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Prima parte
1. Il relativismo linguistico
“Questo fatto deriva da quello che ho chiamato“principio di relatività linguistica” che
significa in parole povere che utenti di grammatiche profondamente diverse sono
indirizzati dalle loro grammatiche verso tipi di osservazione diversi […].”
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Quante volte abbiamo sentito dire che l’idioma di una lingua riflette la
sua cultura? Addirittura la sua psiche e le sue abitudini e forma mentis? La Germania,
terreno per eccellenza della speculazione filosofica, che vanta i nomi di Kant, Marx,
Hegel, Nietzsche, si serve proprio del tedesco, una lingua così metodica e schematica,
per formulare concetti filosofici con la massima chiarezza; l’inglese così pratico e
universale, che riflette uno stile di vita veloce, essenziale e una mente aperta alle
diversità; il francese dal suono così sofisticato e altolocato, dalle strutture logiche e
grammaticali così attentamente rispettate, poco flessibili e quasi eterne, senza
variazioni, che riflette l’altrettanta precisione alle regole nel loro stile di vita; lo
spagnolo, dal suono così caldo e pimpante, si fa espressione di un popolo allegro,
generoso, accogliente e cordiale; e poi l’italiano, che suona come una musica vivace,
una filastrocca cantilenante, una ninna nanna, una melodia allegra, dolce e sensuale che
fa del Bel Paese un quel luogo romantico, allegro, accogliente, vivace, sempre
intraprendente, dal buon gusto e dalle belle giornate di sole. Questi sono semplicemente
luoghi comuni dettati da facili pregiudizi che si sviluppano al primo contatto con il
parlante altro e privi di reale fondamento e dimostrazione.
Alcuni decenni addietro numerosi linguisti hanno riconosciuto che le fantasticherie sul
fatto che la lingua di un popolo influenzi la cultura e la psiche dei suoi parlanti sono
infondate: ma è veramente così?
Il fatto che la percezione del suono di una lingua possa rivelare il carattere “comune” di
un popolo è chiaramente qualcosa di stravagante, ma la lingua parlata da un gruppo di
individui, in quanto prodotto di una scelta culturale e codice artificiale di
comunicazione tra essi, forse, può rivelarci qualcosa di più, di peculiare, di unico ed
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B.L.Whorf, Linguaggio, pensiero e realtà (1956), trad.it.p. 178.
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esercitare la sua influenza sulle percezioni, sulla memoria, sulla concettualizzazione
dell’esperienza nel mondo.
Parlanti diversi avrebbero una percezione del mondo diversa tra di loro? Oppure, lingue
diverse rivelano percezioni e organizzazioni del mondo differenti? Ci addentriamo così
nell’affascinate campo del relativismo e determinismo linguistico, tema fin dal principio
dibattuto, controverso e tutt’oggi molto studiato.
1.1 Pensiero- linguaggio-mondo
La tematica del relativismo linguistico- culturale è stata approfondita e
studiata prevalentemente negli ultimi due secoli. Sebbene il contatto con “l’altro” abbia
origini ben più lontane nella storia, intendendo per “altro” quel gruppo di individui che
vive e pensa diversamente da “noi”, lo studio dell’altro, in quanto oggetto di uno
specifico interesse, affiora e si fa strada nel discorso a partire più o meno dalla seconda
metà del XIX secolo. Un periodo storico segnato politicamente dall’imperialismo
occidentale con i suoi vari tentativi espansionistici e dalla sottomissione dell’altro per
motivi ideologico – politici, e non solo economici, che per la prima volta fa vedere
l’“altro” in maniera diversa. Si tratta questa volta di una sottomissione anche e
soprattutto culturale, di una lotta per una supremazia ideologica che sarà tra l’altro uno
degli ingredienti del primo conflitto mondiale. Se prima il colonialismo si basava
essenzialmente sulla completa sottomissione e schiavitù senza scrupoli, a partire
dell’800 cominciano ad avanzare le più forti denuncie antischiaviste e, solo nel ‘900, i
movimenti anticolonialisti. La visione dell’altro comincia a cambiare, l’altro acquista
una voce in capitolo, si ribella, viene difeso, la superiorità occidentale comincia ad
essere messa in discussione e la teoria di Darwin sull’evoluzione della specie non è che
una risposta a questa minaccia, altrimenti perché il bisogno di ribadire il concetto della
superiorità occidentale con un’elaborata teoria scientifica? La decolonizzazione nella
seconda metà del ‘900, infine, segna un definitivo crollo della certezza di una
supremazia occidentale.
Il rispetto, la comprensione, l’accettazione nei confronti della cultura e pensiero altrui
non ha avuto un percorso semplice, in realtà non riusciremo mai con facilità a
comprendere ciò che è diverso da quello in cui noi crediamo perché cresciamo in un
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sistema culturale che ci limita nella comprensione di chi sta dentro un altro sistema, e di
conseguenza non lo accettiamo. Anni di guerre, conflitti, abolizionismo, dichiarazioni di
indipendenza, interventi di etnologi e antropologi, sono serviti per l’accettazione
“pacifica” delle differenze, almeno formalmente.
1.2 Le origini e gli sviluppi del relativismo culturale
“Uno dei motivi di vanto del XX secolo è stato la raggiunta consapevolezza che dal punto
di vista della dotazione cognitiva, il genere umano è contrassegnato da un’unità di fondo.
[…] E ora, nel XXI secolo, stiamo cominciando a capire che esistono differenze di pensiero
prodotte dalle convenzioni culturali e, in particolare, dalla nostra lingua madre.”
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Franz Boas (1858-1942), considerato il pioniere dell’antropologia
moderna statunitense, è un linguista di fine ottocento che si distingue dagli
evoluzionisti, numerosi all’epoca, per il semplice fatto che i suoi studi non sono
finalizzati all’elaborazione di classificazioni razziali o teorie sull’evoluzione della
specie. Franz Boas ha però un ruolo prezioso nell’antropologia moderna perché osserva
il diverso in modo nuovo e “moderno” appunto, che prima non era mai stato preso in
considerazione: uno sguardo prospettico della verità. Gli studi dell’antropologo
americano sulle popolazioni umane vertevano su i seguenti aspetti: caratteristiche
fisiche, testimonianze linguistiche, testimonianze culturali, testimonianze archeologiche
e la cultura materiale. A differenza delle scuole europee, dove i dipartimenti di
antropologia ed etnologia lavoravano separatamente da quelli di archeologia e
linguistica, negli USA agli studenti di antropologia si richiedeva una conoscenza
completa di tutti e quattro i settori. Questo è uno dei motivi per cui gli studi e le ricerche
sul famoso connubio lingua-cultura-pensiero si sviluppano per prima nell’ambito
dell’antropologia nord-americana.
Trascrivendo i racconti dei nativi raccolte durante sue ricerca sul campo, Franz Boas
rimane affascinato dai diversi modi in cui i parlanti di diverse lingue classificano il
mondo e prese spunto proprio da questo per sostenere e proporre per primo la nozione
del relativismo culturale: la convinzione secondo la quale ogni cultura debba essere
compresa nelle sue caratteristiche peculiari piuttosto che come parte di una classifica
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G. Deutscher, La lingua colora il mondo, come le parole deformano la realtà, 2003, p. 260
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morale o intellettuale dove gli Europei o i discendenti degli Europei tendono a piazzarsi
in cima. Come si può ben immaginare, il suo si rivelò un concetto rivoluzionario quanto
rivelatore per l’epoca, proprio perché divulgatosi in un periodo storico in cui era molto
più alla moda la corrente opposta, quella evoluzionista, essenzialmente etnocentrica che
all’epoca giustificava “le missioni” imperialistiche di fine ‘800. Boas avanza tre
concetti fondamentali per l’umanità nello studio dell’altro: rispetto delle culture altrui
benché differenti, tolleranza e apertura mentale.
Il relativismo culturale mette tutte le culture sullo stesso livello di importanza proprio
perché diverse tra di loro e quindi “non comparabili” sotto questo punto di vista,
distruggendo così l’immagine tanto amata dai colonizzatori bianchi intenti a
“civilizzare” i “primitivi”, mettendo in discussione ogni forma di etnocentrismo, nonché
attitudine esplicita e latente da sempre presente a partire dai primissimi contatti con il
“diverso”, e mettendo infine sotto critica qualunque metodo qualsivoglia universale
nell’analisi culturale.
Nel corso del Novecento l’approccio relativista è uno dei pilastri fondamentali delle
discipline antropologiche, dove per relativismo si intende un atteggiamento secondo il
quale ogni espressione culturale è analizzata e spiegata all’interno di un sistema di
valori con dei propri segni culturali. Per quanto la posizione dell’osservatore possa
essere esterna rispetto alla comunità che studia (punto di vista etico), questi deve quanto
più possibile avvicinarsi a un punto di vista emico
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, ovvero una prospettiva interna, di
chi fa parte della società in oggetto, in modo tale da comprenderne a fondo l’essenza
evitando quanto più possibile la comparazione con la cultura di provenienza; solo calati
all’interno di un sistema culturale, infatti, possiamo comprenderlo davvero e scoprire
quanto questo vada rispettato e salvaguardato su un contesto internazionale. Come molti
antropologi del suo tempo, Boas era preoccupato nel salvaguardare le lingue e le culture
dei nativi americani in via di estinzione preservandole attraverso la documentazione e le
poche testimonianze viventi. Questa potrebbe essere considerata una preoccupazione
quanto più attuale se pensiamo che ai nostri giorni uno dei compiti più importanti
dell’antropologia moderna è proprio il riconoscimento e protezione dei “patrimoni
culturali immateriali” a rischio con l’aiuto e gli interventi di organi sovrannazionali
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Termini introdotti da Marvin Harris (1927-2001), antropologo statunitense.
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come l’UNESCO, oggi più che mai in un contesto di globalizzazione che minaccia la
particolarità culturale.
Ritornando a Boas, nelle sue ricerche etnografiche sulle popolazioni native americane,
questi raccolse preziose informazioni riguardo la lingua, le usanze, i riti e
l’organizzazione sociale delle diverse tribù, cose che lo portarono a riconoscere
l’esistenza di una pluralità di culture, tutte influenzate sia da fattori geografici, sia da
fattori storici; particolarità geografiche e percorsi storici influenzano, secondo Boas, la
cultura di un popolo rendendola unica e di pari dignità rispetto alle più “famose” culture
europee. Comunemente nota come “particolarismo storico”, questa teoria si presentò
anch’essa, fortemente in contrasto con quella dei colleghi evoluzionisti, tutti intenti a
scovare quelle leggi universali del comportamento umano che negano ogni specificità
culturale, e che invece affermano l’esistenza di un’evoluzione “universale” della cultura
posizionando ai primi stadi quella primitiva e in cima quella raggiunta dall’Europa del
tempo. Seguendo questo schema gli evoluzionisti stabilivano che tutte le culture
esistenti seguivano una stessa evoluzione e quelle che nel XIX secolo presentavano
attitudini o organizzazioni sociali che gli Europei esprimevano secoli addietro erano
certamente considerati inferiori culturalmente. Come già accennato, questa è la
motivazione “culturale” che fermentava le missioni “civilizzatrici” degli “uomini
bianchi” presso le così chiamate tribù primitive, durante l’imperialismo e non solo. Ce
lo ricorda il “The white man’s burden” di R. Kipling, poesia pubblicata nel 1899 sulla
rivista inglese McClure’s che finì per essere letta come una sorta di manifesto
dell’imperialismo e colonialismo viste come “missioni” per civilizzare i paesi non
europei; visione, tra l’altro, che si abbraccia perfettamente alla teoria evoluzionista.
La rivoluzione di Boas fu nell’affermare che ogni cultura possiede una struttura
complessa che ne determina la propria specificità e che è il prodotto di tanti elementi
naturali, sociali e storici che interagiscono continuamente tra loro. Cosi dicendo Boas
conferisce ad ogni cultura un concetto di insieme complesso che si sviluppa in maniera
autonoma rispetto alle altre culture lontane (geograficamente) e che dunque, può
presentare la stessa o superiore complessità di quelle considerate “più sviluppate”.
L’antropologo è dunque ritenuto così importante proprio perché tra i primi a
concentrarsi sulle specificità culturali, sulle particolarità che rendono unica una cultura
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e sul modo attraverso cui una determinata cultura possa influenzare le dinamiche sociali
o addirittura le percezioni sensoriali di un popolo.
Boas si spinse aldilà del semplice relativismo culturale nel momento in cui comincia a
mettere in relazione la cultura e la lingua parlata, entrando così in un campo che sarà
solo accennato dall’antropologo americano ma ripreso e approfondito in maniera molto
più concreta dai suoi seguaci. Egli sosteneva che vi fosse un collegamento tra lingua e
cultura, che la lingua fosse indispensabile per studiare la cultura di un popolo, riflessioni
che derivano proprio dalle esperienze di studio personali. L’interesse per Boas per le
lingue si percepisce già dalle sue prime ricerche sul campo precisamente durante il
soggiorno presso il gruppo eschimese degli Inuit, dove Boas scoprì che questo popolo
utilizzava una diversa serie di categorie cromatiche che influenzava la loro percezione
del colore dell’acqua del mare. Egli fu subito attratto dallo studio di questa lingua e
sostenne l’impossibilità di comprendere pienamente un’altra cultura senza avere accesso
diretto alla lingua parlata dai membri di quella comunità. La lingua è secondo Boas una
delle più importanti manifestazioni della mente, un’idea questa che si riallaccia alla
riflessione sulle ragioni per cui lingue differenti organizzano la loro percezione del
mondo in modo diverso attraverso le loro rispettive categorie grammaticali. Ogni lingua
dunque selezionerebbe solo alcune porzioni della realtà che intende esprimere, aspetti
della realtà che in determinati contesti geografici affiorano in modo più preponderante e
devono necessariamente essere espressi rispetto ad altri luoghi dove probabilmente non
saranno specificate linguisticamente. Boas utilizzò la propria conoscenza delle lingue
amerindiane per mostrare che il modo in cui le lingue classificano il mondo è arbitrario.
Ogni lingua ha il suo modo di costruire il proprio vocabolario che suddivide il reale e
stabilisce categorie dell’esperienza. È in questo contesto che Boas cita il famoso e
esempio dei diversi nomi che usano gli eschimesi per chiamare quello che noi
definiamo con il solo termine“neve”. Nella lingua degli Inuit infatti troveremmo più
espressioni linguistiche per specificare la diversa natura, condizione e consistenza della
neve, cosa che in altre lingue non risulta così specificato proprio perché le diverse
condizioni geografiche e il minor contatto con il fenomeno “neve” non richiede ai
parlanti di specificare ancora più nel dettaglio il fenomeno.
Per fare l’esempio dell’inglese, vediamo che l’idea di acqua (water) viene espresso in una
grande varietà di forme; un termine serve ad esprimere l’acqua come liquido (liquid), un