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CONSIDERAZIONI INTRODUTTIVE
Tutta l’Italia è paese (di mafia). Non è un luogo comune e neppure una
visione semplicistica e assolutoria della cattiva politica di contrasto alla
criminalità organizzata, sempre forte nonostante le inchieste giudiziarie, i
processi, le condanne. E’, invece, la sintesi dell’ultima relazione
disponibile della Direzione investigativa antimafia, relativa al primo
semestre del 2011 e pubblicata nell’estate di quell’anno. Il documento,
sintesi dell’attività investigativa dell’ufficio che era stato fortemente
voluto dal giudice Giovanni Falcone, dedica molto spazio all’espansione
delle maggiori organizzazioni di stampo mafioso in tutte le regioni
italiane, ben aldilà di quelle in cui sono tradizionalmente radicate. Uno
dei capitoli più allarmanti tratta del “Sistema”, cioè della polverizzazione
della camorra campana che con i suoi 100 clan censiti (per difetto) dalla
Dia continua a divorare il tessuto sociale ed economico della regione e
non solo. La situazione del Lazio, per esempio, è disperata. Non solo
Roma, dove pureil 4 luglio 2010 nel residenziale quartiere Aurelio fu
ucciso Carmine Gallo, detto ‘o luongo, collaboratore di giustizia che stava
rendendo importanti dichiarazioni sul clan Gallo-Limelli-Vangone di
Torre Annunziata. Non solo Ostia, lido balneare alle porte della Capitale
ma anche e soprattutto Latina, provincia ormai infestata dalla presenza
camorristica. Ma è tutto il Lazio ormai a subire l’influenza delle mire
espansionistiche dei clan camorristici. Frosinone, Cassino, Gaeta,
Sabaudia, oltre all’immancabile Fondi sono solo alcune tra le tappe di
colonizzazione della camorra.
Altra enorme questione aperta è rappresentata dalla vicenda lombarda.
Milano è ormai assediata, preoccupante il costante progredire in province
come Bergamo e Como dove i soldi del narcotraffico vengono reinvestiti
in attività commerciali e imprenditoriali.
Nel Nord-est la nuova frontiera è il Friuli-Venezia Giulia, dove le ultime
informazioni della Dia evidenziano le ramificazioni di camorra non solo
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a Trieste ma anche a Lignano Sabbiadoro e Latisana. Insomma in questa
regione - dove la presenza di Cosa nostra siciliana è storia, a partire dalla
presenza dei clan gelesi e dove la ‘ndrangheta non sembra ancora essere
sbarcata - è la camorra la concorrente che avanza nella geografia
dell’economia criminale.
In Emilia-Romagna la storia è già scritta e, dunque, la camorra cammina
serena. Migliarino (Ferrara), Monterenzio (Bologna), Medesano (Parma,
provincia già ampiamente battuta dai clan) incarnano le nuove tappe
della via crucis.
Saltando Liguria e Toscana, dove la situazione è stabile (ma non per
questo meno preoccupante), val la pena soffermarsi su Umbria e Marche,
regioni fino a qualche decennio fa ritenute “vergini” sotto il profilo
dell’infiltrazione associativa malavitosa.
Soprattutto in provincia di Perugia, di Ancona (dove è stato
documentato l’insediamento di un esponente del clan Aprea-Cuccaro del
quartiere Barra di Napoli) e Macerata, sono state segnalate le presenze
più pericolose.Successi nell’aggressione ai patrimoni delle cosche? Certo.
Successi nella caccia ai latitanti? Certo. Successi nella carcerazione di
decine e decine di manovali del crimine? Assolutamente. E da molti anni,
non certo solo negli ultimi anni.
E’ corretto, dunque, parlare di una questione criminale che è diventata
questione italiana, con le mafie che rappresentano una pesante palla al
piede dello sviluppo e della crescita del Paese, limitando l’esercizio della
democrazia.
***
Se questi, pur ricostruiti in maniera così evocativa e sintetica,
rappresentano i contorni estrinseci dei più recenti processi di
insinuazione del fenomeno associativo criminale nei territori provinciali
italiani, sembra congruo - sul punto - segnalare la ricorrenza di peculiari
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linee ricostruttive, orientate nella direzione di ricondurre ai momenti di
un passato gravoso e risalente gli ancoraggi iniziali dell’attecchimento di
tali fenomeni associativi: è l’annoso, controverso e dibattuto problema
del diffuso disagio sociale confluito tra le pieghe della cd.
questionemeridionale.
Il concetto di questione meridionale viene usato per la prima volta nel 1873
dal deputato radicale lombardo Antonio Billia, intendendo egli in tal
modo riferirsi alla catastrofica situazione economica del Mezzogiorno
d’Italia dopo l’unificazione del Paese.
All’interno del presente lavoro si vanno ad analizzare le forme e le
modalità di sviluppo delle associazioni di stampo mafiosonelle loro
origini organizzative a partire dagli inizi per arrivare fino ad oggi e nelle
loro prerogative di condizionamento delle consistenza della questione
meridionale .
Ci si muove, dunque, nella direzione di approfondire ogni aspetto
significativo, mediante l’utilizzo di dati storici e di interesse quotidiano e
attraverso le penetranti chiavi di lettura rinvenibili rispettivamente nel
pensiero di: Pasquale Villari, Gaetano Salvemini, Benedetto Croce e
Giustino Fortunato.
Ci si soffermerà, successivamente, su racconti di particolare interesse
attinenti alla genesi della questione meridionale, come ad esempio quelli
riferibili alle esperienze del brigantaggio e dei beati paoli.
Di questione meridionale si può naturalmente parlare anche oggi perché,
pur essendo mutate le condizioni socio-economiche delle regioni
meridionali, esse continuano a restare subalterne rispetto ai processi di
industrializzazione, di modernizzazione e di capacità produttiva del resto
di Italia. Le quattro regioni meridionali e la Sicilia continuano ad essere le
aree di promanazionedelle organizzazioni criminali di stampo mafioso
ma queste hanno smesso di avere un carattere locale, espandendosi in
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tutta Italia e anche all’estero e creando delle vere e proprie succursali,
dotate di autonomia strategica che svolgono nei confronti della casamadre
un ruolo di raccordo e di intermediazione: tanto per citare un esempio, la
‘ndrangheta, organizzazione mafiosa calabrese, ha creato delle vere e
proprie subagenzie chiamate ‘ locali’ in Piemonte, Liguria e Lombardia.
Quest’ultima regione è stata al centro di una recentissima inchiesta
giudiziaria che ha portato al coinvolgimento di esponenti politici di
primo piano, i quali avevano raggiunto con gli uomini della ‘locale’
accordi pre-elettorali; pacchetti di voti in cambio di appalti pubblici.
Unica nel suo genere la situazione del Lazio, vista la sua posizione
centrale rispetto alle vie di comunicazione nord-sud e per la presenza a
Roma degli organismi politici decisionali nazionali. In questa regione,
accanto a una criminalità organizzata autoctona , si trovano esponenti di
tutte le altre organizzazioni mafiose italiane che si dedicano in prevalenza
ad attività di riciclaggio.
Le grandi organizzazioni criminali italiane - strutturate con un carattere
verticistico e con una forte pervasività territoriale - sono: la mafia in
Sicilia,che gli affiliati chiamano Cosa Nostra; la ‘ndrangheta in Calabria,
detta anche ‘la santa’; la camorra in Campania; la Sacra Corona Unita in
Puglia. Hanno in comune il ricorso a cerimonie iniziatiche con la
cosiddetta ‘pungitura’ di un dito e la presenza al rito di immagini sacre; la
struttura verticistica; il ricorso dichiarato all’uso delle armi quale
strumento di risoluzione dei conflitti. In questo si contrappongono allo
Stato, rivendicando per sé stesse la prerogativa della forza che invece
rimane (o dovrebbe rimanere) monopolio esclusivo dei governi .
Le quattro maggiori organizzazioni di stampo mafioso hanno un
fatturato annuo corrispondente - sul piano della caratura finanziaria - al
bilancio di alcune tra le più piccole nazioni europee, come le repubbliche
baltiche. L’ex capo della Procura nazionale antimafia, Pietro Grasso, nel
luglio del 2012 ha rivelato come ‘il fatturato della mafia venga valutato
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sui 140-150 miliardi l’anno. La corruzione in Italia raggiunge 50-60
miliardi mentre l’evasione fiscale ammonta a 120 miliardi di euro.
Sommando tutte queste cifre, si arriva ad un terzo del PIL nazionale.
Cinquecento miliardi di euro circa sfuggono ogni anno alla nostra
economia’.
Le organizzazioni mafiose incassano questi soldi soprattutto attraverso
l’esercizio di specifiche attività illecite, tra le quali in particolare il traffico
di sostanze stupefacenti, la pratica delle estorsioni e dell’usura, il
controllo degli appalti e del ciclo dei rifiuti, le dinamiche di riciclaggio
interno e sovranazionale.
***
Questo lavoro non sarebbe stato possibile senza l ’aiuto in particolare di
una persona.
Mia zia Rosaria il suocontributo è stato risolutivo, mettendo a
disposizione la sua professionalità, accompagnandomi in ogni fase della
ricerca, fornendomi dati e informazioni di ogni tipo,rispondendo ad ogni
mia domanda con rapidità e disponibilità assolutamente non scontate.
Per questo a lei va un enorme grazie.
Un altro ringraziamento particolare va al mio relatore il prof. Fedele
Cuculo, è stato sempre presente e attento durante tutto il mio lavoro, un
vero punto di forza per me, e lo ringrazio anche per l’enorme
disponibilità.
Dedico questo piccolo grande lavoro alla persona che mi ha dato la forza
e la carica per intraprendere questo corso di studi.
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CAPITOLO 1
QUESTIONE MERIDIONALE E GENESI DELLE ORGANIZZAZIONI MAFIOSE
“Lo Stato italiano è stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e fuoco l'Italia
meridionale e le isole, squartando, fucilando, seppellendo vivi i contadini poveri che
scrittori salariati tentarono d'infamare col marchio di briganti.” (Antonio Gramsci
1
)
“Napoli e la Basilicata sono dunque i due estremi della questione meridionale: la città
popolosissima e la campagna spopolata.” (Francesco Saverio Nitti
2
)
“Che esista una questione meridionale, nel significato economico e politico della
parola, nessuno più mette in dubbio. C'è fra il nord e il sud della penisola una grande
sproporzione nel campo delle attività umane, nella intensità della vita collettiva, nella
misura e nel genere della produzione, e, quindi, per gl'intimi legami che corrono tra il
benessere e l'anima di un popolo, anche una profonda diversità fra le consuetudini, le
tradizioni, il mondo intellettuale e morale.” (Giustino Fortunato
3
)
Il Meridione d’Italia, che all’epoca dell’Unità (1861) coincideva con il
Regno delle due Sicilie, era una regione molto ricca. Nel Paese esistevano
solo due grandi banche: il Banco delle due Sicilie e la Cassa di Risparmio
di Milano. La prima aveva depositi per 200 milioni di lire (dell’epoca), la
seconda per 120 milioni. Il debito pubblico consolidato era di 441
milioni nel regno delle due Sicilie, di 1200 milioni in Piemonte. Il debito
pro capite era di 59 lire al Sud, di 262 lire nel regno Sabaudo (nota:
Anteo d’Angiò, La situazione finanziaria italiana dal 1796 al 1870in Storia
d’Italia, De Agostini, 1973, vol.VI, pag. 241 riportata da Antonio Socci,
La dittatura anticattolica, Sugarco, 2004).
Una situazione che durò pochissimi anni, fino al completamento del
processo di unificazione. La questione meridionale, così come
denunciata in primis da Pasquale Villari, nasce in quel periodo,
1
Cfr. A. Gramsci, "Ordine Nuovo", 1920.
2
Cfr. F.S. Nitti,Napoli e la questione meridionale, 1903.
3
Cfr. G. Fortunato, La questione meridionale, 1912.
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contemporaneamente al progressivo impoverimento della borghesia,
degli operai e del sottoproletariato. Racconta il giornalista Giovanni
Fasanella che “Garibaldi entrò a Napoli, circondato dai camorristi, e con
un decreto dittatoriale si appropriò dei depositi pubblici delle banche
delle Due Sicilie: le finanze del Regno finirono sul lastrico nel giro di due
mesi e 90 milioni di ducati, pari a oltre 2 miliardi e mezzo di euro di oggi,
sparirono”
4
. E conclude: "Quello stato centrale, che si impose
all'improvviso e non mantenne le promesse, era e rimane ancora per una
parte del sud estraneo e ostile. Lo stato è visto ancora oggi una cosa
lontana che quando arriva porta guai". Aggiunge Gigi Di Fiore, un altro
giornalista: “Anche mafia e camorra ebbero un ruolo nell'unificazione
dell'Italia. In Sicilia i mafiosi all'epoca erano squadre di picciotti che
difendevano le proprietà dei latifondisti, e furono loro che agevolarono
l'avanzata di Garibaldi garantendo l'appoggio sul territorio. A Napoli
invece i 12 capi quartiere della camorra assicurarono a Garibaldi un
ingresso tranquillo in città, poi alcuni di loro furono ricompensati
ottenendo un incarico nella polizia o nella guardia nazionale"
5
. La
criminalità del sud iniziò quindi a prosperare proprio allora, legittimata
dai piemontesi, e fu fondamentale anche dopo l'unità per sedare le rivolte
dei briganti e delle popolazioni del sud affamate.
Qualche anno dopo l’unificazione, dunque, l’Italia è divisa in due dal
profondo squilibrio economico: al nord presenta un modello di sviluppo
di tipo capitalistico, assente nel Mezzogiorno d’Italia. La produzione
agricola costituisce ancora la principale attività del paese. Al Nord si
stava sviluppando una gestione capitalistica delle aziende agricole; il
Piemonte e la Liguria ne erano i propugnatori. Questo modello
prevedeva l’investimento di cospicue quantità di denaro per
l’ammodernamento degli strumenti di produzione delle aziende agricole,
vi era un incremento degli utili e la meccanizzazione del lavoro. Nel
4
Cfr. G. Fasanella - A. Grippo, 1861, 2010.
5
Cfr. G. Di Fiore, Controstoria dell'Unità d'Italia, Milano, 2011.