Capitolo 1: Quadro teorico di riferimento
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1 - QUADRO TEORICO DI RIFERIMENTO
1.1 - DEFINIZIONE DI PARALISI CEREBRALE INFANTILE (PCI)
La definizione di Paralisi Cerebrale Infantile generalmente accettata è la seguente: “La
PCI descrive un gruppo eterogeneo di disordini permanenti dello sviluppo del
movimento e della postura, causanti limitazioni alle attività, attribuibili a disturbi non
progressivi che intervengono a livello di sviluppo fetale od infantile del cervello. I
disordini motori nella PCI sono spesso accompagnati da disturbi sensoriali, percettivi,
cognitivi, di comunicazione, di comportamento, epilettici, e da problemi muscolo-
scheletrici secondari” (Bax M et al, 2005); essa è manifestazione di una lesione del
sistema nervoso centrale, che comporta una perdita più o meno estesa di tessuto
cerebrale. L’evento lesivo ha origine in epoca prenatale o postnatale, ma, in ogni caso,
nei primi tre anni di vita del bambino, periodo di tempo in cui vengono completate le
principali fasi di crescita e sviluppo della funzione cerebrale dell’essere umano. La PCI
rappresenta la più frequente causa di disabilità cronica nei bambini: l'incidenza stimata
varia tra 2 e 2,5 casi ogni 1000 bambini nati vivi (Stanley FJ et Al, 2000). Si sta, inoltre,
verificando un incremento percentuale di bambini affetti da PCI (McCormick MC,
1993), dovuto ai sorprendenti risultati portati dai miglioramenti nelle tecniche di
assistenza intensiva neonatale: esse, infatti, riducono la mortalità perinatale e
consentono la sopravvivenza di un numero crescente di soggetti prematuri. Nonostante
le prime descrizioni della patologia risalgano a metà dell'800 (Sir John Little, 1862), e la
definizione stessa di PCI sia comunemente accettata, a tutt'oggi non è ancora stata
raggiunta una classificazione univoca concordata tra tutti gli esperti. L'SCPE
(Surveillance Cerebral Palsy Europe) suggerisce un sistema di classificazione che
minimizza le categorie cliniche della PCI, distinguendo esclusivamente tra forme
bilaterali ed unilaterali. Spesso, invece, viene utilizzata una prima suddivisione della
PCI di forma spastica in tre grandi gruppi, individuando forme tetraplegiche, dove di
solito il disturbo del tono e del movimento sono molto gravi ed interessano in egual
modo - e fin dalla nascita - sia gli arti inferiori che quelli superiori, forme emiplegiche,
condizione nella quale un emicorpo è più compromesso rispetto all’altro a seguito di
una lesione cerebrale nella maggior parte dei casi unilaterale, e forme diplegiche, che
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interessano in prevalenza gli arti inferiori, di maggior interesse nel presente studio ed
approfondite nel paragrafo 1.1.1.
Secondo il professor Adriano Ferrari, questa classificazione è considerata necessaria per
un buon processo di definizione della storia naturale della patologia e per una più
precisa valutazione prognostica, anche in vista di eventuali interventi terapeutici (Ferrari
A et al., 2008). Per raggiungere un livello ancora maggiore di chiarezza della prognosi,
viene individuata una determinata “funzione” rispetto alla quale sottoclassificare
ulteriormente i bambini affetti da PCI: la tetraplegia viene sottoclassificata in relazione
alla funzione “antigravitaria”, l'emiplegia in relazione alla funzione “manipolazione”, la
diplegia in relazione alla funzione “cammino”. Per quanto riguarda la diplegia, si può
facilmente intuire come il problema si affronti con successo anche da un punto di vista
cinematico e motorio di sviluppo della architettura delle funzioni adattive.
Secondo tale orientamento, la paralisi è espressione della migliore soluzione funzionale
messa in atto dal Sistema Nervoso Centrale (SNC) per soddisfare un’esigenza del
soggetto in una determinata fase del suo sviluppo, compatibilmente con le lesioni
provocate dalla patologia stessa: la cinematica del movimento, quindi, rappresenta la
migliore risposta messa in campo dal SNC per costruire le funzioni adattive, e il suo
studio approfondito potrà portare con precisione alla definizione della patologia e, di
conseguenza, guidare e facilitare la rieducazione.
1.1.1 - Definizione di diplegia
A partire dalla classificazione di Ingram del 1955, in ambito clinico si parla
abitualmente di diplegia quando l’interessamento degli arti omologhi del paziente è
abbastanza simmetrico e quando la compromissione degli arti inferiori risulta
significativamente maggiore di quella dei superiori. I diplegici sono, dunque, soggetti in
grado di raggiungere in ogni caso la stazione eretta e il cammino e di conservarli
almeno per un certo periodo della loro vita. L’osservazione e la valutazione del
comportamento motorio, tuttavia, può non essere sufficiente per formulare una diagnosi
di diplegia: può accadere, infatti, che alcuni pazienti vengano considerati tetraplegici
per il solo fatto che la misura della compromissione dei loro arti inferiori risulta
quantitativamente non distante da quella dei superiori. Per ridurre la generalizzazione
tra le patologie e poter individuare con maggior precisione e chiarezza il tipo di
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problema cui si deve far fronte, sono stati compiuti studi che prevedono una
classificazione ad un livello di puntualità maggiore, richiedendo un’osservazione più
accurata: essa si compone della individuazione di precisi segni clinici, secondo i quali
risulta più semplice la formulazione di una diagnosi corretta.
1.1.2 - Classificazione del cammino nei bambini diplegici
Come è stato illustrato in precedenza, la diplegia è classificata in base all’acquisizione
della funzione del cammino: la classificazione proposta dal professor Ferrari (Ferrari A.
et al., 2008), infatti, si basa sull’analisi della cinematica del passo, osservandone le
caratteristiche principali nel tempo e nello spazio. L’identificazione delle forme cliniche
proposte da tale studio - che si limita alle diplegie spastiche, non considerando i soggetti
affetti da diplegie definite atoniche e atassiche - è innanzitutto frutto dell’osservazione,
proseguita per molti anni, di un campione molto numeroso di bambini diplegici,
affluente da tutta Italia al Presidio di riabilitazione infantile di terzo livello di Reggio
Emilia, con alta specialità riabilitativa. Nella stesura della teoria si ammette che
all’interno di ogni forma vi siano variabilità e differenze, e si sottolinea come
sostanzialmente non venga modificata la strategia adottata nel cammino, la quale si
ritiene associata soprattutto alle componenti top-down. I segni differenziali fra una
forma clinica e l’altra esprimono un peso diverso a seconda che riguardino aspetti
fondamentali (main core) o accessori. Va, inoltre, considerato che il pattern motorio a
cui si è fatto rifermento durante lo studio è rappresentato dal cammino “maturo” e che
non sempre, nel corso dello sviluppo, l’orientamento verso l’una o l’altra forma è
sostenuto da segni predittivi facili da riconoscere e sufficientemente affidabili.
Entrando nel merito delle caratteristiche osservate al fine di definire i segni clinici che
descrivano con precisione le quattro principali forme di diplegia individuate nel
bambino, dobbiamo analizzare il ruolo che assumono nell’architettura del cammino i
seguenti elementi:
- utilizzo degli arti superiori e degli ausili per la marcia;
- atteggiamento del capo e del tronco;
- movimenti pendolari del tronco sul piano frontale e sagittale del corpo;
- movimenti del bacino (traslazione orizzontale e basculamento antero-
posteriore);
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- meccanismi di progressione;
- sequenza di appoggio e di sollevamento del piede;
- scelta dei fulcri.
Di seguito sono elencate le principali caratteristiche per ognuna delle quattro forme
cliniche.
I soggetti appartenenti alla prima forma, durante il cammino mantengono il tronco
sempre antepulso, l’equilibrio è gestito sulla punta dei piedi attraverso una flessione più
o meno marcata delle ginocchia, essi sono detti anche “propulsivi della marcia”
(forward leaning propulsion), in quanto sembra che inseguano il proprio baricentro.
Quelli tra loro complessivamente meno compromessi non hanno necessità di ausili per
gli arti superiori e, visto il loro modo di avanzare, si dicono bambini che “si aggrappano
all’aria”.
I pazienti appartenenti alla seconda forma presentano un cammino detto anche “a gonna
stretta” (tight skirt), in quanto lo schema della marcia ricorda quello di una ragazza che
cammina con una gonna a tubo; anche in questo caso vi sono casi di maggiore e minore
compromissione.
I pazienti inclusi nella terza forma, chiamati anche “funamboli” (tight rope walkers),
presentano una gravità minore sul piano motorio, ma hanno spesso importanti disturbi
percettivi; durante la marcia portano le braccia verso l’alto, lateralmente, e oscillano
ampiamente sul piano frontale; alcuni di loro possono avere necessità di ausili, utilizzati
come bilancieri.
I soggetti appartenenti alla quarta forma, altrimenti chiamati “temerari” (dare devils),
presentano un’evoluzione di marcia favorevole, essendo la compromissione motoria
decisamente meno grave dei casi precedenti.
Di seguito viene riportata la tabella che riassume la proposta del lavoro del professor
Ferrari: essa dà una chiara ed immediata visione d’insieme su quali siano i tratti
distintivi per ognuna delle quattro forme di diplegia. Come si può notare, in
corrispondenza di ogni principale segmento anatomico o strategia della marcia, è
individuato, riga per riga, il comportamento più evidente per ogni forma. Sulla prima
colonna vengono elencati i segmenti di maggior interesse, come gli arti superiori, il
tronco, il bacino e il piede. Oltre a questi, si prendono in considerazione alcuni aspetti
d’interesse nella gestione della marcia, come i movimenti pendolari, la progressione e il
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punto di fulcro. L’ultima riga, invece, presenta quello che in assoluto è il maggiore
segno clinico riscontrabile nell’osservazione dei pazienti di ogni gruppo.
Tabella 1: segni clinici di classificazione delle quattro forme di diplegia.
Le quattro forme sopra descritte presentano una gravità di patologia e limitazione delle
capacità di deambulazione che rispetta l’ordine decrescente: i pazienti maggiormente
compromessi appartengono alla I forma, mentre quelli della IV presentano un minore
livello di compromissione.