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INTRODUZIONE
L’internazionalizzazione parte dalla scoperta delle opportunità oltre confine, dalla
tenacia di veder espandere le proprie attività, ma anche dall’incessante bisogno di dare
prospettive future alla vita aziendale. Le imprese che perseguono l’imperativo
“dobbiamo crescere”, pronte al grande passo internazionale, hanno bisogno di
perseguire, se non anticipare, le tendenze dei nuovi mercati globali. Tra i principali
candidati di questa sfida ritroviamo anche il nostro paese, che purtroppo presenta una
situazione critica, affetta dal ben noto insieme di problemi del debito pubblico, della
stagnazione della domanda interna e della concentrazione della spesa pubblica. La
produzione manifatturiera ha subito un preoccupante rallentamento, secondo i dati
SACE i volumi sono scesi del 25% rispetto al 2008
1
e con difficoltà si riesce a
mantenere la settima
2
posizione nel nuovo ordine mondiale, caratterizzato dal
progressivo avanzo dei BRICs. Si cerca così di comprendere come cogliere le
opportunità della globalizzazione piuttosto che subirne i duri contraccolpi, pertanto
ricade nella responsabilità degli imprenditori italiani riattivare questo grande motore
dell’economia del paese. In fondo, il nostro sistema dimostra ancora una buona capacità
di tenuta internazionale, perché siamo in grado di soddisfare la crescente richiesta della
domanda estera, in risposta al crollo del PIL e del consumo domestico. È dunque
legittimo porsi il quesito: che cosa possiamo concretamente offrire? Made in Italy. La
letteratura economica l’ha ampiamente studiato per approfondire le caratteristiche che
lo rendono tanto unico al mondo, ne è nata una sintesi definita dalle quattro A:
Automazione-meccanica, Arredo-casa, Abbigliamento-accessori e Agroalimentari.
Senza dubbio si sottende a qualcosa di più della semplice classificazione settoriale. È un
concept che va oltre il marchio d’origine e si propone come la storia del Belpaese, è il
simbolo della creatività italiana radicata nel territorio, dove si sono sedimentate capacità
e conoscenze dell’arte di saper fare. L’incontro tra ingegno e manualità ha messo
insieme poliedriche competenze delineando la nostra cultura industriale. In questo modo
sono nati i distretti, definiti tradizionalmente da Giacomo Beccatini e riproposti da
Stefano Micelli e Giancarlo Corò nel libro I nuovi distretti produttivi (2006), come
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Dati SACE nel Rapporto quando l’Export diventa necessario, 2013.
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Dati del Centro di Studi di Confindustria nel documento Scenari Industriali del 2013, dove si ritrova la classifica del nuovo mondo
industriale per quota percentuale sulla produzione manifatturiera mondiale. L’Italia è preceduta da: Cina, Stati Uniti, Giappone,
Germania, Corea del Sud e India; l’argomento è stato approfondito nel secondo paragrafo il Made in Italy accetta la sfida della
globalizzazione del primo capitolo.
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«un’entità socio-territoriale caratterizzata dalla compresenza attiva, in un’area
territoriale circoscritta, naturalisticamente e storicamente determinata, di una
comunità di persone e di una popolazione di imprese».
L’approfondimento di queste tematiche costituisce la linea di ricerca di questa tesi. Nel
primo capitolo si prenderanno in analisi il cambiamento del nostro sistema
manifatturiero e il progressivo dilatarsi della catena del valore su scala mondiale. Lo
studio delle dinamiche metterà in luce il ruolo di guida gestito dalle piccole e medie
imprese italiane interessate nel fenomeno di riposizionamento verso i mercati a più alto
dinamismo. In linea con queste considerazioni, il secondo capitolo segue il filo logico
del vantaggio demografico della domanda “emergente”, proponendo sottoforma di
analisi SWOT il mercato brasiliano, terra promessa per le imprese italiane. L’economia
brasiliana è ben lontana dalle crisi inflazionistiche e vanta di essere maturata in un solo
decennio, ora rallentata per gli effetti della crisi mondiale. Il vantaggio competitivo
costituito dall’affinità culturale accresciuta dai legami storici di immigrazione italiana si
presenta come un fattore strategico per le PMI pronte all’internazionalizzazione.
Negoziare con un partner a noi affine acquisisce tutt’altro significato, infatti, la stessa
comunicazione viene favorita dalle radici linguistiche latine, che rendono il portoghese
e l’italiano facilmente intercomprensibili. Migliorano così fiducia, interesse, tempi di
risposta, tutti aspetti fondamentali per accrescere le previsioni di un rapporto di lunga
durata. Il trend è di una crescente attenzione all’eccellenza dei nostri manufatti,
occasione per far conoscere il Made in Italy al quinto mercato consumatore al mondo,
vivace e in espansione per una classe media incline al consumismo. Il paese
sudamericano sarà anche la meta destinataria dei grandi eventi: Mondiali di Calcio 2014
e Giochi Olimpici nel 2016. La scelta riflette la maturità raggiunta dal Brasile nel voler
far parte delle grandi potenze democratiche preparate a essere sotto i riflettori
dell’opinione pubblica globale.
Nel capitolo conclusivo, si raccoglieranno delle interviste di imprenditori e manager,
veri protagonisti del processo di internazionalizzazione in Brasile e artefici di creazione
del valore aggiunto per l’Italia, per cui si attribuisce il medesimo merito, nel senso più
stretto per il progetto di ricerca. In particolare dall’incrocio della letteratura allo studio
dei casi aziendali, ne è nata una matrice costruita su due variabili: il settore di
appartenenza e la dimensione aziendale. Saranno presi in considerazione i settori della
meccanica e dell’arredamento, perché considerati di successo in relazione alla domanda
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brasiliana. Invece per quanto riguarda la suddivisione dimensionale, utilizzata per
organizzare formalmente i case study, ci si pone l’obiettivo di fornire una visione
globale al lettore interessato alle varie forme di accesso al mercato.
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CAPITOLO 1: LE STRATEGIE DI INTERNAZIONALIZZAZIONE DEL
MADE IN ITALY
1.1
Il riordino delle catene del valore su scala mondiale
La globalizzazione può essere definita come un processo di espansione generalizzata
dell’attività economica internazionale (Corò G. Tattara G. Volpe M. 2006). Questo
fenomeno d’integrazione inarrestabile sta intensificando gli scambi commerciali,
aumentando gli investimenti all’estero e i flussi migratori, ma anche trasferendo da un
paese all’altro le tecnologie di punta. In altre parole tale coinvolgimento globale, sempre
più ramificato, sta riducendo i confini nazionali attraverso una sempre maggiore
interdipendenza tra le varie società e le loro economie. La globalizzazione quindi ha
aperto a una prospettiva internazionale anche gli interi cicli produttivi, che hanno fatto
nascere il concetto di catena del valore globale. Il Centro di Studi di Confindustria
3
(2013) ne ha scattato così una fotografia:
“La frammentazione delle attività produttive su scala mondiale si svolge lungo le
cosiddette catene globali del valore: ogni nodo è costituito da un’impresa di un settore,
ubicata in un determinato paese; e ogni anello collega due nodi lungo un percorso
verticale che parte dalle materie prime e si conclude con il prodotto finito. Ma gli anelli
agganciati a ogni nodo possono essere molteplici e collegare diversi processi produttivi:
ecco che la catena assume la forma di una ragnatela globale del valore, che presenta
fili più o meno spessi.”
Le strategie aziendali hanno così dilatato nello spazio le filiere produttive, spinte dalla
necessità di ritrovare vantaggi competitivi nei fattori produttivi a basso costo, o
dislocando le attività di ricerca e sviluppo in aree più innovative, o vendendo i prodotti
su larga scala per minimizzare i costi unitari.
La strategia di posizionamento spaziale, più propriamente definita dalla letteratura con il
termine internazionalizzazione, risulta essere quindi la chiave di accesso a tale sfida
globale.
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Il documento a cui si riferimento è Scenari Industriali. L’alto prezzo della crisi per l’Italia. Crescono i paesi che costruiscono le
condizioni per lo sviluppo manifatturiero. Il documento è stato pubblicato dal Centro di Studi di Confindustria a giugno 2013.
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In proposito si rievoca il contributo di Claudio Dematté
4
, che ci ha lasciato un’eccellente
illustrazione:
“l’internazionalizzazione è quel processo di dispiegamento geografico dell’intera
filiera produttiva dell’impresa per cogliere le migliori condizioni nei diversi mercati, sia
quelli di approvvigionamento dei fattori, sia quelli di sbocco dei prodotti, sia quelli dove
meglio si realizza la produzione.”
È intuibile come il processo non si riconduca alla sola ricerca di nuovi mercati di
sbocco, ma prenda avvio da una o più fasi della catena del valore aziendale,
implementando quelle strategie di: resource-seeking, labour-seeking, market-seeking e
knowledge-seeking (Dematté, 2008).
Nella prima fattispecie l’impresa è interessata al rifornimento di risorse (materie prime o
componenti), non disponibili nella nazione d’origine o accessibili a costi inferiori in un
mercato straniero. Se il fattore produttivo in questione è il lavoro, le imprese dislocano
la produzione verso i paesi dove la manodopera è a basso costo, tra le destinazioni
preferite vi sono India, Cina e Romania. Nel terzo caso si propongono i prodotti o i
servizi in un nuovo mercato di sbocco; tra le principali ragioni vi possono essere la
saturazione del mercato interno oppure le richieste di un importatore estero. Un esempio
interessante è offerto dalle piccole imprese manifatturiere italiane, che generalmente si
evolvono da una dimensione locale a una struttura internazionale per gli ordini sollecitati
da intermediari commerciali esteri, in occasione di fiere o esposizioni internazionali.
Man mano che consolidano il loro posizionamento sul mercato estero, accanto
all’attività di vendita internazionalizzano anche attività di assistenza post-vendita,
comunicazione, promozione e marketing.
Per quanto riguarda l’attività di knowledge-seeking si cercano aree geografiche dove
effettuare investimenti in ricerca e sviluppo in grado di aumentare il valore aggiunto
della produzione, l’impresa ricerca quindi l’accesso a fonti di conoscenza per attività
produttive di beni immateriali oppure per l’aumento del know-how aziendale. Ipotesi
solitamente scartata dalle nostre aziende che preferiscono conservare l’eredità del
distretto industriale, mantenendo i centri di ricerca nella località di origine. Un altro tipo
di opportunità d’internazionalizzazione è il reperimento di fonti finanziarie a minor
costo o tali da mantenere il rischio a livelli accettabili. All’interno di questa tipologia
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Ciappei C. Sani A (2006) Strategie di internazionalizzazione e grande distribuzione nel settore dell’abbigliamento: focus sulla
realtà fiorentina, Firenze University Press.
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s’inseriscono anche decisioni di dislocamento dei centri di controllo proprietario e
tassazione per ottenere vantaggi fiscali e di governance.
Figura 1: Il dispiegamento geografico della filiera produttiva.
La frammentazione geografica della filiera produttiva ci ha così allontanato dall’idea di
veder produrre in un’unica fabbrica l’intero processo produttivo dalle materie prime
fino all’output finale e ci ha reso sempre più incerti sulla sua provenienza geografica del
prodotto (Micelli, 2011). I fattori influenzanti che spiegano questa entropia generale si
rinvengono nei contatti sempre più immediati dei mezzi di comunicazione, nei
preponderanti investimenti in logistica, nell’apertura economica dei paesi emergenti,
nella riduzione delle barriere al commercio estero, nella nuova divisione del lavoro su
scala mondiale, nella velocità dei trasporti e nella potenzialità dei sistemi informativi.
In Italia il fenomeno si inserisce anche in quella realtà che più di tutti ritrova le proprie
radici nell’identità locale: il distretto industriale. L’entità socio-territoriale del distretto
espande la rete di relazioni tra i vari operatori economici e le istituzioni nel mercato
globale. Le piccole e medie imprese che ne fanno parte, cercano così di affrontare le
nuove sfide competitive poste da un contesto tecnologico e di mercato in rapido
mutamento, per superare le difficoltà interne del sistema industriale italiano (Signorini,
Omiccioli, 2005). In tal modo si riorganizzano le catene del valore su scala
internazionale: cercando nuovi spazi di mercato, offrendo nuovi prodotti ad alto
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contenuto tecnologico, riorganizzando i processi e abbassando i costi produttivi (Corò,
Micelli 2006). Nei settori tipici dell’industria manifatturiera, la manifestazione
predominante del fenomeno di internazionalizzazione è il dislocamento produttivo verso
i paesi asiatici e dell’Est europeo. L’internazionalizzazione inoltre ha consentito alle
piccole e medie imprese italiane di attenuare le dinamiche competitive a livello locale,
portandole a sviluppare nuove capacità gestionali per affrontare adeguatamente un
contesto competitivo a maggiore complessità. L’espansione della catena del valore si
propone quindi come il volano dell’economia italiana, per la possibilità di fuga dalla
stagnazione economica e a maggior ragione per accrescere le competenze internazionali
delle nostre imprese.
Ci si domanda quindi se le nostre imprese italiane devono seguire un modello one best
way per internazionalizzarsi. La letteratura propone delle linee guida, ma ciò che
consiglia è di fare comunque riferimento alla specificità del caso, guardando alle singole
combinazioni prodotto-mercato-tecnologia che devono essere ottimizzate a livello
globale (Dematté, Perretti, 2008). Inoltre l’attrattività di una nazione sarà influenzata da
una molteplicità fattori di diversa natura: economica, politica, culturale, demografica e
competitiva. Ciò che può semplificare e razionalizzare la scelta è di comprendere quali
siano le opportunità in gioco e i rischi da evitare. L’orientamento sarà verso quelle
nazioni caratterizzate da elevate opportunità e bassi rischi, escludendo tutti gli altri casi,
mentre tra gli estremi si inseriranno fattispecie intermedie che richiederanno valutazioni
ad hoc. Ad ogni modo il processo decisionale di internazionalizzazione richiederà una
laboriosa raccolta di informazioni sulle possibilità che si prospettano, per poi ordinare le
differenti alternative secondo la metodologia del clustering, si procederà nella scelta del
paese-target, seguendo una valida pianificazione strategica si implementerà la sequenza
di ingresso ottimale.