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1. Introduzione
Sono emerse oramai chiare evidenze scientifiche che indicano che l'umanità sta vivendo in
una maniera non sostenibile, consumando le limitate risorse naturali della Terra più
rapidamente di quanto essa sia in grado di rigenerare. Di conseguenza uno sforzo sociale
collettivo per adattare il consumo umano di tali risorse entro un livello di sviluppo
sostenibile, è una questione di capitale importanza per il presente ed il futuro dell'umanità.
Tra le varie attività che contribuiscono ai cambiamenti del pianeta, grande responsabilità è
da attribuire anche a come l'uomo produce e consuma il cibo, per questo è possibile parlare,
oggi, anche di sostenibilità alimentare, ossia di quelle scelte che cercano di individuare le
strade migliori per limitare gli impatti sull’ambiente.
Per mantenere gli elevati livelli di produzione e consumo di cibo che oggi caratterizzano i
paesi industrializzati, come l’Europa e gli Stati Uniti, e che a breve caratterizzeranno anche
paesi emergenti come l’India e la Cina, occorrono molta acqua e suolo per allevare gli
animali e per coltivare i cereali con cui nutrirli. Servono anche molte sostanze chimiche di
sintesi per accelerare i ritmi di produzione sia animale che vegetale, e altrettante di scarto
vengono introdotte nei mari, nei fiumi e nel terreno, alterando l’equilibrio degli ecosistemi e
uccidendo molti organismi viventi. In particolare, il 70% dell’acqua utilizzata sul pianeta è
consumato dalla zootecnia e dall’agricoltura, i cui prodotti servono per la maggior parte a
nutrire gli animali d’allevamento.
Devono essere considerate anche le perdite e gli sprechi lungo la filiera che determinano
enormi perdite di cibo e nutrienti a livello globale creando uno dei più evidenti paradossi
contemporanei.
Quasi la metà dell’impatto ambientale complessivo legato ai processi di lavorazione,
produzione e trasporto di cibo è dovuta al consumo di energia, soprattutto di combustibili
fossili (come il petrolio), che emette sostanze inquinanti nell’ambiente, in particolare in
atmosfera.
Ogni anno scompaiono 17 milioni di ettari di foreste tropicali per fare spazio a coltivazioni e
a pascoli. Inoltre, la crescita demografica rende sempre più necessari nuovi suoli su cui
coltivare per nutrire l’uomo, ma l’uso dei terreni per coltivazioni destinate all’alimentazione
animale riduce ulteriormente la possibilità che tutti gli uomini sul pianeta abbiano cibo per
sopravvivere e per vivere.
Infine, vi sono aspetti che influiscono negativamente sulle persone che lavorano per
produrre, trasformare e confezionare cibo, sulla loro salute e sul loro diritto alla vita (Eat:ng,
2010).
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In realtà negli ultimi venti anni che ci separano dalla prima Conferenza di Rio del 1992, è
possibile dire che qualcosa di buono è stato, ad esempio l’attuazione dell’Agenda 21 o
l’adozione della Convenzione sul Clima e quella sulla Biodiversità. Ma si deve anche essere
consapevoli che le misure adottate, e il modo in cui ancora oggi vengono prese le decisioni
in materia di sviluppo, non consentono di essere realmente ottimisti, né ci offrono la certezza
che il percorso intrapreso vada a buon fine.
Va detto che i problemi da risolvere sono davvero complessi – conciliare il benessere di una
popolazione in continua crescita con i limiti oggettivi del pianeta e la scarsità delle risorse;
eliminare i paradossi che vedono da un lato un miliardo di persone affamate e dall’altro un
numero altrettanto grande d’individui che si ammalano per eccesso di alimentazione; trovare
fonti alternative di energia che non impattino sull’uso agricolo dei suoli o sulle emissioni di
CO
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– e non è davvero facile trovare soluzioni efficaci e attuabili. Ecco perché è sempre più
necessario continuare a lavorare sul piano della ricerca e del confronto, mettendo in sinergia
tutte le capacità intellettuali a disposizione (Barilla CFN, 2012).
In questa situazione si sta rendendo sempre più necessario l’individuazione di nuove specie
animali che possano essere allevate in modo da intaccare il meno possibile l’ecosistema
Terra e contemporaneamente che abbiano un buon valore nutrizionale. Nel mirino della
ricerca, in quest’ambito, attualmente troviamo gli insetti.
Importanti enti come la FAO si sono interessati al problema, poiché è possibile considerare
il consumo di questi animali una risorsa alimentare capace di arginare il problema della
sottoalimentazione per il loro alto valore nutritivo, equiparabile a quello della carne e del
pesce: i bruchi essiccati contengono, infatti, oltre il 50% di proteine, il 17% di glucidi e il
15% di lipidi. Recenti studi hanno stimato che l’efficienza di conversione del cibo dei grilli è
più di cinque volte superiore a quella dei manzi.
Tramite l’analisi di diversi insetti commestibili consumati si è conclusi che forniscono
proteine di alta qualità e integrano la dieta in modo significativo con minerali e vitamine che
sono spesso scarsi nei paesi in via di sviluppo, il tutto in maniera più biocompatile rispetto
all’allevamento tradizionale, basti pensare che è stato stimato, ad esempio che l'allevamento
di locuste, grilli e vermi, emetterebbe un quantitativo minore di 10 volte di metano, di circa
300 volte minore di protossido di azoto e ammoniaca.
Ma esiste un ostacolo, mentre una grande parte della popolazione mondiale ne ha capito da
anni il valore nutrizionale: in Thailandia ne mangiano di vari tipi, le vespe in Giappone sono
considerate una squisitezza e in Africa si consumano regolarmente bruchi e locuste, in
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Occidente sono visti come ospiti indesiderati e molesti e l’idea di mangiarli può apparire
inusuale, se non addirittura disgustosa.
Data la situazione, la presente indagine si è proposta approfondire e tentare definire le
possibili motivazioni per il rifiuto ad alimentarsi di questi animali, presente nella
popolazione occidentale.
Per la sua conduzione è stato necessario innanzitutto definire il problema della sostenibilità
alimentare, ponendo l’accento sulle maggiori problematiche ambientali relative
all’allevamento degli animali domestici e alla produzione di vegetali; e contemporaneamente
facendo notare i più importanti vantaggi tratti dal consumo d’insetti, sia dal punto di vista
nutrizionale e salutistico, che strettamente ambientale.
Indispensabile è stato effettuare una ricerca bibliografica tesa a delineare teorie che
spiegassero il comportamento del consumatore e/o le possibili motivazioni che regolano il
processo like/dislike, individuate soprattutto intorno al lavoro dello psicologo Paul Rozin.
Egli caratterizza il meccanismo di scelta dividendolo in 11 dimensioni fondamentali che lo
descrivono. Per ognuna di queste sono state individuate delle espressioni che permettessero
di carpire l’intensità dell’influenza da loro esercitata sul processo di preferenza finale.
Il set di voci completo è poi stato sottoposto al giudizio di 100 giudici, tutti professori
universitari esercitanti presso l’Università Di Studi di Napoli “L’Orientale”, dipartimento di
Studi Asiatici; e l’Università “Federico II”, dipartimento di Agraria, per una verifica di
coerenza logica seguita da eventuale correzione degli item.
In seguito è stato messo a punto un questionario contenente domande di natura socio-
demografica, le espressioni messe a punto dallo psicologo Schwartz per cogliere le
caratteristiche caratteriali e il set di item che tentano di spiegare il costrutto.
Il test è stato compiuto su 351 persone di età compresa tra i 18 e i 30 anni, tutti iscritti
all’Università “Federico II”, dipartimenti di Agraria e Sociologia; e all’Università degli
Studi di Napoli “L’Orientale”.
I dati ottenuti sono stati raccolti e sottoposti ad analisi tramite il sistema di valutazione
sommata o scala di Likert, utile per la valutazione degli atteggiamenti, delle opinioni e delle
abitudini di vita.
Coerentemente con il metodo di scaling scelto è stata compiuta l’analisi degli elementi per
valutarne il grado di coerenza interna complessivo tramite il calcolo del coefficiente Alfa;
avente lo scopo di selezionare gli item.
Più tardi sono stati fatti controlli sulla validità tramite lo strumento dell’analisi fattoriale,
grazie alla quale si sono costruite le scale.
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Queste ultime sono state oggetto dell’analisi per la valutazione della correlazione inter-item,
e della regressione, per stimare il valore atteso condizionato di una variabile dipendente, Y,
dati i valori di altre variabili indipendenti, X
n,
definite covariate. In entrambi i casi è stato
necessario definire diverse combinazioni di variabili dipendenti, indipendenti e covariate,
per sviluppare al meglio i risultati.
I software utilizzati a supporto sono stati Microsoft Excel®, utilizzato in una prima
elaborazione dei dati, e il software IBM SPSS®, per le analisi successive.
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Considerazioni sulla Sostenibilità
La sostenibilità è la caratteristica di un processo o di uno stato che può essere mantenuto a
un certo livello indefinitamente.
In anni recenti questo concetto è stato applicato più specificamente agli organismi viventi e
ai loro ecosistemi. Con riferimento alla società tale termine indica un equilibrio fra il
soddisfacimento delle esigenze presenti senza compromettere la possibilità delle future
generazioni di sopperire alle proprie.
Il termine trae la sua origine dall'ecologia, dove indica la capacità di un ecosistema di
mantenere processi ecologici, fini, biodiversità e produttività nel futuro. Perché un processo
sia sostenibile, esso deve utilizzare le risorse naturali a un ritmo tale che esse possano essere
rigenerate naturalmente.
Nel suo impiego ambientale, si riferisce alla potenziale longevità di un sistema di supporto
per la vita umana, come il clima del pianeta, il sistema agricolo, industriale, forestale, della
pesca e delle comunità umane che in genere dipendono da questi. In particolare tale
longevità è messa in relazione con l'influenza che l'attività antropica esercita sui sistemi
stessi.
Questo concetto è stato recentemente applicato al settore della produzione alimentare che ha
stimolato l’interesse in ambito sanitario, ambientale, sociale ed etico data la sua
insostenibilità attuale documentata da numerosi dati, tra i quali: l'alto contributo del sistema
alimentare al riscaldamento globale, il sistema alimentare mondiale, infatti, è responsabile di
quasi il 50% delle emissioni mondiali totali di gas serra (Grain, 2009 ), i rifiuti alimentari e
la perdita enorme che ne consegue, cioè il cibo che viene scartato o non consumato
equivalente a 1,3 miliardi di tonnellate, circa un terzo della produzione globale, l'emergenza
sanitaria di fame e l'obesità, con più di un miliardo di persone nel mondo che soffrono la
fame e circa lo stesso numero che sono in sovrappeso.
L’obesità: un male ambientale
Partendo da questi presupposti è quindi possibile tracciare il costo sostenuto dall’ambiente a,
causa della suddetta situazione, tra cui la presenza di quella che, con buona
approssimazione, potrebbe diventare una della malattie più diffuse al mondo, cioè l'obesità.
Essa è chiaramente in contrasto con la sostenibilità dei consumi alimentari. È stato
dimostrato che ha impatto negativo sull'ambiente, infatti, una persona obesa produce una
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tonnellata in più di emissioni di anidride carbonica rispetto a una persona magra. Edwards e
Roberts (2009) hanno stimato che l'impatto sulle emissioni di gas a effetto serra aumenta
nelle popolazioni ad alto indice di massa corporea (BMI). Nello specifico essi hanno
scoperto che, a fronte di un valore normale di BMI, una popolazione di cui il 40% obeso
richiede il 19% di energia in più. Si stima che le emissioni provenienti dalla maggiore
produzione di alimenti grassosi o che, in generale, contribuiscono maggiormente
all’aumento di peso, sono fra 0,4 Giga (GT) e 1,0 GT di equivalenti di biossido di carbonio
all'anno.
Anche se l'obesità è un fenomeno multidimensionale, influenzato da molti fattori, esso
deriva direttamente dalla decisione di consumare, per cui il sistema più semplice
sembrerebbe quello di stimolare il passaggio a una dieta sana dando il maggior numero
d’informazioni sull'impatto negativo sulla salute e di proporre delle scelte più sane, ma è
stato documentato che questo non accade spesso, il motivo è riconducibile a tre fattori: la
Knowledge-to-action gap, il Behavior-impact-gap e “l'effetto rimbalzo”.
La Knowledge-to-action gap sostiene che la conoscenza e la consapevolezza dei problemi di
salute non può essere sufficiente a modificare il comportamento e gli stili di vita. Questo
divario dipende principalmente da quattro fattori. In primo luogo, potrebbero non esserci
adeguate alternative, queste potrebbero essere poco attraenti, a causa di gusti dominanti,
norme sociali, alto costo; o potrebbero richiedere uno "sforzo di acquisto" alto (cioè difficili
da raggiungere). In secondo luogo, i consumatori potrebbero non essere adeguatamente
motivati a cambiare le loro abitudini. A questo proposito bisogna tener presente che le
decisioni di consumo sono influenzate da una moltitudine di valori e criteri in concorrenza
con gli obiettivi di salute. Esse sono fortemente influenzate dalle condizioni socio-
economiche, che portano ad un conflitto tra i diversi atteggiamenti e valori personali
(Gastersleben et al, 2002). In terzo luogo può esserci una confusione discorsiva nella lotta
per migliori pratiche di consumo (Markkula, Moisander, 2012). Quando i quadri informativi
e socio-culturali sono troppo complessi e intrisi di opinioni contrastanti e giudizi di valore, i
consumatori tendono ad attaccarsi alle abitudini dominanti, non essendo in grado di
apportare modifiche radicali. Infine vi è il fenomeno dell’akrasia, vale a dire una debolezza
di volontà che spinge a "mangiare il cibo sbagliato", anche se è in contrasto con la loro
funzione di utilità (Mann, 2008).
La Behavior-impact-gap si ha ogni volta che viene raggiunta la modifica comportamentale,
ma l'effetto osservato sul peso e la salute è minore o mancante. In altre parole: ", anche
quando si hanno i cambiamenti di comportamento necessari, i risultati sono meno
soddisfacenti delle previsioni; poiché ci sono contraddizioni tra il comportamento dei