II
Tale forza-lavoro "proprio per i suoi mai recisi rapporti con l'agricoltura non
era disponibile a lasciarsi coinvolgere in iniziative industriali che avessero
implicato il suo sradicamento dalla comunità locale (podere, famiglia, istituzioni),
mentre poteva accettare condizioni di lavoro più dure e salari più bassi" (
3
)
integrando il reddito all'interno della famiglia agricola.
L'aver individuato i precursori del modello veneto di sviluppo nel pensiero e
nell'azione dei protagonisti dell'industrializzazione regionale di fine Ottocento, e
nel contesto sociale e culturale in cui si muovevano in stretto accordo con il
movimento cattolico, ha rappresentato un contributo indispensabile per
comprendere le caratteristiche dello sviluppo della regione. Infatti il ruolo della
sub-cultura "bianca", stratificatasi nel corso degli anni come cemento sociale
nell'identificazione regionale e nell'attenuazione delle conflittualità, ha mostrato
nel Veneto la sua influenza con il costituirsi di numerose iniziative bancarie,
assicurative e di cooperazione, nonché di rappresentanza politica, di matrice
cattolica. Di tali economie esterne ha beneficiato lo sviluppo dell'imprenditoria
veneta.
Nel presente studio si è cercato di analizzare queste dinamiche e
l'interazione tra impresa e manodopera, prendendo in esame il settore
calzaturiero nel veronese.
Nel primo capitolo, partendo da una descrizione di due realtà complementari
come la terza Italia ed il modello veneto, derivate l'una da studi sociologici, l'altra
da studi storici, si è cercato di cogliere le caratteristiche proprie della zona in cui
si è insediata l'impresa che verrà trattata nell'indagine. Con un andamento
centripeto, nel trattare il concetto di terza Italia si sono individuate le coordinate
spaziali oltre che economico-sociali, per la descrizione di un'area ad economia
periferica. In essa si sono evidenziati i ruoli della piccola impresa e del
decentramento della produzione, cercando di metterli in relazione con il
particolare tipo di società caratterizzato dalla presenza di una sub-cultura
predominante (bianca nel Veneto, rossa in Toscana ed Emilia-Romagna). Inoltre
si è sottolineato l'apporto dato all'elasticità del sistema da parte del mondo
mezzadrile, tipico di queste zone, e che ha permesso di contenere i contraccolpi
sociali del processo di industrializzazione e di svolgere una funzione di scuola di
impresa per il grado di responsabilità e di know-how che esso comporta. Questi
elementi hanno consentito la diffusione nel territorio di imprese di piccole
dimensioni, inserite nel contesto territoriale e sociale della zona. Un'ulteriore
specializzazione del settore è rappresentata dall'organizzazione delle aree di
piccola impresa in distretti industriali. In essi le imprese, usufruendo di una rete
3
) F.Belussi, I sistemi di piccole imprese, in AA.VV., Economia di piccola impresa e trasformazioni
sociali. Interventi sulla ricerca coordinata da A.Bagnasco e C.Trigilia , in "Oltre il ponte", 1985, n.10,
pp.108-109.
III
di servizi e di economie esterne comuni, riescono a mantenersi competitive, pur
mantenendo la piccola dimensione.
Restringendo il campo alla regione Veneto, oltre a ricercare una "specificità"
veneta che ci permettesse di individuare un particolare modello di sviluppo, si
sono evidenziate le coordinate temporali della ricerca, per dare uno spessore
storico ad un modello che deriva dall'"industrializzazione regolata" perseguita in
anni cruciali della storia regionale. L'azione di moderazione dei contrasti, causati
dall'annessione al Regno d'Italia e dal processo di modernizzazione, è giunta fino
ai nostri giorni determinando le caratteristiche della società, dell'economia e della
politica veneta.
Nel secondo capitolo il discorso si è focalizzato su un settore tipico delle
aree ad economia periferica: il settore calzaturiero. Si tratta infatti di una
lavorazione labour-intensive, organizzata in piccole imprese che garantiscono
una elevata elasticità nell'utilizzo della forza-lavoro, adeguandola
all'organizzazione del ciclo produttivo.
La bassa capitalizzazione e il basso livello di tecnologia hanno permesso
una diffusione delle imprese per processi imitativi o di espulsione di fasi di
lavorazione. Ciò è avvenuto in particolare nelle aree di primo insediamento, cioè
in zone in cui progressivamente si è sviluppato un know-how diffuso, che ha
avuto come conseguenza il costituirsi di alcune zone specializzate nella
produzione: le aree-sistema.
Del calzaturiero italiano si è tracciata la storia a partire dai primi
insediamenti a carattere industriale di fine Ottocento, in quella che si è definita
fase preistorica, e se ne è seguito lo sviluppo con l'ausilio di tabelle e grafici da
cui si deduce come l'Italia sia venuta acquistando un posto rilevante nella
divisione internazionale del lavoro. Di ciò si è cercata una risposta nel fatto che
l'Italia, Paese late-comer nel processo di industrializzazione, ha potuto imporsi in
una produzione "matura", i cui costi sono rappresentati principalmente dalla
manodopera. Quindi sono presenti vantaggi derivati da fattori economici, ma
anche sociali, culturali e storici, come si è potuto vedere descrivendo i caratteri
delle aree ad economia periferica.
Con la "fase storica", dagli anni Cinquanta in poi, si assiste ad un vero e
proprio boom del settore che, abbinando i vantaggi derivati dai bassi costi di
produzione alla forte richiesta delle esportazioni, ha reso l'Italia paese leader
nelle calzature. Tale situazione troverà riscontro nell'indagine sull'insediamento e
sul forte sviluppo dell'impresa campione analizzata nel terzo capitolo. Dopo anni
di nascita di nuovi insediamenti e di una progressiva diminuzione delle
dimensioni delle imprese, con gli anni '70 si assiste al processo di
disintegrazione verticale dell'impresa. Questo fenomeno nel calzaturiero risulta
IV
più consistente rispetto ad altri settori, essendo reso possibile, oltre che dal
basso livello tecnologico richiesto che permette basse barriere di entrata nella
produzione, soprattutto dal particolare ciclo di lavorazione suddiviso in fasi
distinte. Infatti il processo produttivo può essere assimilato ad un processo di
assemblaggio. L'espulsione di alcune fasi di lavorazione ha costituito una
strategia di decentramento verticale della produzione che ha portato al
consolidarsi del settore in alcune zone. La formazione dei distretti calzaturieri
rappresenta, quindi, l'evoluzione del sistema, in cui imprese di piccole dimensioni
possono attuare economie di scala a livello di distretto, non essendo possibili a
livello di singole imprese. In tal modo si è reso più competitivo il settore,
rendendo più efficace ogni singola fase di lavorazione.
Infine, si è cercata una risposta alla constatazione del fatto che tra gli studi
sui distretti calzaturieri non compariva l'area veronese, nonostante l'elevata
importanza della zona in termini di produzione. Questa "dimenticanza" ci ha
posto in uno stato di maggior attenzione anche perché, nel frattempo,
l'elaborazione dei dati dell'impresa campione ci confermava che a Verona la
realtà calzaturiera aveva seguito una strada a sè.
Si scopriva infatti, sia attraverso altri studi (
4
), sia empiricamente nel caso in
questione, che la struttura del calzaturiero veronese poco aveva a vedere con la
logica che ci si sarebbe aspettata, essendo presenti nella zona imprese medio-
grandi verticalmente integrate che lavoravano su grandi serie. Il decentramento,
quando è avvenuto, non ha dato origine al libero mercato della sub-fornitura, ma
era teso a riorganizzare le varie imprese di fase sotto la direzione di poche
imprese capofila, riportando così la lavorazione a livello di una produzione di
scala di un prodotto poco diversificato, di bassa qualità e che si rivolgeva alle
grandi commesse di importatori stranieri.
Lo sviluppo del settore non è avvenuto per un naturale processo di
germinazione di unità precedenti in una zona di tradizione calzaturiera, ma è stato
guidato dal mercato estero che, dagli anni '50, imponeva sempre maggiori ritmi
produttivi.
La posizione geografica, lungo la direttrice per il Brennero, e la presenza di
un vasto bacino di manodopera agricola, hanno determinato il rapido sviluppo
del settore pilotato da grandi importatori stranieri. Pertanto il distretto veronese
si configura come un distretto "atipico", avendo mantenuto un carattere
accentrato. Dal punto di vista teorico, la causa di questa condizione va ricercata
nel fatto che a Verona il settore ha avuto uno sviluppo recente e soprattutto
eterodiretto, ossia non per soddisfare obiettivi propri della comunità locale,
evolvendosi da forme di artigianato, ma per soddisfare unicamente la domanda
del mercato. Da qui la contrapposizione fra uno sviluppo verso la rete di imprese
(il distretto industriale), proprio delle zone di più antico insediamento, e le
4
) cfr. P.Gurisatti (a cura di), Il settore calzaturiero veronese, C.C.I.A.A., Verona, 1990.
V
imprese-rete, in cui poche aziende ripercorrono, nell'organizzare il lavoro delle
aziende di fase, l'organizzazione gerarchica propria delle grandi imprese
verticalmente integrate.
Pertanto nel territorio veronese si insedia una lavorazione tipica delle aree
terze, beneficiando di tutti i vantaggi propri delle economie esterne e delle
caratteristiche ritrovate nel modello veneto (e cioè una stretta aderenza con il
territorio agricolo che rende flessibile l'utilizzo della manodopera, una società che
ha sviluppato un maggiore senso di identità ed una minore conflittualità e un
buon grado di rappresentanza politica), ma che, se di decentramento si può
parlare, questo è del tipo accentratore e gerarchico tipico dell'impresa-rete.
E' vero però, che proprio il settore calzaturiero è uno di quelli più
caratterizzati da un decentramento produttivo sui generis: il lavoro a domicilio. Di
questo non si possiedono dati certi, ma possiamo tenere valido il dato della
ricerca di Frigeni e Tousijn del 1974 che stima il lavoro a domicilio nella zona che
si estende da Brescia a Venezia attorno all'11% del totale dei lavoratori coinvolti
nel settore, sia in fabbrica che fuori (
5
).
In sostanza, appare lecito affermare che il settore calzaturiero a Verona è il
risultato dell'"occasionalità" e non di una cultura presente sul territorio. Tale
"occasionalità", derivata da fattori contingenti come la forte espansione delle
esportazioni negli anni '50 e la trasformazione della società agricola nella zona,
ha permesso il rapido diffondersi del settore senza però che esso entrasse nella
cultura locale e, quindi, senza dar vita ad un prodotto fortemente vissuto come
proprio e di qualità medio-alta. Il confronto con altre realtà, come ad esempio la
Riviera del Brenta, denota l'assenza nel veronese sia di un indotto tecnico,
rappresentato da fabbriche di macchinari, che culturale, costituito da società
specializzate nella modellistica e dalle scuole di design.
E' stato quindi interessante cercare di capire se all'occasionalità che ha
determinato l'insediamento in loco corrisponda un'occasionalità da parte della
manodopera, che "usa" la fabbrica per determinati periodi, ma che esce presto da
una produzione che non sente sua.
Nel terzo capitolo l'indagine sul territorio, svolta analizzando i libri matricola
di un'impresa calzaturiera di primaria importanza, il "Maria Pia" di Bussolengo, ci
ha fornito una risposta sul modo di vivere la lavorazione da parte della
manodopera. Il trovarci di fronte ad un'impresa che fin dai primi anni ha avuto
una crescita dimensionale sostenuta tanto da raggiungere in soli sei anni i 150
addetti (nel 1960) arrivando nel 1976 a quota 712, ci ha portato a rivedere quanto
ci si sarebbe aspettato da una lavorazione tradizionale in una zona di piccola
5
) R.Frigeni-W.Tousijn, L'industria delle calzature in Italia, Bologna, Il Mulino, 1976, pp.77-248.
VI
impresa. Nell'indagine si è trovata una conferma della "atipicità" del distretto
veronese. Tale azienda, nata per cogliere l'occasione delle esportazioni degli anni
Cinquanta, ha acquisito dei caratteri che divergono dal calzaturiero italiano,
assomigliando piuttosto alla struttura del settore in Germania (che tra l'altro ha
rappresentato uno dei suoi principali mercati). Non si può certo parlare, in questo
caso, di piccola impresa ed anche il discorso sui distretti industriali pare
vacillare, rimanendo essa un'impresa verticalmente integrata che non partecipa al
fenomeno del decentramento produttivo. Sembrerebbe quindi che la zona di
Bussolengo sia rivolta più che al Veneto, all'area lombarda come organizzazione
ed alla Germania come mercato. Si deve anche tenere conto che spesso il
mercato di sbocco del prodotto risulta determinante nel definire il tipo di
lavorazione e, quindi, anche la struttura produttiva. Ovviamente questo non è
sufficiente per giustificare il carattere del settore nella zona: bisogna anche
considerare la disponibilità di manodopera a basso costo legata forme di
economia agricola che permettono di accettare anche una retribuzione inferiore
pur di rimanere sul posto. A lungo andare la storia del calzaturificio "Maria Pia",
avendo impostato la lavorazione sulla grande dimensione e le grandi commesse
estere, sembra dare ragione ai sostenitori del modello veneto e di quel "small is
beautiful" imperante negli anni Settanta. La perdita di competitività e la crisi di
tutto il settore ne hanno decretato la chiusura nel 1993, prima che fosse possibile
attuare una ristrutturazione.
Dalla storia complessiva dell'impresa si ricava l'impressione di una certa
difficoltà a reperire la manodopera necessaria. Ciò è dimostrato anche dalle
agevolazioni messe in atto tramite i mezzi di trasporto aziendale e dallo
spostamento della produzione a Cavaion, una zona agricola all'epoca non ancora
"rivalorizzata" industrialmente.
A ben vedere infatti, si ricava l'idea, dal punto di vista della manodopera, di
una certa riluttanza verso l'ingresso nella lavorazione. Dall'analisi della
composizione della forza lavoro per sesso, età e domicilio si rileva la prevalenza
del lavoro femminile, almeno fino agli anni'70, un'età media bassa, e il prevalere
della manodopera proveniente da zone agricole. La bassa permanenza in fabbrica
e l'alto turn-over, inoltre, portano a supporre un utilizzo di essa per brevi periodi,
senza che si sviluppi una vera professionalità. Pare, quindi, che il calzaturiero
nella zona non sia vissuto come un inserimento in un contesto culturale
socialmente apprezzabile, ma piuttosto che al dato dell'"occasionalità"
dell'insediamento corrisponda un'"occasionalità" operaia, che a suo modo
utilizza l'opportunità rappresentata dalla fabbrica. In particolare, i lavoratori
instabili (ossia quelli con permanenza inferiore all'anno) dimostrano come in certi
periodi dell'anno la manodopera libera da lavori agricoli si presenti alla fabbrica
per rimanervi per alcuni mesi. Si è quindi visto come la stagionalità propria di
questo calzaturificio, discostandosi dalla stagionalità del settore, venga a
coincidere con le esigenze agricole del territorio. Ancora una volta, come nel
caso del reclutamento e del trasporto della manodopera, sembra di poter
VII
affermare che è stata l'impresa ad adattarsi ai ritmi ed ai modi di vita locali, e non
viceversa.
Sembra questo un carattere da porre in rilievo: se di un modello veneto si
può ancora parlare, forse questo lo si ritrova nella adattabilità della lavorazione
alla stagionalità agricola della zona e nel decentramento, attuato, anziché a livello
di luogo di produzione, nell'ampiezza dei bacini di reclutamento operaio. Il
risultato complessivamente non sembra cambiare: il legame mantenuto con la
terra rende l'azienda più elastica nella gestione della manodopera anche se, in
questo caso, sembra essere questa a subire le variazioni di disponibilità di essa.
A questo punto si può supporre che a dettare legge nel regolare i rapporti
con il nuovo insediamento sia la realtà culturale locale che, non avendo
assimilato nel tempo i modi del calzaturiero passando attraverso lo stadio
dell'artigianato diffuso, è rimasta legata ai modi e ai tempi propri. La realtà
calzaturiera, quindi, non è vissuta come estranea, ma filtrata attraverso gli schemi
di divisione del lavoro che la precedevano.
La coincidenza che il calzaturiero a Bussolengo si insedi nel momento di
chiusura delle filande locali e del disuso della bachicoltura come forma di
lavorazione extra-agricola affidata alla donna all'interno della casa, induce ad
ipotizzare una sorta di sostituzione con una lavorazione estranea al sentire
locale, ma che ben si adatta a supplire alla fine della filatura della seta. La
prevalenza femminile in fabbrica e la presenza del lavoro a domicilio confortano
tale ipotesi. L'andamento delle assunzioni, elevato nei mesi invernali, costituisce
una prova dell'"uso" che nella zona viene fatto della fabbrica, destinandole un
ruolo subalterno rispetto all'agricoltura.
In questo incontro ed adattamento fra le esigenze delle lavorazioni in
fabbrica e le esigenze anche culturali della realtà in cui si trova ad operare, è
possibile ritrovare un carattere proprio dell'economia periferica: la stretta
aderenza con il substrato sociale ed il mantenimento dei legami con la terra che
rendono elastica l'organizzazione della manodopera.
Sembra, quindi, che nell'incontro-scontro fra agricoltura e industria negli
anni '50 e '60, il settore calzaturiero a Bussolengo abbia permesso una specie di
simbiosi produttiva che ha reso, se non “dolce”, comunque meno amara la
transizione verso la modernità
6
.
6
E.Franzina, La transizione dolce. Storie del Veneto tra ‘800 e ‘900, Verona, Cierre, 1990.
1
Capitolo 1
Il fatto che, in un periodo di recessione economica, l'interesse della stampa
torni a guardare alla piccola impresa come l'unica struttura produttiva in grado di
attraversare e di resistere alla crisi del capitale occidentale, pone in evidenza la
fecondità degli studi effettuati negli anni Settanta da storici e sociologi sul
"modello veneto di sviluppo" e sulle "aree terze". Procedendo con metodologia
diversa e non sempre assimilabile, gli studiosi delle due discipline sono giunti a
riconsiderare il ruolo di una realtà produttiva fino ad allora erroneamente
considerata marginale e assimilata alla categoria del sottosviluppo.
"Nonostante la grave crisi economica, la crisi istituzionale, le stragi di mafia
e le bocciature da parte di organismi internazionali (dalla Moody's al Fondo
Monetario) che hanno caratterizzato il 1992, il tessuto economico dell'azienda-
Italia è ancora integro, soprattutto grazie ai vari "Signor Brambilla" che popolano
la struttura produttiva del Paese. Torna alla ribalta il "piccolo è bello" che durante
la crisi petrolifera salvò l'Italia?" (1).
L'interrogativo, dovuto alla flessibilità dell'economia di piccola impresa, si
pone dopo anni in cui, in vista dell'appuntamento europeo del gennaio 1993,
l'imperativo categorico di ogni struttura finanziaria o produttiva era in ogni
settore quello di riunirsi, associarsi in cartelli finanziari forti e ben articolati, in
grado di competere con le società d'oltralpe nell'agone del mercato senza
frontiere.
L'ansia di arrivare forti e compatti ed un atavico senso di inadeguatezza nei
confronti dei colossi economici stranieri, hanno fatto dimenticare quel "small is
beautiful" che era stato bandiera negli anni Settanta della scoperta del miracolo
nel miracolo italiano. Il boom economico non era consistito solo nello sviluppo
del grande capitale, nell'insediamento di grandi poli industriali e nell'allargamento
parossistico del mercato, ma anche in una miriade di piccole-medie imprese
localizzate nelle regioni di centro e nord-est, mimetizzate nel paesaggio e nella
cultura tradizionale.
Affrontare il dibattito attorno al modello veneto di sviluppo, nel suo nascere
come toponimo, nel suo definirsi nel dibattito culturale, fino alla sua definitiva
accettazione e talvolta travisamento nei topoi mass-mediologici, ha rappresentato
un riconoscimento del suo aspetto più peculiare e innovativo: la continuità con
l'industrializzazione "regolata" iniziata e promossa nel secolo scorso, lo sviluppo
"senza fratture" e in aderenza con il substrato sociale e culturale.
1
) R.Petrini, E i Brambilla tengono duro, in "La Repubblica", 8 maggio 1993.
2
Il dibattito storiografico ha posto infatti rimedio ad una lacuna che non
poteva essere trascinata a lungo. Spesso la questione del boom economico è
stata mal posta in quanto con tale termine si intendeva uno sviluppo che nasceva
dal nulla, facendo tabula rasa delle esperienze precedenti. Complice la rimozione
dell'esperienza fascista, si è voluto sottolineare troppo la straordinarietà della
rapida industrializzazione di un Paese che usciva sconfitto da una guerra e da un
regime. Non si sono così colte le radici profonde di tutta la struttura sociale ed
economica che già nel secondo ottocento aveva posto le basi di un ben preciso
modello di sviluppo. Inoltre anche gli scritti di storia locale e di storia d'impresa,
spesso a carattere agiografico, nel sottolineare l'intraprendenza del self-made
man, in questo sogno americano di casa nostra, hanno occultato ogni
prolegomena allo sviluppo.
La rivalutazione delle aree ad economia diffusa, rivoluzionaria per il
rovesciamento di prospettiva operato, trovò immediato riscontro nella
congiuntura degli anni Settanta quando "gli elementi riconosciuti
tradizionalmente come fattori strutturali di debolezza per l'economia veneta
(scarsa presenza dell'impresa medio-grande, specializzazione in produzioni
tradizionali, bassi rapporti capitale-prodotto e capitale-addetto, prevalenza di
tecnologie intermedie, assenza di concentrazioni metropolitane) si sono
paradossalmente trasformati in altrettanti punti di forza in una situazione socio-
economica complessiva che ha favorito, di fatto, l'emergere dell'intermedio" (2).
Ne consegue pertanto il riconoscimento alla piccola dimensione di un nuovo
status in grado di conseguire risultati economicamente apprezzabili anche in
settori tradizionali purché modernizzati nella tecnologia, nelle tecniche di
gestione e di commercializzazione.
All'affermazione della legittimità dell'esistenza di un modello veneto di
sviluppo si aggiunge pertanto la rivendicazione del ruolo nazionale delle
economie periferiche in grado di svolgere una funzione strategica nell'allentare i
vincoli dei conti con l'estero, procurare valuta pregiata, risolvere problemi
occupazionali, produrre un flusso di risorse correnti che devono poi servire a
risanare quei comparti moderni, impantanatisi negli ultimi anni (3). Il vedere
nell'economia periferica uno strumento al servizio della grande impresa in
difficoltà nulla toglie all'esplicito riconoscimento del dinamismo della "nuova"
realtà, anche se pone piuttosto qualche ombra riguardo al ruolo da riservarle in
futuro.
Dopo aver rivendicato al modello l'esistenza e la capacità di rispecchiare la
realtà economica regionale, allo scopo di evitare travisamenti ed indebite
trasposizioni ad altre realtà da parte soprattutto della stampa (come
nell'emblematico caso de Il modello veneto è un prodotto che ormai si esporta,
apparso su "La Repubblica" nel febbraio del 1981), si è cercato di definirne i limiti
2
) B.Anastasia, Il "modello veneto": ideologia o realtà? in "Schema", 1981, anno 4°, n.7-8, p.109.
3
) Ivi, p.110.
3
operativi. Solo all'interno di questi limiti possiamo utilizzare in modo appropriato
questo strumento di interpretazione senza cadere nella sterile propaganda
ideologica a favore della classe politica predominante.
"Con modello veneto di sviluppo è opportuno intendere semplicemente il
risultato d'insieme delle caratteristiche specifiche che hanno consentito
all'economia veneta di svilupparsi coniugando impulsi ricevuti dall'esterno (dalla
dinamica della domanda nazionale ed internazionale) con lo sfruttamento di
condizioni di vantaggio assoluto relativamente alle altre regioni italiane e di
vantaggio comparato rispetto all'estero, che hanno permesso la crescita in loco
di un apparato produttivo di tipo periferico data la particolare specializzazione
dimensionale e settoriale, notevolmente dinamico e non certo residuale" (4).
L'individuazione di queste condizioni di vantaggio che hanno permesso il
superamento del ritardo storico su cui troppo si è insistito è il passo successivo
nel rendere operativo il nostro modello. Sempre Anastasia propone due elementi
che definirei strutturali, e che hanno favorito lo sviluppo. Il primo è da ritenere la
disponibilità di manodopera abbondante e a prezzo inferiore: una caratteristica
dell'offerta di lavoro usuale in una società contadina e in grado di ammortizzare i
costi di industrializzazione nell'attività agricola.
Il secondo elemento propulsivo è un fattore di spazio: la posizione
geografica non solo risulta favorevole per gli scambi con altre regioni sviluppate
italiane ed estere, ma denota anche un comune retroterra culturale,
un'assimilazione civile ed economica, un humus produttivo preesistente,
dimostrati dall'esistenza nella regione di infrastrutture industriali fondate nel
secolo scorso.
A questi elementi socio-geografici che hanno rappresentato peculiari fattori
di sviluppo si aggiunge negli anni Settanta di questo secolo un terzo elemento di
vantaggio: l'elasticità congiunturale assicurata dal sistema diffuso di piccole
imprese. Un sistema con forte vocazione all'export, competitivo all'estero per i
bassi costi di produzione, che non necessita di elevata capitalizzazione, si trova
avvantaggiato rispetto alla grande industria nell'affrontare congiunture negative:
determinante per questa maggiore capacità di resistenza si rivela il carattere
diffuso e non accentrato. Proprio il decentramento sul territorio, oltre a
permettere l'utilizzo di forza-lavoro altrimenti esclusa, dà al sistema un grado di
elasticità maggiore che gli permette di adattarsi alle variazioni del mercato senza
gravi danni economici e sociali. A questo proposito bisogna sottolineare il
contributo dato dall'agricoltura e dal turismo, che, permettendo occupazioni
occasionali, part-time e doppio lavoro (esemplare è la figura dell'operaio-
contadino), contribuisce in modo fondamentale a mantenere basso il costo della
manodopera e assorbe l'esubero in congiunture negative più o meno estese,
dando al sistema una maggior duttilità rispetto ad apparati accentrati. Nello
stesso tempo però, non bisogna dimenticare i costi sociali che tale sistema
4
) Ivi, pp.91-92.
4
comporta, costituiti dall'occupazione precaria, dalla sottoccupazione e dalla
presenza del lavoro nero.
Un tentativo di riordinare le diverse interpretazioni che sono state avanzate
sul processo di crescita regionale "per molti aspetti caratteristico e differenziato
da quello delle altre regioni italiane e tale da indurre taluni a parlare di un
particolare modello di sviluppo veneto" è stato affidato nel 1981 dalla Giunta
Regionale a L.Marino (5). La finalità più operativa che speculativa, tesa perciò a
fornire un'indicazione "per sciogliere i nodi perché il Veneto non divenga un'area
periferica" ed a "delineare linee di politica economica delle modalità di sviluppo"
(6) e quindi non a fornire una visione retrospettiva e globale, rende ragione di un
tentativo di classificazione che necessariamente cede a qualche forzatura.
Tre sono i filoni di interpretazione proposti.
Un primo filone, ricavato dai documenti regionali e pertanto denominato
ufficiale, individua come caratteristiche: il ritardo storico del Veneto nei confronti
delle altre Regioni dell'Italia settentrionale; lo sviluppo "mutuato" ovvero
proveniente da attività industriali della vicina Lombardia; il policentrismo inteso
come insediamento a carattere diffuso; gli squilibri territoriali tra un'area centrale
sviluppata compresa nel poligono Verona-Venezia-Vittorio Veneto e le zone
situate a nord e sud.
Esiste poi un'interpretazione definibile "di opposizione", in quanto tesa ad
evidenziare una precisa responsabilità politica in quello che viene indicato come
sviluppo volutamente distorto, responsabile di squilibri regionali e di aree
depresse deliberatamente mantenute tali ed intese come serbatoi di manodopera
a basso costo. Ciò avrebbe provocato nella regione un pericoloso dualismo
industriale, derivato dall'intenzionale accentramento dello sviluppo nella fascia
centrale della regione.
Infine viene descritto un raggruppamento di interpretazioni concentrate
sull'ultimo decennio, col pregio di un più ampio respiro spaziale. A differenza
delle precedenti linee di interpretazione dello sviluppo veneto l'interesse primo è
quello di porre la regione in un ambito più vasto, valutando le interazioni a livello
internazionale e studiando le strategie di intervento in un mercato più aperto. Gli
aspetti negativi che emergono in questo confronto con realtà similari
sovrannazionali sono principalmente costituiti dal decentramento produttivo e
dai correlati fenomeni di lavoro nero, di doppio lavoro e di part-time agricolo;
5
) L.Marino, Diverse interpretazioni sul modello di sviluppo in "Veneto notizie. Mensile di
informazione della giunta regionale", 1981, anno 10°, n.35.
6
) Ivi, pp. 40-41.
5
positivi invece risultano l'individuazione di settori ad elevata produttività e
l'insediamento di settori relativamente nuovi.
Queste interpretazioni del "modello veneto" di sviluppo, se da un lato
riportano il discorso ad una precisa realtà territoriale quale è quella veneta,
dall'altro dimostrano di trascurarne le origini storiche. Pertanto alla scoperta
dell'esistenza del modello industriale tipico della regione che deve la sua
notorietà alla sostanziale tenuta nella crisi degli anni '70, deve seguire una
valutazione delle osservazioni e dell'operato dei protagonisti
dell'industrializzazione veneta. "Le osservazioni compiute da vari e nient'affatto
ingenui studiosi del secolo scorso" nell'ambito del dibattito sorto sui vantaggi e
svantaggi dell'industrializzazione che era seguito alla grande crisi del 1873, vede
schierati su posizioni modernizzatrici personaggi di estrazione moderata,
cattolica o clerico-liberale come Luigi Luzzatti, Giuseppe Toniolo, Alessandro
Rossi, Fedele Lampertico, Emilio Morpurgo ed Alberto Errera (7). La scelta del
particolare tipo di sviluppo industriale nella regione ha quindi dei "padri e pratici
iniziatori nel passato" il cui criterio di industrializzazione "regolata", messa in
pratica mediante il decentramento di piccole industrie nelle campagne in stretta
aderenza col substrato sociale agricolo, costituisce la prima e fondamentale
formulazione del "modello veneto".
La consapevolezza dell'eterogeneità del nuovo stato, sia sul piano
economico che sociale, era già presente all'indomani dell'unificazione del Regno
d'Italia. Se al Nord la borghesia costituiva la base per una prima
industrializzazione, al Sud prevaleva un ceto agrario più incline alla rendita. Alle
differenze endemiche gli studiosi del meridionalismo non tardarono ad
aggiungere le conseguenze negative per il Sud insite nello stesso processo di
unificazione. Oggi non si tratta di condannare una presunta colonizzazione da
parte del Regno, quanto piuttosto di chiarire la funzione avuta dalle zone di
sottosviluppo a favore dello sviluppo del Nord. La recente unificazione e la tarda
industrializzazione ponevano in primo piano il problema dell'inserimento nella
divisione internazionale del lavoro. La dicotomia Nord-Sud diventa incolmabile
nell'età giolittiana quando la politica tesa a "fabbricare il fabbricante" sfavoriva
investimenti al sud e penalizzava i prodotti agricoli rispetto a quelli industriali. Si
veniva cioè a delineare un rapporto di subordinazione che non a caso verrà
puntualmente perseguito anche nel secondo dopoguerra. Pare evidente quindi
quanto la dicotomia Nord-Sud, inserita in un processo più ampio, sia l'effetto del
processo di sviluppo considerato come "fenomeno complesso, che non è il
contrario del sottosviluppo ma lo comprende", e come la questione vada posta in
termini di funzione e posizione all'interno di una stessa struttura economica (8).
7
) E.Franzina, La transizione dolce. Storie del Veneto tra '800 e '900, Verona, Cierre, 1990, p.174.
8
) A.Bagnasco, Tre Italie. La problematica territoriale dello sviluppo italiano, Bologna, Il Mulino,
1977, p.20.
6
L'urgenza della questione meridionale ha assolutizzato una dicotomia
nazionale e ha distolto da uno studio più articolato della problematica territoriale
dello sviluppo italiano. E' solo negli anni '70 che ricerche sull'economia di piccola
impresa hanno focalizzato l'esistenza di aree differenti sul piano economico e
sociale all'interno dell'indifferenziata categoria dello sviluppo. In particolare gli
studi di Bagnasco hanno individuato l'esistenza di una "terza Italia" localizzata
nelle regioni di centro nord-est come realtà socio-economica con caratteristiche
proprie e spesso contrapposte alla grande industria del cosiddetto triangolo
industriale. Negli anni del miracolo economico in queste regioni
l'industrializzazione fu caratterizzata dalla diffusione di piccole fabbriche con
meno di 50 addetti (ma spesso anche meno di 20). Queste aziende, rivolte
prevalentemente all'esportazione, operarono nei settori tradizionali
dell'abbigliamento, delle calzature, del mobilio, delle ceramiche e del pellame,
adattandosi con grande flessibilità alle variazione di mercato. Il loro carattere
peculiare fu la localizzazione territoriale non accentrata nelle città ma diffusa nei
piccoli centri e nelle campagne tanto da poter parlare di "industrializzazione
diffusa" o meglio di "campagna urbanizzata". Acquistava nuovo valore il legame
con la famiglia mezzadrile, che, organizzando la divisione del lavoro in modo che
le vecchie generazioni si occupassero della terra, permetteva ai giovani di
ricercare nuove fonti di reddito non di rado partecipando direttamente alla nuova
imprenditoria. Le nascenti aziende familiari poterono utilizzare esperienze e
dinamiche familiari già affermate nella famiglia estesa, in un intreccio che vedeva
"lavoro e famiglia saldamente legati in un clima di dinamismo economico,
autosfruttamento e rapida mobilità sociale." (9). Dal punto di vista politico, il
governo centrale tenne un atteggiamento permissivo mantenendo basse le tasse
e le verifiche fiscale ma anche incentivando la piccola impresa con leggi e
finanziamenti straordinari a partire dal 1959 (10). E' comunque a livello locale che
avviene la maggiore integrazione fra il grande partito e la piccola impresa, attuata
mediante agevolazioni nell'acquisto dei terreni e dell'impianto, e con la
costruzione di tutte quelle economie esterne costituite dalle infrastrutture di cui
l'insediamento industriale ha bisogno.
Lungi pertanto dal considerare la categoria dello sviluppo come una realtà
omogenea e indifferenziata, il lavoro di Bagnasco porta alla luce un "sommerso"
del quale individua "caratteri economici propri e correlati sociali, culturali e
politici in misura significativa specifici, diversi in particolare da quelli dello
sviluppo su base di grande impresa, che ha caratterizzato le aree di Nord-Ovest"
(11). In sostanza ad un sistema dicotomico viene sostituita un'articolazione di tre
formazioni sociali con propria struttura economica e sistema politico, modello
interpretativo per affrontare la problematica territoriale dello sviluppo italiano.
Partendo da un approccio economico che si basava su parametri, quali le
9
) P.Ginsborg, Storia d'Italia dal dopoguerra ad oggi. Società e politica 1943-1988, Torino, Einaudi,
1989, p.318.
10
) I principali provvedimenti di incentivazione della piccola-media industria sono la legge del
30/07/1959 n.623, la legge dell'11/03/1965 n.123, la legge del 06/10/1971 n.853.
11
) A.Bagnasco, Tre Italie cit., p.14.
7
dimensioni aziendali e i tipi di produzione, si è cercato di stabilire il legame col
sistema sociale e politico. Ne sono emerse tre distinte formazioni sociali-
territoriali: una definita "centrale" a nord-ovest, una "periferica" nel centro nord-
est ed una "marginale" nel meridione. Di queste "tre Italie", l'ultima nata - sulla
scia anche di studi storici sullo sviluppo regionale veneto - ha dato origine ad
una fortunata letteratura sul ruolo avuto dalla forte integrazione dei fattori socio-
culturali che la caratterizza. Infatti, sia che ci si trovi in un'area a tradizione
democristiana o comunista, l'integrazione sociale della piccola impresa nella sub-
cultura bianca o rossa, utilizzando servizi con una forte connotazione ideologica
quali la banca confessionale o la cooperativa di consumo, "rende possibile la
riduzione della conflittualità e la riproduzione della forza-lavoro affidata ad un
sistema sociale considerato intrinsecamente "altro" rispetto ai rapporti di
produzione capitalistici" (12). Di tale integrazione nella sub-cultura areale, la
felice espressione "grandi partiti e piccole imprese" rende icasticamente ragione.
L'affermazione dell'esistenza di una "terza Italia" è scaturita dal
superamento del dualismo che contrapponeva allo sviluppo del Nord del Paese
una situazione di sottosviluppo del Sud. Ciò è avvenuto in anni di crisi per la
grande industria settentrionale in cui si è manifestata la generale tenuta delle
zone caratterizzate dalla piccola impresa. Si è perciò evidenziata l'esistenza di
due formazioni economiche all'interno dell'indistinta categoria dello sviluppo:
l'una detta "centrale", l'altra, con caratteri tendenzialmente opposti, "periferica".
La ricerca empirica sul territorio ha trovato iniziale supporto nella teoria del
dualismo nelle economie avanzate. Secondo questa anche all'interno di
formazioni capitalistiche sviluppate si vengono a costituire stabili strutture
dualistiche, che contrappongono aggregati di imprese omogenee in "settori
centrali" da un lato ed in "settori periferici" dall'altro (13). I principali caratteri
distintivi fra questi due settori economici riguardano la dimensione dell'impresa
ed il tipo di produzione, ma ad essi se ne associano altri riguardanti la struttura
dell'impresa.
L'"economia centrale" risulta composta da imprese di grandi dimensioni che
necessitano di un'elevata capitalizzazione e che operano in settori che
consentono una produzione di grande serie. La capacità di crescita le porta ad
operare sul mercato in regime di oligopolio con la tendenza ad integrare
verticalmente eventuali altre unità. Inoltre i settori nei quali operano sono settori
chiave o perché di controllo strategico sull'intera economia o perché fornitori di
macchinari per altre industrie.
12
) S.Lanaro, Storia dell'Italia repubblicana. Dalla fine della guerra agli anni Novanta, Venezia,
Marsilio, 1992, p.292.
13
) A.Bagnasco, Tre Italie cit., p.22.
8
All'opposto, i caratteri dell'"economia periferica" possono essere così
riassunti:
1) presenza di imprese di dimensioni più ridotte;
2) tipo di produzione tradizionale (alimentare, tessile, calzaturiero, pelli e
cuoio, legno e minerali non metalliferi);
3) produzioni prevalentemente unitarie su commessa o comunque di piccola
serie;
4) forte concorrenza sul mercato;
5) minore remunerazione della manodopera e necessità di una maggiore
elasticità nel suo impiego;
6) scarsa tendenza alla crescita.
Anche la teoria del ciclo del prodotto (14) che dà una spiegazione alla
divisione internazionale del lavoro, ci porta a considerare come il trasferimento di
produzioni di tipo periferico in zone dove il costo del lavoro è inferiore avvenga
anche all'interno delle economie sviluppate (15).
Il primo carattere dell'economia periferica è rappresentato dalle piccole
dimensioni delle unità produttive. Ad un'analisi per classi dimensionali della
struttura produttiva nei principali Paesi industrializzati negli anni Sessanta
emerge la specificità della piccola impresa nella formazione italiana che non trova
equivalenti nell'occidente sviluppato. Infatti le imprese con meno di 10 addetti
rappresentano in Italia il 28% degli occupati, cui segue a distanza la Francia con il
19,2%, mentre quelle di dimensione tra 10 e 99 addetti rappresentano il 29%
mentre in Francia arrivano al 27% (16). A questo punto ci si chiede quale possa
essere il significato di una tale caratteristica dell'economia italiana e quale sia
stato il ruolo della piccola impresa nello sviluppo del Paese. Lo studio di
A.Bagnasco sul ruolo della piccola impresa nello sviluppo italiano ci fornisce tre
possibili risposte (17). Una prima risposta lega la presenza della piccola impresa
alla sopravvivenza di vecchie logiche economiche che denoterebbero
l'arretratezza del sistema.
14
) Secondo tale teoria, quando la produzione di un bene raggiunge la "maturità" commerciale e
risulta abbassato il contenuto tecnologico, viene affidata a Paesi con grado di industrializzazione
inferiore, dove è maggiore la presenza di manodopera a costi competitivi. Solo in seguito anche questi
Paesi riuscirebbero ad affacciarsi al commercio internazionale.
15
) A.Bagnasco, Tre Italie cit., p.24.
16
) Ivi, tabella p.140.
17
) Ivi, pp.138 e seg.