannati, si lascia andare in un paragone : queste anime sono
come dei pali conficcati in terra. Una volta che Dante è giunto dinanzi al
<<palo>> , l’Ottimo effettua paragone: Dante è paragonato ad un prete il quale ha
il compito di confessare (ed al tempo stesso dare l’estrema unzione) l’assassino
che a Firenze veniva conficcato vivo in terra a testa in giù per propagginazione.
Chiaro che questo paragone possiede una doppia chiave di lettura: da un lato
l’Ottimo identifica Dante come frate e dall’altro ricorda che questa pratica di
pena era già in uso nell’antica Firenze. Dante passa quindi alla presentazione
dell’anima conficcata nel foro, è quella di Papa Orsini, meglio conosciuto come
Niccolò III; dal punto di vista temporale commenta l’Ottimo che fu Papa per due
anni, otto mesi e quindici giorni, eletto nel 1277.
Del Papa ricorda che fu molto desideroso di arricchire i suoi parenti e che non
perse occasione di rendere sempre più ingente la sua borsa; così per
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contrappasso ora si trova <<imborsato>> in un pozzo infernale conficcato ed
inerme fino all’arrivo del suo successore al quale lascerà il posto per appiattirsi e
sprofondare. Aggiunge l’Ottimo che per queste anime sprofondare nei pozzi è
più un sollievo che una pena: sprofondando lasceranno posto ai successori ed al
tempo stesso renderanno loro anche l’acuta fiamma che brucia le <<zanche>>.
Dall’ironia di Niccolò, il quale pensa con gran sorpresa che il suo successore
fosse giunto in anticipo, ne consegue una rassegnazione per l’abbaglio appena
preso: colui che è appena giunto all’inferno non è Bonifacio VIII. Niccolò III è
in grado di leggere il libro del futuro, ma non di prevedere il presente, così
Dante, su consiglio di Virgilio, si presenta dicendo che non è chi colui pensa.
L’Ottimo commenta che l’incontro tra Niccolò e Dante è molto importante
perché ne segue non solo un’invettiva del poeta, ma anche un lasso temporale
all’interno del quale vengono citati dei papi come Bonifacio VIII e Clemente V;
si coglie quindi l’occasione per inserire il discorso relativo all’avarizia e la
corruzione della Chiesa per poi giungere non solo alla visione Apocalittica di
S.Giovanni, ma anche al primo episodio di corruzione della Chiesa.
Se’ tu siì tosto sazio
Sono queste le parole usate da Niccolò, credendo di riferirsi a Bonifacio VIII,
parole cariche di significato e tali da far comprendere l’avarizia del suo futuro
successore il quale non ebbe problema a sposare la Chiesa, paragonata ad una
bella donna, e successivamente tradirla senza rimorsi. L’Ottimo commenta che
probabilmente nessun uomo avrebbe potuto fare strazio maggiore di una donna,
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sposata, sottomessa e tradita per la moneta. Dante è premuroso di dare un
informazione riguardo Niccolò. Egli era figlio dell’orsa e da qui ne nasce un
paragone: l’orso è l’animale cupido, prima divora e solo successivamente
esamina i resti di ciò che ha appena mangiato. Chiaramente con questo paragone
Dante fa notare l’estrema avarizia di chi ha tradito la Chiesa, il quale forse,
preso dalla voga, neanche stava rendendosi conto del peccato che commetteva.
Ne segue la domanda di Dante il quale chiede a Niccolò quanto denaro abbia
chiesto Cristo ai suoi seguaci per renderli apostoli. Queste parole sono molto
importanti perché paragonano la magnanimità del Salvatore all’avarizia dei
simoniaci; è bene ricordare che Cristo non chiese moneta alcuna.
Sul finire della terza parte del commento l’Ottimo riflette sulla visione
Apocalittica di S.Giovanni Battista. Si narra di una donna giunta su una bestia
dalle sette teste e dieci corna, questa donna era ricoperta di pietre d’oro,
margherite e pietre preziose: stava a rispecchiare la corruzione della Chiesa, nata
povera per volere del Salvatore ed arricchitasi contro ogni volere divino.
L’Ottimo commenta la venuta di questa femmina come colei che era ormai
ebbra del sangue dei Santi e dei Martiri, la chiave di lettura consiste nel fatto che
la Chiesa non si è preoccupata del sacrificio dei Martiri e Santi, soprattutto non
ha ricordato il sacrificio di Cristo ed ha dimenticato in quale parsimonia visse il
nostro Salvatore; praticamente la visione della meretrice è a tutti gli effetti un
contrappasso. Prima di congedare Dante dalla terza bolgia ricorda l’episodio che
portò alla corruzione: si parla quindi dell’Imperatore Costantino il quale fece
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donazione come ringraziamento per l’essere stato guarito dalla lebbra.
Dante e l’Ottimo commentatore concordano riguardo la costituzionalità di
questa donazione, al tempo stesso sono concordi nel non condannare questo
gesto di riconoscenza dell’Imperatore il quale non aveva secondi fini:
colpevolizzano la Chiesa che fece di questo dono un vizio.
La quarta ed ultima parte del commento si chiude semplicemente con Dante che
si limita a dire <<qui passa alla quarta bolgia per l’argine,che divide la quarta
bolgia dalla quinta>>.
Strano che non aggiunga altre parole, forse il commentatore resta sdegnato dal
peccato di simonia e dalla corruzione nella quale è caduta la Chiesa.
A differenza dell’Ottimo altri commentatori ricordano il sorriso d’approvazione
di Virgilio per la bella invettiva di Dante, commentano il gesto di riconoscenza
del Maestro che risalì la rupe portando tra le sue braccia il poeta fiorentino.