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Introduzione
“Eventi di storica valenza possono dare nuovi significati alle parole. Questo è il caso di
Camp David”
1
scrive William B. Quandt. Parole che prima del 17 settembre 1978
rimandavano semplicemente a una residenza presidenziale, da quel momento in poi
rappresentarono, nel bene e nel male, uno spartiacque nella storia contemporanea del
Medio Oriente. Una cesura di fronte alla quale non si poteva restare indifferenti e che è
sempre stata dibattuta, tanto negli Stati Uniti quanto nel mondo arabo, in particolare
sull’onda della cosiddetta “Primavera araba”, quando Tel Aviv ha temuto che quello che
era stato l’architrave geopolitico della regione per oltre trent’anni sarebbe potuto svanire
da un momento all’altro.
Le reazioni suscitate dalla firma degli accordi di Camp David furono miste: se per gli
Stati Uniti gli accordi rappresentarono un successo inaspettato in un anno
particolarmente disastroso per la loro politica estera in Medio Oriente, per i Paesi arabi
non furono altro che un atto di egoismo. Fu lamentata, infatti, una notevole discrepanza
tra quanto il Presidente egiziano, accusato di aver capitolato davanti alle pressioni di
Carter e Begin, aveva ottenuto per il proprio Paese e la blanda formula che avrebbe
dovuto portare alla soluzione della questione palestinese e, di conseguenza, alla pace in
tutta la regione. In breve, l’Egitto, che con Nasser era stato il leader indiscusso del
Panarabismo, agli occhi del mondo arabo aveva anteposto la raison de l’état a la raison de
la nation.
Tuttavia, a distanza di qualche anno le posizioni divennero, in generale, più mitigate:
l’esistenza di Israele fu data per scontata e si iniziò a discutere una soluzione politica con
lo Stato ebraico, al quale veniva comunque chiesto il ritiro dai territori occupati e l’auto-
determinazione per i palestinesi, contemplando addirittura l’ipotesi che ciò si potesse
verificare attraverso delle fasi di transizione. Uno schema mai implementato come parte
degli accordi di Camp David, ma che diventò la base del processo di pace di Oslo, a
dimostrazione del fatto che l’eredità di Camp David andava ben oltre il suo risultato più
tangibile, vale a dire il Trattato di pace tra Egitto e Israele.
1
W. B. Quandt, The Middle East: Ten years after Camp David, Washington DC, The Brookings
Institution Press, 1988, p.I
8
Se a partire dagli anni Ottanta le relazioni dell’Egitto col mondo arabo migliorarono,
quelle con Israele finirono per essere descritte da Boutros-Ghali come una “pace fredda”.
In realtà sin dal principio, scrive Dessouki, i due Paesi avevano interpretato diversamente
il processo di pace. Gli israeliani lo avevano inteso nel suo senso più ampio, articolato nel
concetto di normalizzazione che includeva diverse tipologie di relazioni, dall’ambito
economico a quello turistico. Per gli egiziani, al contrario, rappresentava una soluzione a
problemi di stampo economico e sociale per rimediare ai quali occorreva allocare
diversamente le risorse a disposizione
2
, messe a dura prova, negli anni passati, dalle
guerre cicliche con lo Stato ebraico. Per questo motivo, Tel Aviv non ha mai goduto della
posizione privilegiata che auspicava di ottenere nella politica estera egiziana, tanto di
Sadat quanto di Mubarak. Quali sono stati, però, i cambiamenti che hanno interessato nel
corso di tre lunghe decadi le relazioni tra il più grande e popolato stato della regione e lo
storico nemico dei Paesi arabi? La rivoluzione egiziana avrebbe davvero potuto mettere a
repentaglio una pace ormai consolidata o i comuni interessi strategici avrebbero distolto
qualsiasi nuovo governo da una mossa tanto azzardata?
L’obiettivo di questo lavoro è dunque analizzare l’evoluzione delle relazioni tra Egitto
e Israele dal 1979 ad oggi. Nel primo capitolo viene descritto il processo di negoziazione
che portò alla firma dei due documenti che costituiscono gli accordi di Camp David, ossia
“Un Quadro per la Pace in Medio Oriente” e “Un Quadro per la Conclusione di un Trattato
di Pace tra Israele ed Egitto”, che sfociarono, il 26 marzo 1979, proprio nella firma del
Trattato di pace tra i due Paesi. All’indomani di questa decisione l’isolamento dell’Egitto
all’interno del mondo arabo divenne un dato di fatto con cui il Cairo non poté fare a meno
di confrontarsi. Nel frattempo, l’implementazione dei termini del trattato e la
normalizzazione delle relazioni tra i due paesi procedevano di pari passo. L’assassinio di
Sadat nell’ottobre del 1981 accrebbe i timori israeliani che una volta riottenuta la
Penisola, l’Egitto avrebbe assunto nuovamente una posizione di belligeranza. Una scelta
alla quale l’Egitto sarebbe potuto approdare sulla scia dei numerosi ostacoli che si
frapposero al processo di normalizzazione, tra questi: l’invasione del Libano del 1982,
spartiacque della decade successiva a Camp David; la disputa su Taba; e, infine, lo scoppio
2
A. E. H. Dessouki, Regional Leadership: balancing off Costs and Dividends in the Foreign Policy of
Egypt, in Korany e Dessouki (ed.), The Foreign Policies of Arab States, Cairo, The American University in
Cairo Press, 2009, p.191.
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della Prima Intifada nel 1987. Nell’ultima parte, invece, l’attenzione si sposta sui
cambiamenti che interessarono il Cairo e Tel Aviv nei dieci anni successivi alla firma del
Trattato del pace sia in politica interna, rispettivamente con il nuovo corso di Mubarak e il
governo di unità nazionale, che in politica estera con la comparsa di quello che Dessouki
definisce un triangolo tra Stati Uniti, Egitto e Israele.
Focus del secondo capitolo è il ruolo regionale dell’Egitto, un ruolo che Mubarak
cercò di riportare ai massimi livelli attraverso la riammissione in seno alla Lega araba e la
partecipazione militare alla guerra del Golfo del 1991. La risposta all’invasione del Kuwait
permise all’Egitto di provare il valore della sua alleanza agli occhi di Washington che,
comunque, nel corso degli anni sperimentò il mancato riconoscimento della popolazione
per l’ingente pacchetto di aiuti che ogni anno veniva versato nelle casse egiziane e il
tradimento delle aspettative riposte dagli Stati Uniti nella capacità del governo egiziano di
avviare una serie di riforme strutturali. Anche l’alleanza non scritta tra Israele e Stati Uniti
fu caratterizzata da alti e bassi imputabili soprattutto alla personalità dei leader che si
succedettero alla guida dei due Paesi. Nondimeno, il 14 dicembre 2004, il triangolo tra
Egitto, Israele e Stati Uniti si arricchì di un ulteriore elemento, la firma dell’accordo sulle
Zone Industriali Qualificate. Un anno dopo, nel 2005, fu firmato l’altro accordo sulla
vendita di gas naturale ad Israele, a lungo oggetto di critiche, almeno in Egitto. È
interessante notare come gli accordi economici tra i due Paesi abbiano seguito i progressi
e le battute d’arresto nel processo di pace dove l’Egitto si investì del ruolo di mediatore.
Un ruolo che in realtà emerse soprattutto nelle negoziazioni riguardanti
l’implementazione degli accordi di Oslo, al cui tavolo negoziale l’Egitto non fu invitato,
come d’altronde era accaduto per la Conferenza di Madrid, e nelle trattative precedenti
Camp David 2000. Per Israele, l’Egitto non fu sempre un mediatore onesto, tuttavia
interessi strategici comuni li videro uniti nel desiderio di contenere l’influenza e il potere
di Hamas. Gli israeliani si erano ritirati unilateralmente da Gaza nel 2005 e nel mese di
gennaio 2006 il Movimento di Resistenza Islamico aveva vinto le elezioni legislative
palestinesi. Un anno dopo Hamas aveva sconfitto Fatah e assunto il controllo di tutta la
Striscia, sulla quale da quel momento Israele, con la complicità dell’Egitto, impose un
severo embargo, che ai palestinesi di Gaza non lasciò altra valvola di sfogo che i tunnel
sotterranei.
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Il terzo capitolo, infine, verte sulla reazione di Israele alla Rivoluzione egiziana. Il
regime di Mubarak, come dimostrato dalle affermazioni della Segretaria di Stato
americana Hillary Clinton e del Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu, era
ritenuto stabile, al riparo dall’ondata rivoluzionaria che aveva travolto la riva sud del
Mediterraneo. Un previsione del tutto infondata: il 25 gennaio migliaia di persone si
ritrovarono in Piazza Tahrir, epicentro della rivolta, per chiedere la caduta del regime.
Mubarak provò a limitare i danni, ma l’11 febbraio si dimise affidando al Consiglio
Supremo delle Forze Armate la gestione della transizione democratica. Per Israele i
disordini egiziani rappresentarono molto più che un affare di politica interna dello Stato
confinante, bensì una questione strategica che riguardava il trentennale trattato di pace,
ritenuto, come fu più volte ripetuto in quei giorni concitati, un acquis di primaria
importanza. Il successo dei Fratelli Musulmani alle elezioni parlamentarie e la vittoria di
Mursi esacerbarono i timori del governo israeliano verso la nuova leadership del Cairo, da
sempre contraria al Trattato di pace e alle sue ramificazioni. Tuttavia, Mursi si rivelò un
valido alleato nel contrastare la comparsa di gruppi jihadisti nel Sinai, sempre più
instabile, e nel mediare il cessate-il-fuoco tra Israele e Hamas che mise fine all’Operazione
Colonna di Difesa. In ambito economico, invece, se l’accordo sulle Zone Industriali
Qualificate non fu messo in discussione, ma solo rinegoziato, quello sulle esportazioni di
gas naturale fu unilateralmente sospeso. All’incirca due mesi dopo, il 30 giugno 2013, con
una nuova ondata di proteste il popolo, deluso dal governo della Fratellanza, aprì la
strada al colpo di stato dei militari. Il 3 luglio il Presidente democraticamente eletto fu
destituito e davanti a Israele si paventava un nuovo scenario.
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DA CAMP DAVID ALLA FINE DEGLI ANNI ‘80
1.1 La strada verso Gerusalemme
Dal 1978 ad oggi Camp David è diventato un punto di riferimento imprescindibile
nella storia del Medio Oriente contemporaneo. La sua importanza non sta solo nei due
accordi cui si giunse nella residenza del Presidente degli Stati Uniti d’America, nel
Maryland settentrionale, ma anche nello spirito che informò il processo di “riconciliazione
storica”
3
tra gli arabi e Israele voluto da Anwar Al-Sadat. Questo processo era iniziato
subito dopo la guerra dello Yom Kippur, nel 1973, e da allora aveva vissuto l’alternarsi di
alti e bassi. Camp David può essere considerato una parte integrante dell’idea di Egitto
che era alla base della visione politica di Sadat, in cui infitah, democratizzazione
controllata del Paese, alleanza con l’Occidente e pace con Israele erano pezzi di uno
stesso puzzle
4
.
La politica di apertura economica, infitah, fu lanciata appena sei mesi dopo la guerra
dell’ottobre 1973, ed è simboleggiata dalla Legge n° 43 del 1974. Il suo scopo principale
era la liberalizzazione dell’economia egiziana, monopolio dello Stato, principale, se non
unico datore di lavoro, attraverso l’incoraggiamento del settore privato e l’attrazione di
investimenti esteri. Inizialmente il popolo accolse con favore la nuova politica economica,
ma quando, in seguito alla promulgazione di numerosi decreti, si rese conto che si stava
abbandonando il socialismo di Nasser per abbracciare il capitalismo occidentale si venne a
creare una polarizzazione ideologica. A sostegno dell’infitah, come scrive Saad Eddine
Ibrahim, c’erano le classi sociali più ricche, mentre i suoi principali detrattori erano le
classi meno agiate. I risultati poco incoraggianti prodotti dall’infitah a tre anni dalla sua
entrata in vigore furono alla base della Rivolta del Pane scoppiata nel gennaio del 1977. Il
Presidente reagì arrestando numerosi elementi dell’opposizione.
Eppure Anwar Al-Sadat si era presentato sin da subito come fautore della
democratizzazione. Passi in avanti concreti sarebbero stati compiuti una volta liberato il
territorio egiziano dall’occupazione israeliana, ma già tra il 1971 e il 1975 numerosi
3
S. E. Ibrahim, Domestic development in Egypt, in W. B. Quandt (ed.), The Middle East: Ten years after
Camp David, Washington DC, The Brookings Institution Press, 1988, p.20.
4
Questi quattro obiettivi divennero le pietre angolari dell’azione politica di Sadat e sostituirono i tre
pilastri fondamentali del nasserismo: panarabismo, Unione sovietica e Movimento dei Non Allineati.
12
esponenti dei Fratelli Musulmani e altri prigionieri politici erano stati liberati. Nel 1976 fu
ripristinato un sistema multipartitico, sebbene con delle forme di controllo, insieme ad
una maggiore libertà di stampa e di espressione. Tuttavia, all’emergere delle prime
difficoltà corrispose un graduale ritorno allo status quo: nel 1978 Sadat fondò il Partito
Nazionale Democratico, nel 1981 molti giornali furono chiusi e oltre 1.500 attivisti politici
furono imprigionati.
Il terzo cambiamento politico, e cioè il passare dalla sfera d’influenza sovietica a
quella americana, si inscrive nel quadro della Guerra Fredda
5
. Un clima di tensione nelle
relazioni tra i due Paesi si era creato già dall’inizio degli anni Settanta
6
, ma il punto di
rottura si verificò nel momento in cui Sadat decise di espellere dal territorio egiziano
quasi tutti i 20.000 militari sovietici. Il sostegno sovietico durante la guerra del 1973 non
cambiò lo stato delle cose, se non momentaneamente. Di fatto, Sadat aveva cercato un
riavvicinamento con gli Stati Uniti sin dai primi anni della sua presidenza anche attraverso
l’Arabia Saudita, pilastro della politica americana in Medio Oriente, tanto che nel 1974 le
relazioni diplomatiche tra i due Paesi, interrotte dalla Guerra dei Sei Giorni del 1967,
erano state ripristinate.
Sadat credeva che gli Stati Uniti sarebbero diventati un partner importante per
l’Egitto e aveva ragione di pensarlo visto che è grazie alla mediazione americana che nel
1975 Egitto ed Israele avevano firmato un accordo di disimpegno nel Sinai. Questa luna di
miele, messa a rischio dalla Rivolta del Pane, dai pochi progressi compiuti nel processo di
pace e dalla mancata ricaduta degli aiuti americani sulla popolazione egiziana, era infatti
destinata a durare. Niente come la storica visita di Sadat a Gerusalemme, il cambiamento
più drammatico nella politica egiziana, pienamente sostenuto dall’allora Presidente
Jimmy Carter, poteva consolidare questa alleanza.
La sera del 9 novembre 1977, il Presidente egiziano si rivolse all’Assemblea popolare
dicendo
“sono pronto ad andare sino in capo al mondo se questo potrà in qualche modo
proteggere un ragazzo, un soldato o un ufficiale egiziano dall’essere ammazzato o
5
Su interferenza della Guerra Fredda in Egitto e nel Medio Oriente si veda P. Sluglett, The Cold War in
the Middle East, in L. Fawcett (ed.), International Relations of the Middle East, Oxford and New York, OUP,
2013, pp. 60-76.
6
S. E. Ibrahim, Domestic development in Egypt, cit. p.25.
13
ferito. Dico di essere pronto ad andare sino in capo al mondo. Sono pronto ad andare
nella loro nazione, anche davanti alla stessa Knesset e parlare con loro.”
7
Dieci giorni dopo era a bordo di un aereo diretto a Tel Aviv. L’accoglienza fu calorosa,
bandiere egiziane e israeliane sventolavano ovunque, ma delle ombre erano già calate
sullo storico evento.
Da una conversazione con Moshe Dayan, il Ministro di Stato per gli Affari Esteri
egiziano, Boutros Boutros-Ghali, capì che il suo interlocutore non aveva colto l’importanza
del ruolo egiziano nella questione palestinese, gli sfuggiva del tutto la dimensione
panaraba e islamica del problema. La priorità del Ministro degli Esteri israeliano era far
sapere a Sadat che un qualsiasi riferimento all’Organizzazione per la Liberazione della
Palestina (OLP) avrebbe inficiato gli sforzi profusi nel promuovere la riconciliazione tra i
due Paesi, acerrimi nemici nei primi trent’anni di vita di Israele.
Tuttavia, nei suoi cinquantacinque minuti di discorso davanti alla Knesset, il 20
novembre 1977, Sadat, pur senza nominare l’OLP, affrontò la questione palestinese,
deludendo il pubblico presente. Dopo aver ribadito l’intenzione di stabilire una pace
permanente, fondata sulla giustizia, aver riconosciuto il diritto di Israele a vivere in
tranquillità e sicurezza con i suoi vicini arabi e al riparo da ogni aggressione, il Presidente
egiziano sottolineò come il nodo cruciale del problema fosse la questione palestinese.
L’esistenza del popolo palestinese, riconosciuta in tutto il mondo, non poteva essere
più ignorata, nessuno con capacità di giudizio poteva continuare a negare i suoi diritti
legittimi, motivo per cui Sadat esortò gli Israeliani, che pure avevano trovato una
giustificazione morale e legale per stabilire una patria nazionale su un territorio che non
apparteneva loro, a comprendere la determinazione del popolo palestinese a voler
costruire il proprio Stato nella sua patria
8
.
Menachem Begin prese la parola subito dopo Sadat. Sia Boutros-Ghali che Avi Shlaim
concordano nel ritenere che il Primo Ministro israeliano non si dimostrò all’altezza del
7
B. Boutros-Ghali, Egypt’s Road to Jerusalem, New York, Random House, 1997, p.11-12: “I am ready to
travel to the ends of the earth if this will in any way protect an Egyptian boy, soldier, or officer from being
killed or wounded. I say that I am ready for sure to go to the ends of this earth. I am ready to go to their
country, even to the Knesset itself and talk with them”.
8
Per la lettura integrale del discorso tenuto da Sadat, in arabo, davanti alla Knesset il 20 novembre
1977 si consiglia di consultare la traduzione in inglese disponibile sul sito della Knesset all’indirizzo
http://www.knesset.gov.il/description/eng/doc/Speech_sadat_1977_eng.htm.
14
momento storico. Difatti Begin, fondatore del Likud, partito che mette le sue radici nel
movimento sionista revisionista di Zeev Jabotinsky e la cui ideologia si riassume nell’idea
del “Grande Israele”
9
, con tono severo ribadì le note posizioni israeliane, specie riguardo
ai confini, non fece promesse, bensì chiese al Presidente egiziano di avviare le
negoziazioni senza porre delle precondizioni. Ignorando del tutto la questione
palestinese, Begin lasciò intendere di non aver intenzione di cedere sul controllo
dell’intera Gerusalemme.
Secondo Moshe Dayan, la svolta avvenne durante un breve colloquio tra Begin e
Sadat, dopo il banchetto di stato, quando i due leader giunsero a un accordo su tre
principi: nessun’altra guerra tra i due Paesi; sovranità formale dell’Egitto sulla penisola del
Sinai; demilitarizzazione di gran parte del Sinai
10
. Di questi tre accordi l’unico ad essere
reso noto nel comunicato stampa congiunto fu il primo, reso poi celebre da Sadat. Intanto
Boutros-Ghali e Weizman, il ministro della difesa israeliano, avevano deciso di stabilire un
contatto telefonico a Parigi attraverso il quale Egitto e Israele avrebbero potuto
scambiarsi messaggi senza l’intermediazione di terzi.
1.1.1 Fallimento delle conferenze del Cairo e Ismailia
Non molto tempo dopo la visita a Gerusalemme, Sadat annunciò all’Assemblea
Popolare la volontà di indire un incontro al Cairo in preparazione alla Conferenza di
Ginevra. A quest’incontro informale, che doveva sottolineare l’intenzione di raggiungere
una soluzione complessiva e non un accordo di pace separato tra Egitto e Israele, furono
invitati gli Stati Uniti, l’Unione Sovietica, Israele, Siria, Giordania e l’Organizzazione per la
Liberazione della Palestina, la cui partecipazione sarebbe stata della massima importanza
giacché essere seduti allo stesso tavolo di negoziazione con Israele avrebbe implicato un
tacito mutuo riconoscimento. Tutti i leader del mondo arabo, però, rifiutarono l’invito
così che all’incontro presso la Mena House parteciparono solo Egitto, Israele, Stati Uniti e
Nazioni Unite.
9
Secondo questa ideologia la Giudea e la Samaria, i termini biblici con cui ci si riferisce alla
Cisgiordania, siano parte integrante della Terra d’Israele.
10
A. Shlaim, The Iron Wall: Israel and the Arab World, London, Penguin, 2000, p.361.