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INTRODUZIONE
L’interesse che è nato in me sul tema delle stock options e, più in generale sulla
tematica della remunerazione del management, è derivato dalle informazioni via via apprese
sull’entità della remunerazione percepita da alcuni CEOs di grandi imprese straniere.
Ora, attraverso lo svolgimento del presente lavoro, mi risulta maggiormente chiaro il
perchè. In realtà, una parte consistente della remunerazione non viene corrisposta dalla società
ma è il mercato che “paga” tali compensi. Le società, attraverso la loro adozione,
attribuiscono un riconoscimento ai managers per i risultati aziendali raggiunti, o come forma
di incentivo al raggiungimento di determinate performance, variabilizzandone allo stesso
tempo lo stipendio. Ciò avviene, ed è avvenuto in passato, attraverso i piani di compensi
basati su strumenti finanziari (principalmente piani di stock options e di stock grant) che,
dapprima sviluppatesi in Paesi le cui imprese presentano assetti proprietari differenti rispetto a
quelle esistenti in Italia, si sono man mano diffusi anche da noi.
Come sappiamo, i piani incentivanti sono considerati uno dei principali strumenti a
disposizione della corporate governance, e sono finalizzati ad allineare gli interessi del
management a quello degli azionisti, consistente quest’ultimo, in linea generale, nella
massimizzazione del valore azionario (shareholders value maximization).
Questo ricercato allineamento sarebbe la conseguenza del fatto che i managers,
diventando o avendo la possibilità di diventare azionisti attraverso il trasferimento dei diritti
proprietari (diritto di controllo, diritto al rendimento residuale), vengano per tale via
corresponsabilizzati nella gestione societaria. E perseguendo i loro interessi essi perseguono
anche quelli degli azionisti. Infatti, già nei primi decenni del XX secolo Berle e Means
avevano osservato che nelle nascenti public companies si era verificato un fatto nuovo. La
proprietà della società, frammentata in un elevato numero di azionisti, era stata separata
dall’effettivo potere di controllo sulla stessa, ora nelle mani della nascente classe di managers
stipendiati. Secondo tale visione, il gruppo di controllo, avvantaggiato dal disinteresse dei
piccoli azionisti alla gestione societaria, potrebbe essere mosso da personali interessi di
profitto e intraprendere così comportamenti opportunistici a danno di questi ultimi, della
società e, in generale, di tutti gli stakeholders che gravitano attorno all’impresa (rent
extraction view). La divergenza di interessi, che si verifica nelle società ad azionariato
diffuso, tra shareholders e executives, è stata illustrata dall’Agency Theory la quale ha pure
suggerito i possibili rimedi per contenere gli agency costs, proponendo dei meccanismi volti
8
ad allineare gli interessi delle parti coinvolte. Uno di questi, e certamente il più diffuso, è
rappresentato dai piani di stock options.
Ricerche svolte in passato hanno dimostrato che le imprese italiane quotate, soprattutto
quelle di maggiori dimensioni, hanno fatto largo utilizzo di piani di incentivazione azionaria,
registrando una diffusione, nel 1999, di circa il 30% (Airoldi e Zattoni).
Da qui è nata l’idea di effettuare un’indagine empirica sul loro grado di diffusione che
permettesse di avere un quadro aggiornato della situazione. Nel Capitolo 5 verranno illustrati i
risultati della ricerca effettuata sulle imprese quotate alla Borsa di Milano (svolta nei mesi di
giugno, luglio e agosto 2013), che avessero implementato o in corso un piano di compensi
basato su strumenti finanziari riferibile all’anno 2012. In tale Capitolo mi sono proposto,
senza pretesa di esaustività, sia di indagare la situazione attuale sia di offrire alcuni spunti di
riflessione per ulteriori approfondimenti. In particolare, ho cercato di evidenziare i seguenti
aspetti:
- se, come confermato dalle ricerche precedenti (diffusione del 30% secondo quella che
dovrebbe essere l’indagine più completa realizzata nel 1999), i piani basati su azioni
rivestissero ancora un ruolo importante nel pacchetto retributivo dei managers;
- capire se, prima la crisi finanziaria del 2000 legata alla new economy e poi la
congiuntura economica negativa iniziata nella seconda metà del 2008, con le
conseguenti e generalizzate depressioni dei titoli azionari, abbiano avuto una qualche
influenza sulla loro diffusione;
- cercare di comprendere se sull’implementazione dei piani da parte delle società
quotate abbiano giocato un qualche ruolo la normativa contabile, da un lato, e quella
fiscale, dall’altro. In particolare, per il primo aspetto viene in evidenza che dal 1°
gennaio 2005 il principio contabile internazionale IFRS 2 impone alle società quotate
di “spesarne” in bilancio il costo, rilevandone il fair value al momento
dell’assegnazione ai beneficiari. La rilevazione di tale costo, a parità di altre
condizioni, incide sulla redditività dell’impresa (es: Roi, Roe, etc.), e tale impatto
potrebbe generare una minore attrattività per gli investitori. Per il secondo aspetto, può
dirsi che la normativa fiscale delle stock options, regolamentata per la prima volta con
il D.lgs.n.314/97, aveva introdotto con l’art. 48 del TUIR (ora art.51) un trattamento
agevolato, considerandole un fringe benefit non imponibile in capo ai beneficiari. Nel
corso del tempo, però, il fisco è intervenuto restringendo sempre più le maglie di tale
agevolazione, fino ad arrivare alla sua completa abolizione. Dal punto di vista
dell’azienda, una convenienza rispetto all’implementazione dei piani incentivanti è
9
avvenuta con il D.M. 8 giugno 2011 che ha riconosciuto la rilevanza fiscale di tali
costi secondo le imputazioni temporali rilevate in bilancio ai sensi dell’art.83 del
TUIR, altrimenti prima indeducibili.
Oltre agli elementi sopra indicati sembra giusto chiedersi quale sia la reale
motivazione di fondo delle aziende all’emissione di questi piani azionari. Tale questione
sorge sulla base della seguente riflessione. Gli studi sul sistema capitalistico italiano hanno
mostrato che le sue principali caratteristiche sono la dimensione medio-piccola delle imprese,
lo scarso ruolo del mercato dei capitali e il fatto che il controllo delle imprese è stabilmente
detenuto da un’azionista o da una famiglia di azionisti di controllo, che rende tra l’altro
impossibili le scalate ostili. Tale azionista di controllo spesso partecipa direttamente alla
gestione attiva dell’impresa o ne delega la gestione a managers di sua diretta emanazione,
spesso legati da rapporti familiari, venendo così meno quella teorizzata contrapposizione tra
azionista-manager. Anzi, in questa situazione sembra invece rievocarsi la figura classica
dell’imprenditore, caratterizzata dalla sovrapposizione tra proprietà e controllo. Nel nostro
contesto, quindi, i piani di stock options sembrerebbero perdere la loro originaria ragion
d’essere e la loro finalità, stante la non necessaria esigenza di allineare interessi divergenti tra
soggetti che non sembrano essere tra loro antagonisti, pur se si ritiene che i piani incentivanti
siano un modo per cercare di coniugare performance e accountability. Lo spunto della
riflessione potrebbe quindi essere quello di riconoscere che la loro emissione risponde
soprattutto ad altre ulteriori e/o diverse finalità, alcune delle quali non vengono evidentemente
dichiarate.
11
CAP.1 IL RAPPORTO TRA PROPRIETA’ E GOVERNANCE
1.1 LA NASCITA DELLE SOCIETA’: CENNI
Si ritiene generalmente che la nascita delle società, così come le conosciamo oggi, sia
avvenuta nel periodo compreso tra i secoli XVI e XVII quando, a seguito dello sviluppo delle
varie attività commerciali, alcuni commercianti crearono delle associazioni temporanee al fine
di raccogliere i capitali necessari per affrontare i viaggi transoceanici e ridurre, al tempo
stesso, i rischi ad essi connessi.
In seguito all’espansione dei commerci si affermò e sviluppò anche il mercato dei
capitali: alcune “grandi compagnie tedesche e italiane iniziarono a prestare capitali a lungo
termine ai sovrani e a breve termine ai commercianti”
1
.
Le imprese proseguono quindi il loro sviluppo di pari passo con la crescita della
ricchezza familiare sino alla metà del XIX secolo, momento nel quale l’economia mondiale è
caratterizzata da una rapida crescita che, insieme all’emersione di una classe di nuovi ricchi,
mette in crisi l’organizzazione economica fondata sulle imprese familiari. La crescita di tali
imprese richiede però l’impiego continuo di capitali per sostenerne lo sviluppo che la
famiglia, però, non è più in grado di fornire; allo stesso tempo comincia ad ampliarsi l’ambito
di operatività di tali imprese e vengono introdotte delle novità tecniche che permettono
l’ingresso nel mercato di nuovi imprenditori, aumentando la competizione e la concorrenza.
Di conseguenza, le imprese familiari dell’epoca vedono modificarsi l’ambiente privilegiato al
quale erano abituate e che si fondava sul rapporto con i “sovrani che, in cambio di prestiti,
avevano concesso loro commesse, concessioni minerarie, monopoli nei servizi e il diritto di
riscuotere imposte”
2
.
Tutte queste innovazioni e conseguenze vanno a creare quei presupposti economici e
sociali che porteranno a quella che è stata definita come rivoluzione manageriale che
caratterizzerà il XX secolo, nel quale si registra appunto la nascita di una nuova classe di
dirigenti preposti alla conduzione delle imprese in sostituzione dei soggetti proprietari delle
stesse. Questo fenomeno trova anche i suoi primi teorici che osservano la nuova situazione
1
GUALTIERI P., Dirigenti e capitali d’impresa: i piani di «stock option», Il Mulino, Bologna, 1993, pag.14.
2
Ivi, pag.15.
12
così come viene condizionata dall’evoluzione della realtà economica che li circonda, avendo
così un rapporto di iterazione con il fenomeno osservato.
A quel tempo viene data grande importanza a ciò che sta avvenendo in quanto questa
rivoluzione manageriale va a incidere profondamente sull’organizzazione dell’impresa, sia
economica che sociale. Infatti, la nascita di questa nuova “tecnostruttura”
3
, cioè di un gruppo
di managers, determinerà una distinzione tra la proprietà dell’impresa e la sua conduzione.
Negli anni ’20 tale processo troverà il suo culmine negli Stati Uniti, in seguito alla
nascita delle public companies, dove apparirà evidente la distinzione tra le funzioni di
direzione dell’impresa, in capo ai dirigenti, e di proprietà, frammentata invece fra tanti piccoli
azionisti incapaci di influire sulla gestione. Gli autori che forse per primi notarono questo
nuovo fenomeno in atto nelle grandi Corporations americane, e che cercarono di collegarlo al
problema dell’incentivazione, furono Berle e Means, attraverso la loro indagine volta a
comprendere le motivazioni di quei soggetti che, pur senza possedere quote azionarie,
conducevano la gestione dell’impresa
4
.
Nel corso del XXI secolo diversi studi si sono focalizzati sulle modalità di governo
delle imprese nel tentativo di individuare strumenti e procedure che mirassero all’efficienza
gestionale e alla realizzazione di una maggiore trasparenza nei confronti dell’ampia categoria
degli stakeholders (in primis gli azionisti), cioè di tutti quei soggetti che gravitano attorno
all’impresa. Tutti questi studi possono essere ricompresi nell’ampia categoria della Corporate
Governance, della quale ci occuperemo nel successivo paragrafo.
1.2 I DIVERSI SISTEMI DI CORPORATE GOVERNANCE: TRATTI SALIENTI
1.2.1 La Corporate Governance
In via generale può dirsi che nonostante il concetto di corporate governance sia
relativamente recente, le teorie sottostanti il suo sviluppo fanno riferimento ad epoche molto
più lontane nel tempo che traggono spunto da varie discipline (finance, business, law, etc.).
Tale concetto sembra essere stato utilizzato per la prima volta per riferirsi alla struttura e al
3
MEO C., I piani di stock option; aspetti gestionali, valutativi e contabili, Cedam, Padova, 2000, pag.27.
4
Ivi, pag. 28; GUALTIERI P., Dirigenti e capitali d’impresa: i piani di «stock option», cit., pag.18.
13
funzionamento della politica aziendale, e si è sviluppato negli ultimi 15 anni in coincidenza
con alcuni scandali finanziari (Parmalat, Enron, WorldCom, etc.) che hanno portato alla luce
diversi casi di corporate malpractices
5
, quali la comunicazione di falsi dati contabili, la
presenza di situazioni di conflitto di interessi all’interno del C.d.A di alcune aziende, il
mancato collegamento tra performance aziendali e remunerazione del management e così via.
Quindi, e in generale, il tema del governo dell’impresa non è un tema nuovo, poiché
attorno ad esso una grande attenzione è sempre stata posta dagli imprenditori e dagli
amministratori in genere, da sempre interessati ad individuare delle linee guida tese ad
orientare il buon governo dell’impresa. Occorre aggiungere che il concetto di corporate
governance è molto ampio e, forse a motivo dei contributi al suo sviluppo dati dalle diverse
discipline, a tutt’oggi non si è ancora giunti ad una definizione “condivisa e accettata a livello
internazionale”
6
. Insomma, il sistema di governance si configura quindi come uno
“strumento” in grado di condurre l’impresa lungo i sentieri di “funzionalità duratura”
7
, con
l’obiettivo di contemperare le diverse aspettative dei numerosi stakeholders che gravitano
attorno all’impresa, prevenendo e, se del caso, dirimendo i potenziali conflitti tra le varie
categorie di interessi di cui gli stakeholders sono portatori.
La rilevanza delle modalità di governo delle imprese discende dal ruolo che esse
svolgono nel sistema economico e dalla loro importanza ai fini di una corretta gestione. Ai
fini della loro sopravvivenza le imprese perseguono obiettivi di economicità e di
contemperamento degli interessi. La corporate governance ha assunto rilevanza nel corso del
tempo, mutando la sua concezione, in funzione del contesto economico generale e della
modalità di conduzione delle imprese.
Anche la struttura delle imprese ha subito nel corso del tempo un’evoluzione. Se nel
XIX secolo le società non potevano avvalersi della responsabilità limitata per le obbligazioni
contratte, così ostacolando la partecipazione degli investitori al capitale di rischio, dalla metà
del XIX secolo si affermano le società di capitali. Società che, dotate di personalità giuridica e
di responsabilità limitata per i debiti contratti, permettono alle stesse di acquisire con una
certa facilità le risorse necessarie al loro sviluppo. L’evoluzione successiva si avrà all’inizio
del XX secolo, quando alcune società statunitensi e inglesi decidono di quotare le loro azioni
5
BELCREDI M. - CAPRIO L., “Struttura del CdA ed efficienza della «corporate governance»”, in Analisi
Giuridica dell’Economia, n.1, 2004, pagg.61-80, pag.61.
6
LEONE E., “Corporate Governance: le regole, gli attori ed i modelli”, pagg.91-118, pag.93, in BUSCO C.,
RICCAMBONI A. - SAVIOTTI A., (a cura di), Governance, strategia e misurazione delle performance. Le
nuove frontiere della bilance scorecard, Knovità Editore, Arezzo, 2008.
7
CORBELLA S., I piani di stock option e stock grant destinati al personale. Profili di misurazione del reddito
d’esercizio, Franco Angeli, Milano, 2004, pag.25.
14
sul mercato dei capitali, determinando così la nascita della moderna società ad azionariato
diffuso, la public company, che consente così agli investitori di partecipare al capitale di
rischio dietro l’aspettativa di una certa remunerazione per il capitale investito.
Verso la metà del XX secolo, osservando che in tali public companies esiste una
separazione tra il management e gli azionisti, alcuni studiosi (Baumol, 1959; Williamson,
1964) teorizzano la supremazia della classe manageriale e la rilevanza della funzione di utilità
dei dirigenti nelle decisioni di governo aziendali. Altri studiosi
8
(Alchian, 1969), invece,
sottolineano la rilevanza del mercato per il controllo societario (market for corporate control)
ai fini della salvaguardia degli interessi degli shareholders.
A partire dagli anni ‘70 gli studi sulla corporate governance si sono focalizzati sul
ruolo del Consiglio di amministrazione, quale strumento di governance, che viene giudicato
come non in grado di svolgere efficacemente i ruoli ad esso attribuiti, rispetto al quale
vengono avanzate anche delle soluzioni sulla modalità della sua composizione (es. consiglieri
esterni non esecutivi, comitati interni di auditing, etc.)
9
. La polemica sull’inefficienza del
consiglio di amministrazione si acuisce poi nel decennio successivo, sia a causa dei primi
scandali finanziari che investono alcune aziende, e che portano a ripensare alle modalità di
gestione delle imprese, sia a causa dell’enorme crescita delle retribuzioni dei CEOs, spesso
non collegate ad un aumento delle performance aziendali e accompagnate da atteggiamenti
opportunistici. Se negli anni ’90 il dibattito sulla modalità di gestione delle imprese si
intensifica anche a seguito di quanto avvenuto nel decennio precedente, è però all’inizio del
XXI secolo che tale dibattito riprende vigore, prima sotto la spinta della “bolla speculativa”
legata alla new economy, che mette in luce l’insufficienza del mercato dei capitali come
strumento regolatore del mercato anche in quei sistemi dove era considerato efficiente, dopo
con la crisi finanziaria del 2008 che ha messo in luce i diversi problemi della corporate
governance. I principali problemi emersi sono stati
10
:
- la composizione e la struttura dei consigli di amministrazione (emblematico il caso
del Board di Enron);
8
BAUMOL W. J., Business behaviour. Value and Growth, MacMillan, New York, 1959, trad.it. Strategie delle
imprese e sviluppo economico, Milano, Etas, 1974; WILLIAMSON O. E., The Economics of Discretionary
Behavior: Managerial Objectives in a Theory of the Firm, Englewood Cliffs, New Jersey, Prentice Hall, 1964;
ALCHIAN A. A., “Corporate Management and Property Rights”, in MANNE H. G., (a cura di), Economic
policy and the Regulation of Corporate Securities, American Enterprise Institute for Public Policy Research.
Washington DC, 1969, in GUALTIERI P., Dirigenti e capitali d’impresa: i piani di «stock option», cit.,
pagg.30-31.
9
ZATTONI A., Assetti proprietari e corporate governance, Egea, Milano, 2006, pagg.269-275.
10
Ivi, pag.40.
15
- le strutture e i processi di gestione del rischio aziendale; l’ammontare della
retribuzione e il ruolo degli incentivi attribuiti al management;
- il ruolo degli azionisti nel processo decisionale.
Come abbiamo poco sopra ricordato se sul concetto di corporate governance non
esiste ancora una definizione condivisa, i vari autori che si sono confrontati su questo tema
hanno proposto definizioni diverse che si distinguono tra loro sia per il numero dei soggetti
che devono essere considerati nel processo di governo aziendale, sia per la numerosità e
l’ampiezza degli organi societari o dei meccanismi che sono responsabili della funzione di
governo. Intersecando tali definizioni, discendono due concezioni di corporate governace:
una “ristretta”, che si focalizza sulle modalità attraverso le quali il C.d.A persegue gli interessi
degli azionisti, e una “allargata”, che considera invece tutti quei meccanismi finalizzati alla
creazione di valore in una prospettiva di ampio respiro e la distribuzione dello stesso secondo
equità tra tutti gli stakeholders. Mettendo insieme queste due concezioni ne risulta la seguente
matrice, riportata nella Figura 1.
Figura 1: La Corporate Governance
Penso sia opportuno fornire una definizione generale, per quanto semplificata, di
“corporate governance”, terminologia divenuta sempre più importante nell’ultimo decennio.
16
Con essa si intende “l’insieme dei meccanismi di governo e controllo delle imprese”
11
, dove il
governo ha sempre costituito oggetto di maggiore attenzione rispetto al controllo, che invece è
assurto agli onori delle cronache nazionali e internazionali negli ultimi 15 anni a seguito del
verificarsi di noti crac economico-finanziari.
Secondo una definizione condivisa a livello economico-aziendale la corporate
governance si estrinseca in una attività amministrativa, di controllo e di comunicazione che
viene svolta su mandato della proprietà e nell’interesse di tutti gli stakeholders
12
, cioè di tutti
quei soggetti che gravitano attorno all’impresa. La crisi economico-finanziaria degli ultimi
anni ha però messo in luce l’inadeguatezza degli attuali sistemi di corporate governance,
nonchè dei sistemi di controllo interno e di vigilanza da parte di enti esterni, ma anche di
atteggiamenti dell’azienda improntati ad una mancanza di trasparenza nella comunicazione
agli stakeholders. E’ anche vero che in quasi tutto il mondo esistono regole e
raccomandazioni (es: Codice Preda in Italia) aventi lo scopo di garantire l’efficacia dei
meccanismi di governance e dei controlli, nell’interesse di tutti quei soggetti che in qualche
modo entrano a contatto con l’impresa. Ma sembra che essi non abbiano sempre prodotto i
risultati voluti. Infatti, gli scandali finanziari cui abbiamo assistito nel corso del primo
decennio del XXI secolo (Parmalat, Enron, Northern Rock, Lehman Brother, etc.) hanno
contribuito a mettere in luce l’esistenza di pratiche scorrette come la diffusione di falsi
risultati di bilancio, il compimento di operazioni in conflitto di interessi, e anche la mancanza
di collegamenti tra la remunerazione percepita dai managers e i risultati conseguiti
dall’impresa, solo per citarne alcuni. Tali fatti hanno posto al centro dell’attenzione
l’importanza di un sistema di corporate governance che garantisca il corretto funzionamento
del sistema economico.
La corporate governance si può pertanto interpretare come una dinamica relazionale
tra i diversi portatori di interessi in seno all’impresa e come “sistema” di allocazione del
potere all’interno della stessa, ma anche come definizione delle strutture normative che si
propongono di regolamentare tali dinamiche.
Essa è stata studiata quasi con esclusivo riferimento alle imprese di grandi dimensioni
che sono ancora le unità fondamentali degli Stati a capitalismo moderno di mercato. Le loro
strutture organizzative, i meccanismi di funzionamento e le relazioni tra chi gestisce le risorse
11
AIROLDI G. - ZATTONI A., (a cura di), Management. Volume 10: Corporate governance, Egea, Università
Bocconi Editore, Milano, 2006, pag.432.
12
SALVIONI D. M., “L’attività di controllo e l’efficacia aziendale”, in SALVIONI D. M., Corporate
Governance, controllo e trasparenza, Franco Angeli, Milano, 2009, p.295-310, pag.295.