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INTRODUZIONE
Risorse umane internazionali: ovvero, come gestire le differenze culturali
in un mondo dove i confini sono sempre più labili? Dall’ascesa delle carriere
senza confini alle nuove esigenze portate da mercati in espansione: come possono
le organizzazioni fare in modo che la crescente diversità culturale presente nei
propri uffici non diventi un ostacolo ma possa essere valorizzata come una
risorsa? Cosa si intende per “cultura” e “mobilità”? In che modo le differenze
culturali possono apportare un valore aggiunto all’organizzazione? È possibile
sviluppare una competenza culturale? Il presente elaborato si propone di
rispondere a queste domande in due modi: esaminandone le trattazioni teoriche in
letteratura e indagandone le applicazioni pratiche nella consociata italiana di una
grande multinazionale francese.
Nella prima parte verrà ripercorsa la letteratura sul tema della gestione di
risorse umane internazionali. Il primo capitolo vuole dare un inquadramento
generale del tema nell’ottica del Diversity Management, una modalità di gestione
delle persone consapevole delle diversità esistenti in ciascuno che ha come scopo
la progettazione di modalità per accogliere le diversità in sinergia con gli scopi
organizzativi. Si tratteranno quindi i principali modelli teorici sulla diversità
organizzativa. Il secondo capitolo sarà centrato sul Management Cross-Culturale;
dopo aver introdotto il tema dell’internazionalizzazione del lavoro si cercherà di
spiegare su quali assi si differenziano le culture con riferimento alle teorizzazioni
di Hall, Hofstede, Trompenaars e del progetto GLOBE per tentare di dare una
definizione di “cultura” e spiegarne le dinamiche. Successivamente verranno
esplorate le difficoltà dell’incontro tra culture e dell’adattamento a un nuovo
contesto con particolare attenzione allo shock culturale e all’acquisizione di una
“competenza culturale”. Il terzo capitolo sarà dedicato interamente alle sfide della
gestione internazionale delle risorse umane, ai temi connessi e alle pratiche
maggiormente utilizzate per far fronte all’internazionalizzazione del lavoro.
Verranno trattate le forme di mobilità lavorativa e la gestione dei team globali con
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una particolare attenzione ai temi del reclutamento e selezione di uno staff
internazionale e della gestione delle carriere senza confini. Infine, si cercherà di
fare luce sul concetto di mentalità globale e sul suo sviluppo nelle organizzazioni.
Il capitolo cinque si concentrerà finalmente sull’importanza della formazione
interculturale nelle organizzazioni internazionali, definendo strumenti e
applicazioni utili a sviluppare nelle persone una “mentalità globale”
indispensabile per essere efficaci in contesti culturalmente diversificati.
Nella seconda parte verrà raccontata l’esperienza di ricerca che mi ha
permesso di ricostruire la declinazione in un contesto reale dei concetti esplorati
nella prima parte. Attraverso un ciclo di interviste condotte in Michelin Italia, ho
potuto ascoltare persone che lavorano con e all’interno della diversità culturale.
Storie di soddisfazioni e difficoltà quotidiane nell’incontro con l’alterità culturale
che intrecciano una trama complessa di relazioni umane. Attraverso questi
racconti verranno presentate alcune buone pratiche che l’azienda ha messo in atto
per una migliore gestione dell’internazionalità. L’analisi dei discorsi permetterà
poi di ricostruire in modo integrato i vissuti dei protagonisti, offrendo preziose
informazioni e spunti per la progettazione di un modulo di formazione
all’interculturalità effettivamente fondato sulle peculiarità del contesto e sui
bisogni specifici di apprendimento. Verranno in conclusione discusse le
implicazioni del lavoro svolto e si proporranno delle interpretazioni pratiche per la
progettazione di un modulo formativo “su misura”.
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PRIMA PARTE:
ORGANIZZAZIONI E DIVERSITA’ CULTURALI
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CAPITOLO 1. LE DIFFERENZE COME RISORSA: IL
DIVERSITY MANAGEMENT COME PROSPETTIVA
D’AVANGUARDIA NELLA PSICOLOGIA DEL LAVORO
Nella gestione di un’azienda moderna le parole “diversità” e “Diversity
Management” sono diventate di uso sempre più comune e frequente, a seguito dei
grandi cambiamenti demografici della società e della forza lavoro. Si tratta quindi
di un tema di grande attualità nello scenario delle moderne organizzazioni, che si
trovano a dover gestire in modo strategico risorse sempre più differenziate sotto
molteplici aspetti (genere, etnia, cultura, età, abilità psico-fisiche, ecc.). Le sfide
poste dalla gestione di questa crescente complessità sono strettamente collegate al
tema della sopravvivenza delle organizzazioni in un mercato ormai globalizzato.
Oggi infatti, mercati sempre più ampi richiedono la creazione di team di lavoro
che sappiano rispondere in modo flessibile a richieste meno lineari di un tempo,
per fare fronte alle necessità del maggior numero di clienti (Negri & Briante,
2010). Questa diversificazione della forza lavoro porta inevitabilmente con sé la
necessità di essere gestita in modo da valorizzarne le potenzialità e limitarne gli
aspetti problematici. Il pericolo è infatti che l’eterogeneità eliciti la comparsa di
forme di discriminazione che possono impedire il raggiungimento degli obiettivi e
rendere difficoltoso il governo delle organizzazioni.
Con il termine “diversità” si fa riferimento alle differenze tra individui o a
ogni caratteristica che può portare a percepire un’altra persona come diversa da sé
(Van Knippenberg, De Dreu & Homan, 2004). La quantità di dimensioni che
rientrano in questa definizione è immensa, ma la ricerca sulla diversità si è
principalmente focalizzata su attributi demografici (età, genere, etnia/nazionalità)
e organizzativi (anzianità di servizio, funzione, ecc). Gestire la diversità ha lo
scopo di massimizzare la capacità di ogni lavoratore di contribuire al
raggiungimento degli obiettivi organizzativi e di sviluppare completamente il
proprio potenziale senza essere ostacolato dalle sue identità di gruppo quali
genere, razza, nazionalità, età e appartenenze dipartimentali (Cox, 1994).
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La gestione della diversità include una gamma di attività relative alla
ricerca, assunzione e valorizzazione di personale che si differenzia lungo
numerose dimensioni. Mentre le politiche di pari opportunità e antidiscriminatorie
si configurano come strumenti volti ad aumentare la rappresentatività delle
minoranze da un punto di vista legislativo, il management della diversità mette
l’accento sul vantaggio competitivo che deriva dall’aumento di tale
rappresentanza (Kirby & Richard, 2000). Le politiche di gestione della diversità
apporterebbero benefici all’organizzazione in quanto strumenti di fidelizzazione
dei talenti, riduzione dei costi derivati da un turnover elevato, ottimizzazione della
gestione dei cambiamenti tecnologici e degli effetti delle migrazioni, aumento di
creatività e innovazione, creazione di nuove capacità di sviluppo di strategie di
marketing e miglioramento dell’immagine aziendale (Parmigiani, 2008).
Se la diversità organizzativa è una caratteristica tanto desiderabile, come
introdurla e gestirla in un contesto aziendale? Kalev e collaboratori (Kalev,
Dobbin & Kelly, 2006) individuano tre approcci per aumentare la diversità
aziendale.
Il primo approccio si ispira alle teorie di Weber e dei sociologi
istituzionalisti e vede nella creazione di posizioni specifiche il modo per
raggiungere nuovi traguardi. L’idea di base è quella di istituire delle “strutture di
responsabilità” per la gestione della diversità, aumentando così l’efficacia
dell’implementazione di nuovi metodi. Tre sono i metodi più comuni: piani di
azione affermativa in cui vengono annotati gli obiettivi organizzativi,
successivamente monitorati e valutati a scadenze regolari, supervisione tramite
posizioni di staff e uffici, ovvero la creazione di uffici e posizioni dedicate
esclusivamente al monitoraggio degli indici e delle iniziative per la diversità,
supervisione e difesa tramite comitati diversificati che supervisionano le iniziative
pro-diversity e si riuniscono per monitorarne i processi e identificare soluzioni.
Il secondo approccio si pone l’obiettivo di modificare il comportamento
discriminatorio grazie alla riduzione di errori e semplificazioni cognitive quali
stereotipi, intergroup bias (Tajfel & Turner, 1979) e riproduzione omosociale
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(Kanter, 1977). Un metodo educativo in tal senso è costituito dal diversity
training, una formazione centrata sull’apprendimento di informazioni rilevanti
sull’outgroup. La teoria di base è di matrice psicosociale ed è incentrata
sull’ipotesi del contatto (Allport, 1954) secondo la quale gli errori cognitivi di un
soggetto diminuiscono con l’apprendimento di informazioni circa i membri
dell’outgroup e con la conoscenza dei meccanismi di categorizzazione
stereotipica. La valutazione della prestazione è invece utilizzata per dare un
feedback ai manager circa il modo in cui hanno gestito la diversità nei loro uffici.
La presenza di un momento valutativo è infatti connessa all’aumento
dell’attenzione e della motivazione del valutato e pertanto influisce indirettamente
sulla riduzione degli errori (Reskin, 2002).
Il terzo approccio vede nell’isolamento sociale una caratteristica distintiva
delle minoranze. Le disuguaglianze potrebbero essere in parte spiegate da
differenze nelle reti sociali e nelle risorse che ne derivano. Pertanto, i programmi
di socializzazione vengono creati specificatamente per le donne e le minoranze
per creare opportunità di contatto e scambio di informazioni. I programmi di
networking seguono formule diverse, dal pranzo insieme ai convegni, con lo
scopo di creare spazi di condivisione e reciproco sostegno, mentre i programmi di
mentoring propongono di appianare le differenze affiancando un mentore agli
appartenenti a minoranze. Compito del mentore è dare assistenza informale in
ambito lavorativo e mettere a disposizione la propria esperienza. La letteratura sul
tema evidenzia una relazione positiva tra mentoring e aumento delle reti sociali,
ma consiglia cautela per quando riguarda il mentoring cross-culturale (Kalev,
Dobbin & Kelly, 2006).
Distaccandosi dalle politiche di pari opportunità, il Diversity Management
è un approccio teorico e pratico che si propone di “indagare i processi che, nei
contesti lavorativi, generano conflitti sulla base della percezione della reciproca
diversità fra le persone; intervenire per modificare gli effetti indesiderati di tali
processi sulla produttività, il clima di gruppo e il benessere lavorativo; potenziare
i comportamenti creativi e innovativi dei gruppi diversificati, che generano
profitto e benessere” (Negri & Briante, 2010 p. 302). Fa parte del management
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delle risorse umane (HRM) e cerca di rendere i processi e le funzioni
dell’organizzazione efficaci per ogni gruppo di lavoratori (Pitts, 2009). Kellough
& Naff (2004) identificano sette componenti principali del DM: garantire la
responsabilità manageriale; esaminare la struttura organizzativa, la cultura e i
sistemi manageriali; prestare attenzione alle rappresentanze; elargire la
formazione; sviluppare programmi di mentoring; promuovere gruppi di pressione
interni ed enfatizzare i valori comuni tra gli stakeholders.
Data la complessità del tema “diversità”, negli ultimi decenni si è assistito
alla proliferazione di ricerche e saggi accademici sull’argomento. Molti studiosi
hanno cercato di offrire modelli pratici per la sua gestione, altri hanno messo a
confronto le pratiche più diffuse, altri ancora si sono mostrati scettici nei confronti
di facili entusiasmi. La domanda a cui tutti hanno però cercato direttamente o
indirettamente di rispondere è: quali processi sottostanno agli effetti positivi o
negativi della diversità e come possono essere controllati? (Van Knippenberg et
al. 2004). Due sono i principali filoni teorici presenti nella letteratura sulla
diversità e la performance di gruppo identificati da Williams e O’Reilly (1998).
Il primo, denominato social categorization perspective, ritiene che l’essere
umano utilizzi somiglianze e differenze per categorizzare in gruppi se stesso e gli
altri, distinguendo se stesso e il proprio in-group da numerosi out-group. Da
questa idea di base derivano diversi concetti della psicologia sociale come
l’intergroup bias, il favoritismo per l’ingroup e l’omogeneità dell’outgroup.
L’omogeneità del gruppo di lavoro è ritenuta essere in relazione con un maggiore
commitment dei membri e un livello di coesione più elevato che causano una
diminuzione del conflitto relazionale. Di conseguenza, si otterrà una performance
migliore da gruppi omogenei rispetto a gruppi eterogenei. Nella ricerca
organizzativa, questa prospettiva si ritrova nell’approccio della social category
diversity (Van Knippenberg et al. 2004) che utilizza il paradigma sperimentale per
indagare fenomeni come il conflitto e il turnover nei gruppi di lavoro e limitarne
gli effetti negativi introducendo la cooperazione intergruppi. Due i punti di
debolezza: il laboratorio non consente di sapere se, una volta tornati in ufficio, gli
individui saranno in grado di utilizzare le tecniche di riduzione del conflitto
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apprese e, inoltre, l’introduzione di situazioni cooperative che eliminano le
differenze tra i gruppi rischiano di minare l’identità distintiva e positiva dei
componenti, generando timori e ansia (Negri & Briante, 2010).
Il secondo filone è rappresentato dall’information/decision-making
perspective, che intende la diversità in termini funzionali e informativi.
Contrariamente a quanto sostenuto dai teorici della categorizzazione sociale,
questa prospettiva ritiene che le migliori performance vengano dai gruppi
eterogenei. È più probabile infatti che gruppi diversificati siano in possesso di una
gamma più vasta di abilità, competenze e informazioni rilevanti per il compito,
data la presenza di una molteplicità di opinioni e interpretazioni. Questa grande
quantità di risorse necessita di essere organizzata e conciliata, obbligando i
membri del gruppo a riflessioni profonde sulle informazioni rilevanti, riducendo i
rischi di groupthink (Janis, 1972) e ottenendo soluzioni più creative e innovative.
Non sempre però la ricerca empirica ha coadiuvato queste ipotesi, suggerendo
cautela nel considerare acriticamente la diversità un valore aggiunto (Negri &
Briante, 2010).
Se la social category diversity si focalizza sugli aspetti relazionali e la
prospettiva dell’information/decision-making addita gli aspetti concernenti il
compito, risulta difficile comprendere come la diversità possa
contemporaneamente influire in modo negativo sulle relazioni tra i membri e
positivo sulla prestazione di gruppo. La difficoltà di conciliare i due approcci
riflette l’inadeguatezza dell’odierna letteratura a fornire una risposta coerente ed
empiricamente supportata al dilemma della diversità. Van Knippenberg e
collaboratori (2004) ravvisano quattro errori fondamentali delle correnti ricerche
sulla diversità. In primo luogo non si è dato sufficiente risalto al modo in cui
vengono processate le informazioni nei gruppi e agli aspetti che moderano tali
processi. In secondo luogo, i processi di categorizzazione sociale sono stati
concettualizzati in modo eccessivamente semplicistico, ignorando aspetti
moderatori delle relazioni fra diversità, categorizzazione e sue conseguenze
negative. In terzo luogo, i processi di informazione/presa di decisione e quelli di
categorizzazione sociale sono stati studiati separatamente, non prendendo in
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considerazione una loro possibile interazione. Infine, si è lavorato esclusivamente
sull’assunzione che tali processi fossero associati a differenti dimensioni della
diversità.
Per colmare queste lacune, Van Knippenberg e collaboratori propongono un
modello integrato delle due prospettive, il “Categorization-Elaboration
Model”(CEM). Per quanto concerne la prospettiva dell’informazione/presa di
decisione, quattro proposizioni ne riconcettualizzano i punti critici:
1. L’elaborazione di informazioni importanti per il compito costituisce il
processo primario sottostante gli effetti positivi della diversità sulla
performance di gruppo.
2. I requisiti del compito moderano la relazione tra diversità e performance in
modo tale da rendere possibile una relazione positiva tra esse quando la
prestazione richiede elaborazione di informazioni e soluzioni creative e
innovative.
3. È maggiormente probabile che la diversità provochi elaborazione e
aumenti il risultato quando la motivazione al compito dei membri del
gruppo è alta.
4. È maggiormente probabile che la diversità provochi elaborazione e
aumenti il risultato quando l’abilità dei membri circa il compito è alta.
Le zone d’ombra della prospettiva della categorizzazione sociale e della social
category diversity vengono invece rischiarate da due proposizioni:
5. La categorizzazione sociale nei gruppi di lavoro dipende dall’interazione
di: accessibilità cognitiva (facilità con cui viene cognitivamente attivata la
categorizzazione sociale implicita nella percezione delle differenze),
normative fit (il grado in cui la specifica categorizzazione è rilevante per
un determinato gruppo), comparative fit (quanto la categorizzazione dà
origine a gruppi distinti sulla base di un’alta omogeneità interna e di
elevate differenze intergruppi).