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Introduzione
∙ Il campo di ricerca.
“Grazie al processo che genericamente definiamo globalizzazione, le
donne sono in movimento come mai prima nella storia. Nelle pubblicità
televisive e delle carte di credito, dei telefoni cellulari e delle compagnie
aeree siamo abituati a vedere donne dirigenti d’azienda che volano da un
capo all’altro del mondo, telefonando a casa da alberghi di lusso e
incontrando i figli impazienti in aeroporto. Ma si sente parlare molto meno
di un flusso assai più consistente di energia e lavoro femminile: la sempre
più ingente migrazione di milioni di donne dai paesi poveri verso quelli
ricchi, dove lavorano a servizio come tate, collaboratrici domestiche e
qualche volta lavoratrici del sesso.” (Ehrenreich, 2002, p. 8)
Quando si parla di entrata massiccia delle donne nel mondo del
lavoro, non si richiamano all’appello solo le donne più istruite e in
grado di gestire posizioni di più alto grado nella scala delle
occupazioni, né tanto meno, quando si fa riferimento alla
femminilizzazione del lavoro come fenomeno che implica una
maggiore fuoriuscita dal tradizionale ruolo di custodi del focolare
domestico, ci si limita a quelle donne il cui livello di emancipazione le
vede più vicine al lavoro produttivo che a quello riproduttivo. L’altro
lato della medaglia infatti, verte sull’analisi delle condizioni lavorative
di quelle donne che, al contrario delle prime ma non così lontane da
loro, hanno trovato un’occupazione proprio all’interno della sfera
riproduttiva.
Oggi, in un mondo globalizzato dove produzione e
riproduzione si sovrappongono in una lotta incessante tra i sessi,
questi termini non funzionano più come universi del tutto scissi fra
loro, poiché nel corso degli anni, le donne hanno reso possibile la
costruzione di uno spazio di rivendicazioni più radicali che ha
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permesso di imporre la propria voce anche su terreni dove era l’uomo
a imporne i confini, mettendo in discussione le responsabilità delle
donne rispetto al lavoro di riproduzione. A tal proposito, le donne dei
paesi più ricchi, sempre più agguerrite nella ricerca di una più equa
collocazione nel mondo nel lavoro, si sono spinte a cercare nuove
figure femminili che fossero in grado di compensare la loro assenza
nella cura degli affetti familiari. Un compito, che oggigiorno viene
assunto sempre più dalle donne migranti straniere, chiamate a
sostituire altre donne italiane all’interno degli spazi privati della
famiglia e degli affetti come modello tradizionale di genere, in grado
di mantenere in equilibrio la sfera produttiva e riproduttiva del lavoro.
La femminilizzazione del lavoro domestico ha visto già prima degli
anni settanta, e in maniera sempre maggiore dagli anni ’90 in poi, un
flusso di straniere giunte da varie parti del mondo, a ricoprire un ruolo
che le donne di oggi non vogliono più rivestire. Il numero delle
lavoratrici straniere che lavorano come badanti, colf ed assistenti di
cura, ha trascinato con sé anche una rapida crescita delle offerte
lavorative che vengono proposte a queste donne dal welfare italiano
una volta entrate in Italia. Si stima infatti che “mantenendo stabile il
tasso di utilizzo dei servizi da parte delle famiglie, il numero dei
collaboratori salirà a 2 milioni 151 mila nel 2030 (circa 500 mila in
più)”
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. Un sorpasso delle domestiche straniere rispetto a quelle italiane
che:
“è evidente anche nel linguaggio di senso comune. A termini come «la
donna» o «la colf» si sono affiancati, e in parte progressivamente
sostituiti, «la filippina» (e poi «la rumena», «la ucraina») o «la
badante».” (Colombo, 2009, p. 19)
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Dall’articolo: Italia, boom di badanti: aumento del 53% rispetto a dieci anni fa.
ripreso da “Il Fatto Quotidiano” del 14 maggio 2013
http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/05/14/italia-boom-di-badanti-aumento-del-53-
rispetto-a-dieci-anni-fa/593429/
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Studiare il lavoro domestico alla luce dei cambiamenti che
avvengono all’interno della famiglia italiana, significa non solo tener
conto a livello quantitativo dei flussi di donne migranti che si sono
riversate in Italia a svolgere queste mansioni, ma soprattutto è
importante andare a considerare le traiettorie individuali che hanno
caratterizzato questi percorsi, le reti che hanno realizzato sul territorio
italiano, e il vissuto che hanno costruito a partire dal lavoro ma anche
grazie ai legami che hanno mantenuto e ricreato sul territorio di arrivo.
È importante allora, per chi decide di trattare questo argomento,
valutare la prospettiva di chi migra, prendendo in considerazione che,
a detta di studiosi delle migrazioni femminili come Francesca
Decimo:
“nel potenziale riproduttivo delle immigrate è custodito il futuro italiano
multiculturale e pluriconfessionale: la pianificazione familiare che
queste donne elaborano insieme ai loro uomini è destinata ad incidere in
maniera rilevante sui nostri tassi di natalità; dalle loro scelte di
insediamento o di rientro in patria dipende la composizione sociale della
nostra popolazione.” (Decimo, 2005, p. 7)
∙ Il tema della ricerca.
Questo testo si propone di analizzare l’esperienza di
emigrazione e il vissuto relazionale di un gruppo di donne migranti,
per lo più di origine rumena, arrivate a Potenza fra i primi anni
novanta, che hanno trovato occupazione nel lavoro di cura alla
persona, e che successivamente si sono radicate nel contesto locale
stabilendo relazioni affettive con uomini del posto. Donne migranti
dunque, che passano dall’essere badanti a mogli, o compagne di
uomini conosciuti sul luogo di emigrazione, con i quali hanno dato
vita ad una relazione fondata sull’etica familiare dell’amore e del
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rispetto, al di là della diversa educazione di entrambi questi valori. In
particolare, ho cercato di evidenziare il modo in cui le donne riportano
la propria esperienza di migranti all’interno di uno spazio geografico
che parte dalle esperienze passate avvenute in Romania per arrivare ai
racconti di vita quotidiana a Potenza, in una narrazione che,
completando il cerchio dialogico, ritorna a parlare nuovamente della
Romania secondo una prospettiva più psicologica che sociale, che le
donne acquisiscono alla luce dei cambiamenti avvenuti nel corso di
questo viaggio.
I percorsi di studio che ruotano attorno al tema
dell’immigrazione, vengono infatti affrontati da numerosi sociologi ed
antropologi seguendo differenti itinerari: se da un lato alcuni si
interessano allo studio del fenomeno privilegiando aspetti di tipo
economico e politico, in una chiave interpretativa per lo più di tipo
quantitativa, dall’altro lato viene avvantaggiata l’osservazione degli
aspetti di tipo socio-culturale. Molti studi hanno dedicato una
particolare attenzione all’attività svolta prevalentemente da queste
donne, e ai rapporti che legano i soggetti migranti con i loro paesi di
origine. I rapporti con le famiglie rimaste, si basano di fatto, su legami
spirituali e materiali per i quali i sentimenti d’appartenenza familiare
e di responsabilità nei confronti dei propri parenti non perdono mai di
credibilità durante il percorso migratorio. Quando si è lontani, la
comunicazione regolare con la propria famiglia, che sia per inviare
denaro e doni, avere informazioni sulla salute dei genitori,
sull’andamento scolastico dei figli, sulle condizioni economiche dei
fratelli, o per far sapere le novità della propria vita, è sempre
finalizzata a mantenere in maniera costante e durevole, quel legame
familiare che trasmette alle donne la sicurezza necessaria a non
smarrire le proprie radici lungo le tappe della migrazione. Non si tratta
infatti, di un vincolo familiare limitato ad una cerchia ristretta di
rapporti, ma anzi, di una relazione aperta ad inglobare nuove
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componenti (in questo caso l’attuale marito italiano) che vanno anche
al di là dei tradizionali legami di sangue.
Ad attirare la mia attenzione, sono stati gli itinerari di viaggio
di quelle donne che dalla Romania sono emigrate verso la penisola
italiana, in particolare nella mia città, Potenza; dove molte di loro
hanno trovato una sistemazione lavorativa che ha portato ad un
inserimento definitivo nel paese di arrivo, e alla costituzione di una
nuova famiglia in emigrazione, completando il percorso di
integrazione sul territorio potentino. L’apertura mentale del coniuge
lucano, e l’accoglienza altrettanto positiva da parte della sua famiglia
e della comunità nei confronti delle donne migranti, ha reso possibile
la realizzazione di una visione multietnica e globale della coppia, che
ha dimostrato di essere in grado di mantenere in maniera dinamica e
costante, il contatto tra la realtà di arrivo e quella di provenienza. Il
mio interesse a questo proposito, si è concentrato sulle modalità di
costruzione della loro nuova relazione coniugale.
La scelta di concentrare la mia attenzione sulla popolazione
femminile di origine rumena dipende dal fatto che a Potenza, i rumeni
costituiscono la comunità straniera più numerosa;
“la comunità straniera più numerosa è quella proveniente dalla Romania
con il 37,1% di tutti gli stranieri presenti sul territorio, seguita dal
Marocco (13,2%) e dall’Ucraina (9,4%)”
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In particolare, dall’osservazione della composizione della
popolazione risulta che la componente femminile è nettamente
maggioritaria rispetto a quella maschile: su un totale di 366 presenze
di nazionalità Rumena, 76 sono i migranti di sesso maschile e 290
quelli di sesso femminile. La scelta dunque, di lavorare su questa
componente di sole donne della stessa nazionalità, è dettata dal fatto
2
Dati riferiti ai cittadini stranieri a Potenza nel 2011. Sito di riferimento
http://www.tuttitalia.it/basilicata/71-potenza/statistiche/cittadini-stranieri-2011/
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che la loro presenza in città è numericamente prevalente. La
preferenza è ricaduta su quelle donne che: risiedono a Potenza da un
lungo periodo di tempo, che svolgono un occupazione nel lavoro di
cura e che hanno una relazione di partnership con uomini lucani,
sposate o semplici conviventi.
∙ L’esperienza sul campo.
L’indagine è iniziata nell’agosto 2013 dalla parrocchia di San
Giuseppe presso il quartiere di Rione Lucania a Potenza. L’idea di
dirigermi presso la parrocchia mi è stata suggerita da mia madre, la
quale era a conoscenza del fatto che il parroco era solito accogliere
numerose donne migranti nella sua chiesa, fornendo loro un primo
soccorso tramite l’assistenza della Caritas diocesana. Mi sono dunque
rivolta al parroco, che mi ha messo in contatto con il suo collaboratore
il quale si è fin da subito mostrato molto disponibile ad aiutarmi. Egli,
pur ribadendo che la chiesa rappresenta un punto di riferimento
importante di accoglienza e di soccorso per migranti, soprattutto per le
donne, ha sottolineato il fatto che il ruolo di prima accoglienza non è
più svolto solo dalla chiesa che dunque non gestisce più come un
tempo i flussi migratori.
A Potenza oggi, a fare da protagoniste sono le nuove società di
assistenza domiciliare come la Sanitas Service o il centro di Privata
Assistenza, o in molti casi, sono direttamente le famiglie medesime
che stabiliscono un contatto diretto con le donne rumene, che possono
d’altro canto poggiare su una rete di conoscenze locali che consentono
loro di muoversi nella richiesta di assistenza senza dover ricorrere ad
altre mediazioni. Molte delle donne che arrivano possono fare
riferimento ad altre connazionali; le quali, come donne primo
migranti, fanno da guida nella città e da garanti nella ricerca di un
occupazione. In questo senso la chiesa ha ormai perso il suo scopo di