Relazioni percezione di mente
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Abstract
La percezione di mente è capacità di attribuire mente agli altri e a se stessi e quindi di
rappresentarsi internamente gli stati mentali riferiti a se stessi e agli altri. Secondo la
teorizzazione di Gray e colleghi (2007) essa si sviluppava entro due dimensioni
chiamate experience (la capacità di sentire e provare) ed agency (la capacità di agire e
manipolare l’ambiente). Nel presente studio, sono state analizzate le relazioni fra la
percezione di mente, gli atteggiamenti verso l’alimentazione (eccessivi e restrittivi) e il
ruolo svolto dai mass-media. Un campione di 612 partecipanti ha partecipato ad un
questionario online. I risultati hanno evidenziato una correlazione negativa fra entrambi
gli atteggiamenti verso l’alimentazione e l’agency attribuita a se stessi, sebbene questa
risulta sempre più negativa nei soggetti con atteggiamenti eccessivi rispetto ai soggetti
con atteggiamenti restrittivi. Il consumo di televisione, correlato positivamente con
entrambi gli atteggiamenti verso l’alimentazione, ha effetto oggettivizzante sulle
persone in quanto correlato positivamente con l’attribuzione di experience a se stessi e
di agency agli altri. Infine, i risultati mostrano che le persone, in generale, attribuiscono
a se stesse maggiore agency e minore experience e agli altri maggiore experience e
minore agency, ciò appare in linea con le teorie sull’infraumanizzazione.
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INTRODUZIONE
Il presente lavoro di ricerca vuole indagare le relazioni esistenti fra la percezione di
mente, gli atteggiamenti verso l’alimentazione e il ruolo svolto dai mass-media. In
particolare ci concentreremo su due tipologie di atteggiamenti verso l’alimentazione: la
tendenza alla restrizione e la tendenza all’eccesso alimentare.
Per percezione di mente s’intende la capacità di ascrivere stati mentali a se stessi
e agli altri, nel nostro studio faremo riferimento alla percezione di mente con struttura
bidimensionale, secondo la teorizzazione di H. M. Gray, K. Gray, e Wegner (2007).
Secondo questi ricercatori noi attribuiamo mente a noi stessi e agli altri essenzialmente
muovendoci su due dimensioni denominate experience (la capacità di sentire e provare)
ed agency (la capacità di agire e di pianificare). Negli studi esistenti, che hanno indagato
la relazione tra percezione di mente e disordini alimentari, è stata misurata la presenza o
assenza di percezione di mente e il grado con cui essa è presente, ma nessuno di questi
si muove in una prospettiva bidimensionale, che è ciò che vogliamo fare col nostro
lavoro.
Abbiamo deciso di prendere in esame anche i mass-media (riviste e televisione)
che, inserendosi a pieno titolo nei processi di costruzione della realtà, strutturano il
sistema di rappresentazioni entro cui le persone vivono, diventando uno dei tramiti più
potenti e pervasivi. Abbiamo dunque indagato che ruolo essi svolgano nella percezione
di mente di se stessi e degli altri e in che modo tale ruolo cambi in base agli
atteggiamenti verso l’alimentazione degli individui.
I’organizzazione del lavoro si è sviluppata in due direzioni: una prettamente di
ricerca bibliografico-letteraria e una empirico-sperimentale. La ricerca bibliografica mi
ha aiutata ad approfondire il concetto di percezione di mente, dalle sue origini ad oggi,
per comprenderne meglio i significati e la valenza psicologico-sociale. Ho potuto trarre
informazioni preziose da articoli scientifici di recente pubblicazione, e dalle nozioni
apprese durante il mio corso di studi. Di pari passo ho indagato l’ambito dei disturbi
alimentari tracciandone le tipologie, le caratteristiche eziologiche e le ipotesi di
riferimento di maggior interesse.
Nel definire il focus della ricerca, fin da subito la mia attenzione è stata attirata
dall’applicazione delle teorie sulla percezione di mente in ambito clinico. Il mio
personale interesse per i disturbi alimentari mi ha portata a concentrare l’attenzione su
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quest’area in particolare, con uno sguardo anche al mondo dei mass-media, da sempre
considerati legati a tale psicopatologia. Ho potuto coniugare e approfondire due ambiti
di grande interesse per me, ossia i disturbi del comportamento alimentare e gli studi di
psicologia sociale relativi alla percezione di mente. La fase di ricerca è cominciata con
l’analisi degli studi già esistenti, ho trovato contributi molto interessanti, ma anche ampi
margini di sviluppo e di esplorazione. É iniziata quindi la fase di progettazione della
ricerca. La scelta dei soggetti è ricaduta su un campione non clinico, fin da subito è stato
chiaro che fosse necessario un ampio numero di partecipanti, pertanto si è optato per
un’indagine on-line. Questa scelta si è rivelata appropriata: i questionari completi
ottenuti sono risultati 612. Per quanto riguarda la scelta delle scale, dopo aver valutato
diversi test e strumenti per l’assessment dei disturbi alimentari, si è deciso di estrapolare
gli item di nostro interesse dal questionario EDI-3 rf (Eating Disorder Inventory-3
referral form). Per la valutazione della percezione di mente di se stessi e degli altri, è
stato creato un questionario su scala Likert a 6 punti, con sette fattori riferiti all’agency
e sette fattori riferiti all’experience. Infine è stato utilizzato un test per misurare il
consumo di mass-media (Media consuption scale tradotta in italiano).
Lavorare su questa tesi è stato un lavoro molto gratificante e ricco di
soddisfazioni. Ho avuto l’occasione di sperimentare cosa significhi progettare in prima
persona uno studio empirico, elaborarlo e gestirlo, non solo: ho avuto anche
l’opportunità di mettermi in contatto con alcuni famosi ricercatori i cui contributi e le
cui teorie sono stati la base per elaborare la mia ricerca, in questo modo ho approfondito
gli argomenti di maggiore interesse e ottenuto, grazie alla loro collaborazione, ulteriore
materiale.
Certamente il nostro studio non ha la pretesa di porsi al livello delle ricerche
sulla mind perception che l’hanno preceduto, ma rappresenta comunque un contributo,
che può fornire qualche spunto interessante per studi futuri di applicazione della
psicologia sociale in un ambito clinico come quello dei disturbi alimentari.
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Capitolo 1
La percezione di mente
1.1 La percezione di mente
La percezione di mente, o mind perception, può essere definita come la capacità di
attribuire mente agli altri e a se stessi e quindi di rappresentarsi internamente gli stati
mentali riferiti a se stessi e agli altri. Le persone riconoscono che la gente intorno a loro
possa pensare, avere intenzioni, fare progetti, e quindi capiscono e valutano il
comportamento degli altri in termini di stati mentali (Frith & Frith 2003; Heidel &
Simmel, 1944; Wimmer & Perner, 1983). L’ascrizione di mente a un soggetto gli
conferisce dei diritti morali, e rende le sue azioni dense di significato. Per questi motivi,
la percezione di mente è da molto tempo uno degli interessi fondamentali delle scienze
cognitive. White (1959) ha suggerito che Il desiderio di capire, prevedere e comportarsi
con competenza nell’ambiente, sia stata la motivazione primaria che ha guidato tutto lo
sviluppo psicologico.
Per comprendere meglio il concetto di percezione di mente è indispensabile
riflettere su cosa sia realmente la percezione. I meccanismi percettivi non sono processi
di registrazione passiva di informazioni convogliate agli organi di senso, ma possono
essere trattati come vere e proprie forme di categorizzazione, processi mediante i quali i
sistemi percettivi selezionano e raggruppano informazioni diverse all’interno di uguali
categorie di rappresentazione e di risposta. Nella percezione, il nostro sistema di
elaborazione passa da una codifica continua dell’informazione a una codifica in
categorie discrete. La percezione non solo implica un atto di categorizzazione, si può
dire che la percezione sia categorizzazione. Messo nei termini di condizioni antecedenti
e susseguenti, noi stimoliamo un organismo con degli input appropriati e questo
risponde assegnando l’input ad una qualche classe di oggetti o eventi. Sulla base di
alcuni attributi definitori, o di criterio nell’input, ossia ciò che solitamente viene
chiamato cue (indizio), avviene una collocazione selettiva dell’input in una categoria
identificatoria piuttosto che in un’altra. La categoria non ha bisogno di essere elaborata:
un suono, un tocco, un dolore, sono alcuni esempi di input categorizzati. L’uso di cue
nell’inferire l’identità categoriale di un oggetto percepito è una componente della
percezione tanto quanto la “sostanza sensoriale” da cui i percetti sono costituiti. Le
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categorie sono dunque delle regole che permettono di classificare oggetti diversi come
equivalenti, danno delle chiavi discriminative per capire la realtà, e possono essere più o
meno accessibili: maggiore è l'accessibilità di una categoria, minore sarà l'input
necessario per attivarla. La nostra mente tende poi a cercare conferme, piuttosto che a
mettere in dubbio la propria capacità percettiva, cercando negli input chiavi di conferma
della categoria più accessibile, e adattando quelli discordanti per confermare la prima
impressione raccolta. La percezione quindi non è oggettiva, ma è un vero e proprio
processo decisionale, influenzato dalla mente umana e dalle categorie che più sono
salienti e accessibili. Ciò che è interessante sulla natura dell’inferenza da cue a identità
nella percezione, è che essa non differisce da altri tipi di inferenze categoriali basate su
attributi definitori. Bruner (Bruner & Brown, 1956) negli anni 50’e 60’ fonda il
movimento del New Look. Il movimento sostiene che l'esperienza del mondo non sia
obiettiva, ma influenzata da una serie di processi di pensiero e di memoria. Le ipotesi
del New Look sono state verificate sperimentalmente in modo originale da Tajfel e
Wilkes, che nel 1963 fecero una ricerca sulla categorizzazione di stimoli non sociali. La
loro ipotesi era che, quando una classificazione è correlata a una dimensione continua,
c'è la tendenza ad esagerare le differenze su quella dimensione, tra gli item che fanno
parte di classi distinte, e a minimizzare queste differenze all'interno delle classi stesse.
Questi due ricercatori ipotizzarono che, quando una classificazione, nei termini di un
attributo diverso da una dimensione fisica, viene sovraimposta ad una serie di stimoli, in
modo che una parte della serie tenda a cadere in una classe e l'altra dentro l'altra classe, i
giudizi delle grandezze fisiche degli stimoli, che cadono nelle due distinte classi,
mostreranno uno slittamento nelle direzioni determinate dalla loro appartenenza
categoriale, se confrontate con giudizi di una serie identica per dimensioni fisiche, ma
senza alcuna classificazione sovraimposta. Essi prevedevano di ottenere un fenomeno di
assimilazione intracategoriale e contrasto intercategoriale, rispetto ai giudizi sulle
semplici grandezze fisiche, e che più saliente e accessibile fosse stata la
categorizzazione, maggiori sarebbero stati i due fenomeni. Esistono ricerche che hanno
validato questa teoria, esse riguardano la categorizzazione di stimoli sociali, e hanno
mostrato come, sovraimporre una categorizzazione sociale a degli stimoli fisici, ne
altera la percezione (Boccato, Yzerbyt, & Corneille, 2007). Nella ricerca di Boccato e
colleghi (2007) come stimolo è stata utilizzata l'illusione Delboeuf, un'illusione ottica
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formata da due immagini con due cerchi concentrici, nella quale si percepiscono i due
cerchi interni come diversi, quando in realtà sono uguali. Ciò avviene perché in una
immagine il cerchio esterno è grande e distante da quello interno, mentre nell'altra vi è
poca differenza tra i due cerchi, si crea un effetto di contrasto nella prima e
assimilazione nella seconda. A questi due cerchi i ricercatori hanno sovraimposto degli
stimoli sociali, e hanno detto ai soggetti che le immagini rappresentavano due grafici
che mettevano a confronto la gentilezza di Tedeschi ed Inglesi e la loro originalità. La
scelta dei gruppi sociali e delle caratteristiche da valutare è stata fatta in base ad uno
studio preparatorio, che vedeva Inglesi e Tedeschi simili nella gentilezza, ma diversi
nell'originalità. Sono state create tre condizioni sperimentali: la gentilezza è stata
associata all'immagine che induce assimilazione, l'originalità all'immagine che induce
contrasto, infine vi era una terza condizione neutra senza categorizzazione sociale degli
stimoli. I risultati hanno confermato l'ipotesi: la categorizzazione sociale sovraimposta
ha modificato la percezione della realtà dei soggetti, aumentando l'effetto dell'illusione
ottica.
Il concetto di percezione di mente ha subito diverse evoluzioni nella storia fino
ad arrivare al significato a cui facciamo riferimento nel presente lavoro. Esso può essere
definito come un’evoluzione del più noto termine mentalizzazione. Affermatosi
ampiamente in psicoterapia negli ultimi tempi, in realtà la mentalizzazione deriva da
precedenti concezioni in ambito psicodinamico. Il vero precursore del concetto di
mentalizzazione fu Wilfred Bion (1962), epigono di Sigmund Freud, che definì
funzione alfa l'attività mentale che, partendo dalle impressioni sensoriali e dalle
emozioni, i cosiddetti elementi beta, o "realtà protomentale", giunge alla formazione del
pensiero, prima come immagine mentale, poi come funzione cognitiva legata alla
parola. Sostanzialmente egli esplicita così i modi con cui la mente arriva alla creazione
di simboli per rappresentare gli stati emotivi. I pensieri, secondo Bion, devono essere
contenuti da un pensatore, che li pensa. La capacità di pensare questi pensieri è quindi la
funzione alfa, che trasforma gli elementi beta in elementi alfa, i quali possono quindi
essere pensati. Bion si è dunque occupato del processo di pensiero in maniera teorica,
in una concezione di pensare il pensiero, che è parte della mentalizzazione. Lo studio
dei processi di mentalizzazione è stato poi introdotto e sviluppato in ambito
psicosomatico: secondo alcuni studi, coloro che sono affetti da malattie psicosomatiche
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tendenzialmente hanno difficoltà nella mentalizzazione degli stati emotivi, tale disturbo
prende il nome di alessitimia, chi ne soffre non è in grado di simbolizzare i conflitti
affettivi, lasciando nel suo corpo, ed in particolare nei cosiddetti "organi-bersaglio", la
contraddizione di “un pensiero che passa all'atto” detta acting-out, cioè un pensiero
incapace di produrre un completo lavoro mentale che si esprima come attività simbolica
concettuale.
Un altro concetto precursore delle mind perception è sicuramente quello che
prende il nome di Teoria della Mente. Grazie al contributo di autori come John Bowlby
e soprattutto Peter Fonagy, costrutti come la teoria dell’attaccamento, la funzione del sé
riflessivo e la metacognizione, pur se relativamente differenti, sono stati in parte
unificati sotto il nome di Teoria della mente. Secondo la definizione di Allen e Fonagy
(2008), la mentalizzazione é la capacità di avere presenti nella propria mente il proprio
stato, i propri desideri e i propri fini quando ci si occupi della propria esperienza; e di
avere presenti nella propria mente lo stato, i desideri e i fini dell’altro, quando di quella
persona si voglia interpretare il comportamento. La mentalizzazione, o funzione
riflessiva, è in questo senso un fenomeno metacognitivo, che ha a che fare con il
significato che attribuiamo alle nostre azioni e alle azioni degli altri: esse devono
necessariamente essere la conseguenza di particolari stati e processi mentali. Si tratta di
una forma di attività mentale immaginativa, essenzialmente preconscia, che percepisce e
interpreta il comportamento umano in termini di stati mentali intenzionali (Allen &
Fonagy, 2008). Mentalizzare significa interpretare implicitamente o esplicitamente le
proprie azioni e quelle degli altri come significative, sulla base di stati mentali
intenzionali come i desideri personali, i bisogni, i sentimenti, le credenze e le
motivazioni (Bateman & Fonagy, 2004). Il focus è dunque la capacità di prestare
attenzione agli stati della mente presenti in noi stessi e negli altri, che Fonagy descrive
sinteticamente con il “tenere in mente la mente” o con il “pensare al pensiero” (Fonagy,
1991). Ciascuno di noi ha la capacità di essere un sé semplice e un sé che fa esperienza
diretta del mondo: per esempio, sente freddo, si sente felice, si sente arrabbiato e così
via. Abbiamo accesso anche a un sé più complesso: un sé che guarda a se stesso, un sé
che prende se stesso come oggetto di pensiero e di riflessione. Si tratta di una capacità
individuale che sta alla base della possibilità dell’uomo di mettersi in relazione con i
suoi simili, di essere cioè un “animale sociale” per dirla in maniera aristotelica (Allen &
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Fonagy, 2008). La percezione di mente è inoltre significativa per regolare le proprie
emozioni attraverso un processo che ha come meta l’affettività mentalizzata, vale a dire
una comprensione vissuta dei propri sentimenti, che includa e superi la consapevolezza
intellettiva in quanto non si limita a un riconoscimento interiore. Ciò implica anche il
rendersi conto che i sentimenti hanno un contesto interpersonale e che, una loro piena
comprensione, richiede che si riesca ad afferrare la rappresentazione che della nostra
mente ha la mente di un’altra persona (Bateman & Fonagy, 2008).
Alcuni autori utilizzarono il termine “Percezione di persona” (Bruner & Tagiuri,
1954; Gilbert, 1998; Tagiuri, 1969) per definire quel processo attraverso il quale le
persone, intuitivamente, spiegano il comportamento altrui per costruirsi impressioni
sugli altri stabili e durature (Epley & Waytz, 2010). Secondo tale concezione le azioni
intenzionali rivelano più aspetti della mente della persona rispetto alle azioni casuali.
Prima di decidere quali stati mentali siano responsabili di una determinata azione,
bisogna stabilire se l’agente abbia o no mente. La ricerca psicologica sulla mind
perception prende in prestito molti dei fondamenti intellettuali dal concetto di
“Percezione di persona”, ma ne differisce per alcuni aspetti. La percezione di mente è
un concetto più ristretto perché si concentra solo sulla mente degli altri, piuttosto che la
più ampia serie di tratti, disposizioni e capacità che le persone potrebbero attribuire ad
altri. Se consideriamo che i tentativi di comprendere la mente degli altri potrebbero
essere organizzati concettualmente in tre domande: se l’agente ha una mente, in che
stato è la sua mente e quali stati della sua mente siano responsabili del suo
comportamento, la ricerca sulla percezione di mente si è focalizzata solo sulle prime due
domande, mentre gran parte degli studi sul concetto di percezione di persona si è
concentrata sui processi di integrazione e correzione che guidano la terza domanda.
Dunque questi due concetti, seppure simili differiscono proprio perché la mind
perception è un processo preattribuzionale, poiché cerca le cause che potrebbero
spiegare o prevedere il comportamento di un altro stabilendo la presenza contro
l’assenza di mente. Come accennato in precedenza, la ricerca sulla percezione di mente
è per certi versi più ampia della ricerca sulla percezione di persona, poiché allarga il
campo di applicazione degli agenti sociali. Gli agenti sociali sono considerati,
nell’ambito della percezione di mente, tutte le entità che interagiscono liberamente con
gli altri, mentre la ricerca della cognizione sociale, tipica della percezione di persona, si