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INTRODUZIONE
Il teatro borghese
Il teatro borghese si sviluppò in Italia intorno alla metà del XIX secolo.
Tale tipo di produzione ebbe origine sulla scia del Positivismo, tendenza
culturale che proclamava nell’Ottocento l’esistenza di una verità oggettiva,
conoscibile e afferrabile attraverso il metodo scientifico. Obiettivo
principale dei drammaturghi dell’epoca era quello di riprodurre fedelmente,
alla stregua di un duplicato a colori, il mondo ad essi contemporaneo ed in
particolar modo la vita quotidiana della società borghese, tenendo conto di
tutte le sue sfumature. Un’arte, quindi, così vicina alla sfera del reale da
arrivare ad identificarsi e a sostituirsi ad essa. A tal riguardo, Peter Szondi,
analizzando la suddetta drammaturgia, sostiene che «il dramma è assoluto.
(…) staccato da tutto ciò che gli è esterno (…) non conosce nulla al di fuori
di sé»
1
. Non solo, ma è anche «primario. Non è la rappresentazione
(secondaria) di qualcosa (di primario); ma rappresenta se stesso, è se
stesso»
2
.
Il teatro borghese, quindi, si presentava al suo pubblico come un
organismo dotato di indipendenza e di autenticità. Nel fare questo
allontanava da sé tutte quelle caratteristiche che, al contrario, ne avrebbero
rivelato la natura essenzialmente illusoria e fittizia, propria invece, di una
qualsiasi operazione artistica. L’autore, ad esempio, rimaneva al di fuori
della rappresentazione. Il suo punto di vista si nascondeva negli angoli più
bui del palcoscenico, cercando di mimetizzarsi, di rendersi invisibile tra le
pieghe della vicenda e tra gli stati psicologici dei vari personaggi. «Egli non
1
Peter Szondi, Teoria del dramma moderno 1880-1950, Einaudi, Torino, 1962, p.10.
2
Ivi, p. 11.
5
parla», dice Szondi. «Le parole dette nel dramma – difatti – (…) in nessun
caso devono essere concepite come emananti direttamente dall’autore»,
ovvero dalla sua volontà. Bensì, «sono tutte «decisioni»; (…) sviluppi della
situazione [drammatica] e [in quanto tali] rimangono in essa»
3
.
Inoltre, affinché il dramma risultasse perfettamente verosimile, le unità
di tempo e di luogo dovevano essere rispettate con assoluta precisione.
Severamente aboliti gli stacchi temporali e i repentini mutamenti di scena,
la vicenda scorreva fluidamente davanti al suo pubblico senza alcun intoppo
o brusco rivolgimento.
Qualsiasi evento veniva oculatamente predisposto dal suo autore e
trovava la propria giustificazione nello svolgimento stesso della trama. Era
bandito ogni elemento secondario, marginale o casuale che potesse creare
un sentiero parallelo a quello tracciato dalla vicenda principale e, in tal
modo, fuorviare l’attenzione dello spettatore. «Il caso, questa fresca e viva
polla che prorompe all’improvviso, soffocato sotto le esigenze della scienza
psicologica e sociale (…) non si concedeva diritto di vita [ch]e [a] ciò che
era perfettamente sottomesso alle regole»
4
. Il dramma risultava essere, così,
il risultato di un’azione combinata d’ingredienti legati gli uni agli altri da un
ferreo quanto inossidabile rapporto di consequenzialità. Gli intrecci,
fortemente prevedibili in quanto ruotanti attorno alle sole tematiche del
triangolo amoroso e, talvolta, del problema economico, venivano costruiti
con evidenti finalità pedagogiche. Alla loro base si può individuare
un’esigenza di natura moralistica che li portava a mostrare al pubblico, cui
si rivolgevano, il significato ultimo dell’esistenza umana. «Procedeva[no]
(…) – difatti - su binari prestabiliti e culminava[no] di solito nel classico
3
Peter Szondi, Teoria del dramma moderno 1880-1950, cit., p. 10.
4
Luigi Chiarelli, “… il fortunato autore de La maschera e il volto…”, in Id., La
maschera e il volto e altri drammi rappresentati 1916/1928, Bulzoni, Roma, 1988, p.
369.
6
colpo di scena, di intonazione fortemente patetica»
5
. Colpo di scena per
mezzo del quale si giungeva «alla dimostrazione della tesi finale che
puntualmente ribadiva la necessità del sistema di vita e di regole
esistente»
6
.
Le commedie appartenenti a questo filone, in ultimo, erano
tendenzialmente opere d’ intrattenimento e di svago caratterizzate dalla
compiutezza della rappresentazione. Avevano, ovvero, la capacità di
affascinare, far commuovere e appassionare gli astanti per l’intera durata
dello spettacolo, ma loro interesse principale non era certo quello di
scuoterne le coscienze. «Si rivolgeva[no] al pubblico sul piano
sentimentale, evitando accuratamente di farlo pensare»
7
. Lo spettatore,
difatti, assisteva alla rappresentazione di «un secondo mondo» «in silenzio,
con le mani legate, paralizzato» e «alla fine dell’atto, quando cala[va] il
sipario, essa [la rappresentazione] si sottrae[va] (…) allo sguardo dello
spettatore, seguendo (…) le sorti dell’azione drammatica
momentaneamente sospesa»
8
. Si ripristinava, così facendo, con facilità, la
situazione di partenza, senza che il pensiero e l’esistenza del fruitore del
dramma venissero influenzati o aggrediti in qualche modo dallo stesso.
Dunque la commedia borghese era retta su di un circuito comunicativo che
non mostrava apertura alcuna nei confronti del suo pubblico. Tra le due
istanze non intercorreva alcuna forma di dialogo: «il rapporto spettatore-
dramma conosce[va] solo la completa separazione o la completa
identificazione, ma non l’intrusione dello spettatore nel dramma o il
rivolgersi del dramma allo spettatore»
9
. Non poteva essere altrimenti, del
5
Claudia Terzi, Le poetiche del grottesco, in L. Anceschi, L’idea del teatro e la crisi del
naturalismo. Studi di poetica dello spettacolo, Calderini, Bologna, 1971, p. 58.
6
Ivi, p. 57.
7
Ivi, p. 62.
8
Peter Szondi, Teoria del dramma moderno 1880-1950, cit., pp. 10-11.
9
Peter Szondi, Teoria del dramma moderno 1880-1950, cit., pp. 10-11.
7
resto, in un tipo di teatro dove il palcoscenico «ignora[va] [del tutto] il
collegamento (…) con la platea»
10
.
La crisi di pensiero del Primo Novecento
L’Europa del Primo Novecento fu attraversata da una profonda e radicale
crisi, sia sociale che individuale, le cui conseguenze, seppur con differenti
modalità, furono riflesse in tutti, o quasi, i campi culturali: dalla letteratura
alle varie arti figurative. Il primo conflitto mondiale mostrò agli uomini del
tempo quanto falso ed ipocrita fosse l’atteggiamento perbenista ed ottimista
dietro al quale la società borghese s’era fino a quel momento rifugiata. Gli
ideali e i valori da essa veicolati furono coinvolti in un generale processo di
disgregazione che contribuì ad acuire il distacco tra quest’ultima e
l’intellettuale del nuovo secolo. Tale fenomeno, attenendoci all’Italia, aveva
avuto origine intorno alla seconda metà dell’Ottocento, quando, in seguito
al progressivo indebolirsi dei valori risorgimentali ed al mostrarsi dei primi
segni dell’industrializzazione, apparve evidente che l’intellettuale stesse,
seppur gradualmente, perdendo quella funzione preminente, di guida
morale, etica e civile, che l’aveva, in passato, consacrato e distinto dalla
folla. Tra la fine del XIX e gli inizi del secolo Ventesimo, davanti ad un
panorama ormai dominato dal motivo della macchina, questo processo
venne ulteriormente accelerato: la cultura si piegò alle dinamiche del
lavoro, andando incontro alla mercificazione e l’intellettuale, di
conseguenza, fu declassato alla condizione subalterna di semplice salariato.
Alla luce di queste considerazioni si comprende come l’individuo, in primis
lo studioso, negli anni della Grande Guerra, non riesca più a fidarsi né della
società borghese che gli aveva dato sicurezza, ormai in completa
10
Ivi, p. 11.
8
dissoluzione, né delle sue norme e regole che «suonano ora false e stantie,
appaiono sorpassate, reliquie di un edificio in rovina»
11
. Travolto e vessato
da una vigorosa incertezza che lo porta persino a dubitare della consistenza
della propria personalità, l’uomo moderno non può far altro che rivolgersi
verso altri orizzonti, alla ricerca di nuove forme espressive in cui, da un
lato, dar sfogo a questa sua inquietudine e dall’altro, potersi sentire
nuovamente e pienamente realizzato.
La drammaturgia italiana agli inizi del nuovo secolo
Il mutamento a cui andò incontro la cultura primo novecentesca
coinvolse anche la drammaturgia italiana. In quegli anni si assistette, difatti,
al verificarsi parallelo di esperienze teatrali che, pur avendo avuto tra loro
fisionomie molto diverse, sentirono in egual modo il bisogno urgente di
abbattere quel dramma borghese che in molti teatri nostrani veniva ancora
rappresentato e applaudito con vigore.
Nello stesso periodo in cui Gabriele D’Annunzio introdusse l’elemento
poetico nelle sue rappresentazioni, Fausto Maria Martini ricoprì la poetica
del poeta crepuscolare, nello specifico l’idea del «sentirsi morire» di
matrice corazziniana, di un linguaggio e di una forma prettamente teatrali.
Entrambi gli esperimenti, per quanto testimonianze di una profonda
esigenza di rinnovamento, non colpirono però neppur lontanamente il
bersaglio che era stato preso di mira.
I primi a far vacillare l’istanza realistica su cui si ergeva la commedia
tardottocentesca furono in realtà i Futuristi. Nel 1911 venne pubblicato il
Manifesto dei drammaturghi futuristi, a cui seguirono quello del Teatro di
varietà, del 1913, e quello del Teatro futurista sintetico, datato 1915. Già
qualche anno prima, precisamente nel 1909, Filippo Tommaso Marinetti,
11
Claudia Terzi, Le poetiche del grottesco, cit., p. 58.
9
fondatore del movimento, allestendo a Parigi la messa in scena del dramma
Poupées èletriques, aveva introdotto per la prima volta nella produzione
teatrale italiana la tematica dello sdoppiamento della personalità. Tematica
che, non a caso, venne collegata al nascente problema
dell’industrializzazione. Il tentativo di rinnovare la tradizionale formula
teatrale di stampo naturalista proseguì poi con la realizzazione sulle tavole
dei palcoscenici italiani delle cosiddette “sintesi”: drammi concisi, stringati,
composti da poche e rapide battute, recitate molto spesso da attori
improvvisati o dagli stessi autori nel corso di quelle caotiche serate
futuriste, passate alla storia. Sebbene il teatro sintetico si sia sviluppato in
un arco di tempo piuttosto ristretto, ha avuto il merito di annoverare nel suo
catalogo opere come Simultaneità, Il teatrino dell’amore di Marinetti,
Notturno di Balilla Pratella, Il pesce d’aprile di Buzzi e Il regalo di Decio
Cinti nelle quali, ha fatto notare Giovanni Calendoli, «si ha una
rappresentazione caustica e ironica della piccola o grande società borghese,
che è considerata con distacco, «smitizzata» con un sarcasmo spietato»
12
.
La novità di queste opere non risiede tanto nell’atteggiamento critico con
cui viene tratteggiata la realtà dei tempi, quanto invece nella prospettiva
assunta dal drammaturgo per realizzare tale operazione. Claudia Terzi, ad
esempio, sostiene che l’ironia corrosiva con la quale già Praga intingeva i
suoi drammi permette allo stesso di collocarsi in una posizione diversa dai
drammaturghi più aderenti allo spirito ed ai principi dell’arte naturalista.
Giovanni Calendoli individua nel dramma Come le foglie, rappresentato nel
1900, di Giuseppe Giacosa, altro rappresentante del teatro borghese, una
sotterranea vena critica che porta l’autore a denudare la società in cui si
trova a vivere, svelandone i suoi vizi. Al contrario delle sintesi futuriste
sopra ricordate, però, dove lì il tono è severo, acre ed implacabile,
12
Giovanni Calendoli, La suggestione del «grottesco»: il rinnovamento del teatro
italiano tra il primo e il secondo decennio del secolo, Delta Tre, Padova, 1976, p. 159.