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Introduzione
Perché i gruppi confliggono? Questa è una delle domande che hanno richiamato
maggiormente l’attenzione degli studiosi in ambito sociale sin dalla fine dell’Ottocento
e che, anche oggi, continua ad alimentare dibattiti teorici piuttosto accesi; infatti, la
psicologia, fin dai suoi inizi, ha tentato di dare una spiegazione del motivo per cui il
conflitto fra gruppi fosse così frequente e facile da osservare, e ha cercato delle
soluzioni per porvi rimedio.
Innanzitutto, perché un individuo ha necessità di far parte di un gruppo sociale?
Se pensiamo alla nostra vita ci rendiamo conto che essa si realizza all’interno di gruppi:
dalla famiglia al posto di lavoro, alla scuola al cyber spazio. Qualsiasi tentativo di stare
soli ci dimostra che gli altri sono nei nostri pensieri e ci influenzano sia come individui
che per la loro appartenenza a un qualche gruppo. Appartenere a un gruppo sociale
appare, quindi, inevitabile.
La categorizzazione sociale è il processo mediante il quale arriviamo a collocare
noi stessi e gli altri individui in gruppi definiti (Tajfel, 1982); essa ci consente di
mettere ordine nella complessità che ci circonda. La categorizzazione permette alle
persone di ridurre la quantità d’informazioni da elaborare organizzando la realtà in
categorie definite e facilitando la scelta del comportamento da mettere in atto sia
l’analisi delle numerose informazioni presenti nell’ambiente circostante. L’effetto della
categorizzazione sociale è quello di aumentare la somiglianza tra gli individui
appartenenti allo stesso gruppo e di amplificare le differenze fra i membri di gruppi
diversi (Tajfel, 1985).
Ma come possiamo rispondere alla domanda iniziale? Si può riprendere il
concetto di identità sociale di Tajfel (1981) che ha dimostrato che è sufficiente dare agli
individui una categorizzazione minima perché questi agiscano in modo da favorire il
proprio gruppo discriminando gli altri. Infatti, quando la categorizzazione di noi stessi
ci pone all’interno di una qualche categoria, l’interesse del gruppo ha precedenza
sull’interesse personale che può essere, in questo caso, sacrificato a favore della
collettività. L’identità sociale deriva, quindi, dalla categorizzazione del mondo in
ingroup e outgroup e dalla classificazione di se stessi come membri dell’ingroup
(Miller e Brewer, 1986).
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Il bisogno di mantenere elevati livelli di autostima e il conseguente desiderio di
una istintività positiva, sono i processi motivazionali che spingono le persone ad attuare
qualche tipo di strategia tesa alla gestione della propria identità sociale. Infatti, l’identità
sociale è influenzata dagli stereotipi attribuiti al proprio gruppo di appartenenza. La
motivazione a cercare la specificità positiva del proprio gruppo è data dal bisogno di
trarre dall’appartenenza di gruppo elementi che qualifichino in modo positivo la propria
identità (Tajfel e Turner 1986). Una modalità comportamentale con la quale riuscire a
mantenere livelli di autostima elevati è quella di discriminare l’outgroup a favore
dell’ingroup. Questo tipo di comportamento può essere visto come un’espressione di
quello che Tajfel chiama conflitto sociale, cioè un conflitto aperto ed espresso da
entrambi i gruppi in opposizione.
L’obiettivo di questa tesi è, dunque, quello di svolgere un’analisi del conflitto
intergruppi, nell’ambito della psicologia sociale. Le domande a cui vuole trovare una
risposta sono, appunto, se il conflitto intergruppi è necessario per l’individuo e se nella
letteratura si trovano gli elementi essenziali per una risoluzione del conflitto tra gruppi.
Inoltre, che ruolo svolge la comunicazione in questo processo? È un elemento utile
come antidoto ai conflitti? Per arrivare a dare le giuste risposte a queste domande,
partiremo, innanzitutto, dalla nascita della Psicologia sociale, ne daremo una definizione
dettagliata e, prendendo il via da questa, esamineremo i gruppi sociali. I gruppi sociali,
per essere compresi, devono essere scandagliati in tutti i loro aspetti: la struttura, la
funzione, lo status e il ruolo dei suoi membri, la comunicazione nei gruppi, ecc. Dopo
un dettagliato excursus, la tesi si avvia ad analizzare i diversi elementi caratteristici dei
rapporti all’interno dei gruppi: identità sociale, coesione, categorizzazione; fino a
spiegare, negli ultimi capitoli, i motivi del conflitto intergruppi e le strategie per
risolverlo, dando, quindi, le soluzioni agli interrogativi che questa tesi si è proposta di
risolvere.
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1. La Psicologia sociale
1.1 La nascita della Psicologia sociale
Il punto di partenza è, innanzitutto, aver ben chiaro come nasce e di cosa si occupa
la Psicologia sociale e perché, per essa, sia così importante il gruppo sociale. La
Psicologia sociale si è sviluppata più tardi della sociologia e dell’antropologia.
Il primo grande psicologo sociale americano, Gordon Allport, nel 1954, stabilì che
il 1898 segnava la nascita della Psicologia sociale. In quell’anno, infatti, Norman
Triplett pubblicò i primi esperimenti sulla facilitazione sociale. Triplett aveva notato che
corridori e nuotatori fornivano una prestazione (o performance) migliore in gara
piuttosto che in allenamento. In altre parole un corridore o un qualsiasi altro sportivo
ottiene risultati migliori in presenza di altri. Analizziamo meglio le caratteristiche della
facilitazione sociale studiata da Norman Triplett. Va detto, innanzitutto, che la
facilitazione sociale è essenzialmente un fenomeno psico-sociale: la presenza di altre
persone produce nell’individuo un livello più o meno elevato di attivazione fisiologica
(arousal) perché ci si sente giudicati o perché si tende a rispondere positivamente alle
aspettative altrui. Esso influenza la qualità della performance nel senso che, in genere,
migliora le prestazioni facili e/o ben apprese e peggiora quelle difficili e nuove.
Se Gordon Allport (1954) ha assegnato la primogenitura a Norman Triplett, in
realtà la Psicologia sociale in Europa ha avuto altri avvii. All’inizio del XX secolo si
affaccia una riflessione teorica che prelude alla psicologia sociale. Wundt, il fondatore
del laboratorio di Lipsa, padre della psicologia sperimentale, colui che gettò le basi delle
prospettive socio-psicologiche e interpretative-osservative, dedicò un’opera di dieci
volumi (scritti tra il 1900 e il 1920) alla psicologia dei popoli (Völkerpsychologie),
disciplina che nei suoi progetti avrebbe dovuto occuparsi del lato psicologico delle
realtà storico-sociali e culturali. Infatti, Wilhelm Wundt (1832-1920), riteneva che la
base delle forme di associazione umana risiedesse nella comunità culturale che educa e
forma gli individui attraverso il linguaggio. Oggetto della Psicologia sociale doveva
essere, quindi, ciò che gli individui appartenenti a un popolo realizzano con le loro
interazioni: la lingua, i miti, le tradizioni, ecc. L’individuo, per Wundt, ha una natura
intrinsecamente sociale e, poiché i processi mentali superiori non possono essere
studiati sperimentalmente, Psicologia individuale sperimentale e Psicologia dei popoli
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devono essere considerate due discipline complementari; vi era, in Wundt, la volontà di
studiare, in modo simmetrico, la relazione reciproca tra individuo e gruppi sociali.
In quegli anni negli Stati Uniti compaiono anche i primi manuali di psicologia
sociale: An introduction to social psycology di W. McDougal e Social psycology di E.A.
Ross, entrambi del 1908. L’etichetta (psicologia sociale) è quella che si affermerà in
seguito e c’è un tentativo di trattazione sistematica della materia, ma si tratta di opere
essenzialmente teoriche, ancora impregnate di filosofia e basate a volte sull’aneddotica.
Nel periodo tra le due guerre mondiali cominciano le ricerche sistematiche ed empiriche
ed è nel dopoguerra che la psicologia sociale conosce uno sviluppo impressionante e si
consolida come disciplina. Dopo una crisi negli anni ’70, in cui ci s’interroga
sull’oggetto, sui metodi, sulla validità del sapere accumulato, negli anni ’80 la
psicologia sociale ha ritrovato convinzione e ha ripreso a crescere più vertiginosamente
di prima. Oggi è una delle aree più floride e rilevanti della psicologia e una delle più
importanti scienze sociali.
1.2 Che cosa studia la Psicologia sociale?
La Psicologia sociale affronta lo studio del comportamento degli individui in
situazioni reali, sarebbe a dire il contesto sociale. Se, come sostenne Aristotele, l’uomo
è un animale sociale, lo è soprattutto perché l’influenza sociale (famiglia, amici, società
ecc.) agisce a livello cognitivo, affettivo e comportamentale attraverso processi inter-
individuali. Essa studia diversi elementi della vita di un individuo, studia: la cognizione
sociale, gli atteggiamenti e le impressioni; le rappresentazioni sociali; il Sé e l’Identità;
le interazioni sociali (comunicazione, aggressività, altruismo); i processi sociali
(l’influenza sociale, i gruppi e le loro relazioni). Ciò di cui si occupa questa tesi, sono
proprio i processi sociali e, in modo specifico, i gruppi e le loro relazioni.
1.3 I gruppi sociali
Che cosa sono i gruppi sociali? Si può affermare che, analizzando diversi libri di
testo sulle dinamiche di gruppo, appare immediatamente evidente l’esistenza di
un’ampia diversità nei significati associati al termine gruppo. Vediamo quali sono
questi significati e come la Psicologia sociale spiega il termine gruppo.