108
Capitolo 8
La pianificazione di un percorso CLIL in un sistema integrato trilingue
8.1 Globalizzazione e identità nell’isola del plurilinguismo
«Se le parole di ciascuna lingua non fossero più quei supporti infinitamente diversificati
di civiltà eterogenee che fanno talvolta della traduzione una deliziosa quadratura del
cerchio; se esse diventassero degli stereotipi in cui si esprimono invariabilmente le
nozioni e gli oggetti comuni a tutte le culture; allora l’utilità di quelle parole sarebbe
essenzialmente pratica, la loro giustificazione economica, e l’apprendimento di una
nuova lingua non costituirebbe più un arricchimento dell’intelletto»
103
Dallo scenario europeo tracciato nel Libro Bianco di Delor, su istruzione e formazione
“Insegnare e apprendere – Verso la società conoscitiva” della Commissione Europea,
emerge il concetto di plurilinguismo come caratteristica fondamentale della
cittadinanza europea. L’apprendimento e l’uso di più lingue diviene, così, condizione
indispensabile di conoscenza e di comunicazione con gli altri e, nello stesso tempo,
rappresenta uno strumento irrinunciabile per rafforzare il senso di appartenenza, nella
comprensione e nella valorizzazione delle diversità culturali e linguistiche presenti.
Nella complessità della realtà plurilinguistica il destino linguistico della nostra civiltà
viene spesso definito, e non a torto, entro una costante tensione dialettica fra Babele e
la Pentecoste.
104
Nell’episodio di Babele, infatti, possono essere identificati gli
atteggiamenti linguistici di tutti coloro che esplicitamente o implicitamente,
condizionati dal valore simbolico del fatto biblico, si oppongono al plurilinguismo. In
Babele il plurilinguismo rappresenta una punizione divina intrinseca alla condizione
umana, secondo la quale le lingue degli altri mettono paura, come mettono paura gli
altri, portatori di violenza, violatori del nostro spazio, del nostro territorio, della nostra
103
HAGEGE C., Morte e rinascita delle lingue. Diversità linguistica come patrimonio dell’umanità,
Feltrinelli, Milano, 2002.
104
Babele è il mito biblico dell’orgoglio degli umani che vogliono arrivare fino al cielo e che per questo
sono fatti precipitare da Dio, il quale distrugge la loro opera; Dio punisce la superbia degli umani non
solo distruggendo la loro torre che voleva arrivare al cielo, ma anche impedendoli di comunicare dando
loro lingue diverse.
Nell’episodio della Pentecoste invece agli Apostoli è dato il dono delle lingue, in quanto per diffondere il
messaggio di Dio tra le genti hanno bisogno di conoscere le lingue di tutti.
109
identità. Tale paura degli altri assume la forma della paura delle lingue degli altri e
quindi delle loro culture. Babele diviene, così, il timore del non capire e del non farsi
capire; la consapevolezza che alla base dei conflitti tra persone e gruppi c’è comunque
la mancanza del dialogo, e che questo è reso impossibile quando manchi uno
strumento comune e condiviso come la lingua, la quale rappresenta lo strumento
principale per ogni relazionalità sociale, per ogni contatto, confronto, dialogo.
Nell’episodio della Pentecoste, invece, la questione linguistica viene affrontata e risolta
con un ribaltamento completo di prospettiva: il plurilinguismo è considerato un dono
divino, il segno della ricomposizione di un conflitto. Nel plurilinguismo “pentecostale”
la paura si trasforma in segno di riconciliazione; l’amore per gli altri, la volontà
dell’entrare in contatto con gli altri e dell’evitare i conflitti risiedono sulla capacità di
ascoltare e di parlare con gli altri avendo le loro lingue come terreno d’incontro.
105
Oggi il cammino da Babele alla Pentecoste, seppure attraverso profonde difficoltà, è
stato intrapreso; un cammino che dovrebbe favorire il passaggio dalle ideologie
monolinguistiche a una consapevolezza e a una sicurezza nuove nel rapporto con le
lingue degli altri. E’ questo un processo complesso in cui emergono e si scontrano,
ancora una volta, due opposte tendenze: da un lato quella globalizzante; dall’altro
quella identitaria. In entrambi i casi il rischio culturale che si corre è quello
dell’appiattimento. La tendenza globalizzante non ha rispetto per la differenza; in
nome dell’economia mondiale si produce l’identico globale dove spazio e tempo sono
elementi assolutamente ininfluenti; in ogni luogo, in ogni tempo storico-culturale lo
stesso oggetto risponde allo stesso bisogno. Sul lato opposto, la difesa dell’identità ad
ogni costo potrebbe portare ad un processo limitante, di chiusura, nell’improbabile
ricerca dell’identico a sé stesso.
106
Ecco perché, in una tale prospettiva, diviene di
fondamentale importanza salvaguardare l’identità culturale primaria attraverso il
corretto apprendimento delle lingue autoctone e, nel contempo, aprirsi alle altre
lingue per poter costruire scambi e valori sempre più autentici con l’Europa e il mondo
senza permettere l’insorgere di qualsiasi forma di appiattimento dovuto alla
globalizzazione. La globalizzazione non è qualcosa contro cui dobbiamo o possiamo
lottare, ma un fenomeno di cui dovremo arginare i rischi; attraverso il recupero della
nostra identità si potrà infatti evitare la globalizzazione delle menti e custodire la
diversità della concettualizzazione, dei punti di vista, dei modi di categorizzare il reale,
di definire i colori della pluralità delle lingue.
107
Il riconoscimento della propria identità e il fatto di percepirla positivamente e in
armonia con quella degli altri non deve essere considerato come un semplice fattore di
equilibrio personale, ma come una necessità sociale. La conoscenza approfondita del
105
VEDOVELLI M., “Plurilinguismo in Italia: lingua italiana, lingue immigrate, diritti linguistici”, in Identità
italiana tra Europa e società multiculturale – Atti del Convegno – aprile 2009.
106
SOLDINI A., “L’elefante invisibile. Breve riflessione sull’insegnamento della lingua italiana nelle
differenze”, in Studi di Glottodidattica, Laboratorio ILI, Lugano, 2007.
107
BALBONI P. E., Le sfide di Babele, UTET, Torino, 2002.
110
“chi si è” e la valorizzazione dei propri tratti peculiari dirige gli individui verso un
rapporto di curiosità tollerante nei confronti degli altri. Quanto più si capisce di se
stessi e del proprio gruppo di appartenenza e ci si definisce nell’ambito di una
specificità, tanto più si ha rispetto e fiducia nel gruppo di appartenenza degli altri. In
riferimento alla particolare situazione della Sardegna, le conseguenze della perdita
d’identità subita dalle giovani generazioni è stata chiaramente descritta da Franco
Erdas: «Risulta che ad una progressiva perdita di gran parte dei valori che
caratterizzano la cultura popolare, soprattutto quella che è la dimensione corale del
vivere quotidiano a causa dell’industrializzazione, dell’economia di mercato e della
cultura di massa, è andato corrispondendo un diffuso malessere caratterizzato
dall’anonimato sociale. Soprattutto i ceti marginali delle città, e la gran parte di quelli
che vivono all’interno dell’isola, vivono una condizione di straniamento, di mancanza di
un preciso senso di appartenenza al gruppo sociale».
108
E’, questo, un processo di
“desertificazione culturale” che potrà essere risanato solo attraverso l’insegnamento
della lingua sarda, il quale non è in contrasto con l’apprendimento di altre lingue e non
è solo il riconoscimento di un diritto acquisito, ma il riconoscimento di un diritto
naturale, culturale, sociale e politico di un popolo.
Alla luce di tali riflessioni, globali e locali, si può concludere affermando che il cammino
linguistico dell’umanità è caratterizzato da un sentire sociale, in cui spesso si
attraversano i luoghi delle oscure paure dell’altro e della perdita della propria identità.
Eppure, deve essere un cammino che porta a una Pentecoste delle lingue, a
considerare con serenità e sicurezza la propria e l’altrui identità linguistica; un
cammino in cui le lingue che si incontrano e che si raggiungono rappresentano fonti
vive di senso, alimenti che danno forza alle persone e alle comunità a cui, esse stesse,
appartengono.
8.2 Lingue minoritarie: dall’”acquisition planning” al “reversing language shift”
Con l’espressione “acquisition planning” s’intende «l’insieme di interventi pubblici che
mirano ad aumentare il numero degli utenti potenziali di una lingua».
109
Il parlante,
solitamente, ha una chiara percezione dei rapporti fra i codici con cui è in contatto ed è
anche molto sensibile alle problematiche legate al prestigio linguistico. Chi vive in una
comunità sociale sa che le varietà linguistiche presenti nel territorio si differenziano su
diversi piani: politico, in quanto le lingue hanno sia status giuridici differenti sia
posizioni geopolitiche diverse; economico, poiché il prestigio economico di una lingua
determina cambi di lingua e di atteggiamenti profondi e di lunga durata; estetico,
108
RUBATTU A., L’insegnamento della lingua e della cultura sarde, Su disterru onlus.
109
DELL’AQUILA V., IANNACCARO G., La pianificazione linguistica. Lingue, società e istituzioni, Carocci,
Roma, 2004, p. 133.
111
infatti per tutti i parlanti esistono lingue belle e lingue brutte e questa distinzione si
sviluppa trasversalmente a quella tra lingua e dialetto, o tra lingue prestigiose e non
prestigiose; identificativo, in quanto in diverse realtà di multilinguismo la lingua cui si
lega la propria identificazione primaria non è una lingua standard di grande prestigio e
funzioni ed è proprio questa povertà della propria lingua che, per il parlante, assume
un valore fondamentale. Il parlante si sente legato alla propria varietà perché non è
prestigiosa, perché non è standard o, se vogliamo, perché socio linguisticamente è un
dialetto. L’ acquisition planning riguarda proprio la consapevole alterazione di questi
rapporti fra i codici e può variamente scontrarsi con le idee e le convinzioni del
parlante, siano esse consapevoli o meno. Le attività di acquisition planning, note in
catalano come “normalització lingüística”, sono variamente strutturate con
metodologie e tecniche che possono essere classificate in tre gruppi principali:
miglioramento della competenza linguistica e comunicativa dei parlanti la
lingua oggetto di pianificazione;
aumento del prestigio di tale lingua;
sviluppo del suo uso sociale e interpersonale.
Prima di tutto, infatti, è indispensabile migliorare la competenza generale della lingua
minoritaria all’interno della società, in modo che i parlanti possano usarla in tutti gli
ambiti possibili. Tale processo deve includere, se necessario, anche politiche di
alfabetizzazione o di riattivazione della competenza attiva e passiva dei semiparlanti.
Non bisogna dimenticare, inoltre, che il prestigio di una lingua è direttamente
proporzionale all’ascesa socioeconomica che la conoscenza di questa dà al parlante o
che il parlante crede gli dia, per cui una corretta politica linguistica dovrebbe favorire,
per esempio, la creazione di posti di lavoro e di servizi in cui sia necessaria la lingua
oggetto di pianificazione. In poche parole, per un migliore sviluppo dell’uso sociale e
interpersonale della lingua, bisognerebbe assicurare la sua cosiddetta «produzione e
riproduzione», ossia la continuità nell’uso a livello intergenerazionale come mostra
chiaramente il diagramma di Catherine wheel model (Figura 6) di Strubell.
Il diagramma di Strubell si basa sul principio fondamentale che esiste una relazione
funzionale tra la competenza di una lingua, il suo uso sociale, la presenza e la domanda
nella lingua e la motivazione ad apprenderla e usarla. Questi fattori accrescono, in
modo circolare, la competenza, l’uso e il prestigio della lingua stessa. Una politica di
acquisition planning, dunque, deve porsi come obiettivo l’intervento in un punto
qualsiasi del modello circolare in modo che il rafforzamento consecutivo e bilanciato di
ognuno dei punti rappresentati causi la messa in moto e la rotazione continua della
ruota.
Affinché una lingua diventi un vero e proprio mezzo di comunicazione non basta
l’insegnamento delle sue nozioni grammaticali e lessicali, ma è indispensabile che la
popolazione acquisisca piena consapevolezza delle regole sociali che governano l’uso
112
di tale lingua nella comunità. Se poi queste regole hanno dei risvolti negativi verso la
lingua minoritaria, di cui si vuole appunto aumentare il prestigio, sarà compito
dell’educatore cercare di modificare le regole sociali che determinano l’uso delle
varietà in compresenza sul territorio. Un tale intervento è indispensabile soprattutto
nelle situazioni di dilalia che, come afferma Berruto, si identifica come una forma di
bilinguismo a bassa distanza strutturale tra varietà alta (lingua tetto) e varietà bassa
(lingua minoritaria), ciò presuppone «entrambe le varietà impiegate/impiegabili nella
conversazione quotidiana e con uno spazio relativamente ampio di
sovrapposizione».
110
Educare alla lingua significa in questo caso delimitare socialmente
con precisione gli ambiti delle due varietà, tenendo ben presente che tutto questo può
funzionare solo se la varietà bassa è ancora parlata da una parte rilevante della
popolazione, è compresa da un numero ancora più grande di persone e ha mantenuto
una quantità di ambiti d’uso, anche se solo orali, abbastanza alta.
Figura 6. Il Catherine wheel model
111
Assicurare l’uso sociale della varietà linguistica non comporta necessariamente la
richiesta, da parte della popolazione, di prodotti e servizi in questa. Infatti, in situazioni
di diglossia stabile, cioè «in una situazione di subalternità istituzionale e funzionale
della lingua etnica rispetto alla lingua standard»
112
accade spesso che, l’ambito, nel
quale rientrano i prodotti commerciali o i servizi, non appartenga (nella forma scritta) a
quello della lingua etnica o minoritaria.
110
LO DUCA M. G., Lingua italiana ed educazione linguistica. Tra storia, ricerca e didattica, Carocci,
Urbino, 2008, p. 61.
111
Cfr. nota 7, Dell’Aquila, Iannaccaro, 2004, p. 142. L
x
= lingua oggetto di pianificazione.
112
BLASCO FERRER E., Tecniche di Apprendimento e di Insegnamento del Sardo, Edizioni della Torre,
Cagliari, 2005, pp. 18-19.
Maggiore
conoscenza della
L
x
Maggiori
motivazioni per
apprendere e usare
la L
x
Incremento della
percezione di utilità
della L
x
Più disponibilità e
più consumo di
prodotti e servizi
nella L
x
Più domanda di
beni e servizi
nella L
x
Più uso sociale
informale della L
x
113
Gli obiettivi di una politica di acquisition planning variano in relazione alle circostanze e
alle necessità di ogni comunità, per cui diventa fondamentale definire chiaramente
“per chi la si fa” e “con quali fini”. Solitamente le operazioni di language planning
implicano un fine conservativo caratterizzato fondamentalmente dalla paura della
perdita d’identità della popolazione di minoranza, colpita dalla presenza sempre più
massiccia e invadente della lingua e della cultura dominante. Con una pianificazione
linguistica di tipo conservatore, dunque, la comunità esprime il desiderio di rivitalizzare
la propria lingua minoritaria per essere identificata come diversa e non per diffonderla
in altre comunità o territori, perché ciò significherebbe la fine di questa diversità. Un
tale concetto affonda le proprie radici su una parziale comprensione del profondo
significato di “identità”e su un atteggiamento di chiusura e di non accettazione nei
confronti di una realtà multiculturale. Una corretta pianificazione linguistica dovrebbe
essere di tipo espansivo in modo che la standardizzazione della lingua minoritaria si
concretizzi in un meccanismo di democratizzazione, volto a rendere disponibile agli
altri la propria lingua e pronto a dotarla di regole esplicite e riconosciute, di dizionari e
grammatiche. Una lingua disponibile ad altri è una lingua di prestigio che “altri”
vogliono imparare e che quindi vale la pena di parlare e tramandare. La pianificazione
linguistica, nella sua forma migliore, può essere considerata come una operazione
consapevole, supportata da parlanti e da istituzioni al fine di rivitalizzare e
modernizzare una lingua a rischio di estinzione e sentita come particolarmente
significativa dalla comunità che tradizionalmente la parla. L’opera di language planning
deve esplicarsi con un duplice fine: quello di conferire status ufficiale alla lingua
oggetto di elaborazione (corpus planning
113
), ma anche di fornire alla stessa gli
strumenti linguistici indispensabili per affrontare le nuove funzioni che deve ricoprire.
Particolare attenzione, durante la pianificazione, deve essere attribuita al problema del
“processo di cambio”, ossia lo shift continuo tra la lingua minoritaria (X) che permette
status e funzioni e la lingua dominante (Y) «che ne acquista sempre di più a danno
della prima, passando da monolinguismo X a diglossia X > Y, a diglossia Y > X, a dilalia,
a monolinguismo Y».
114
Così nel processo di reversing language shift (inversione della
deriva linguistica) diviene determinante la spontanea trasmissione della lingua da
madre a figlio o, nella fase iniziale, l’acquisizione sociale spontanea attraverso il gruppo
dei pari. Se questa trasmissione manca l’azione di rivitalizzazione della lingua risulterà
inutile, in quanto si creerà una situazione caratterizzata dalla presenza di una quantità
di persone che statisticamente è in grado di parlare la lingua perché obbligata ad
impararla a scuola, ma poi nella vita reale non la utilizza.
Da un’attenta analisi degli studi fin qui esposti emerge chiaramente che uno dei
prerequisiti fondamentali per ogni azione di planning è la rilevazione delle particolari
113
Con l’espressione “corpus planning” si intende l’insieme delle operazioni che si compiono su un
particolare codice linguistico per metterlo in grado di assumere le funzioni di lingua
dell’amministrazione, della scuola o dell’alta cultura.
114
Cfr. nota 7, Dell’Aquila, Iannaccaro, 2004, p. 155.
114
condizioni che caratterizzano l’uso linguistico nelle diverse comunità; nonché, il
costante riferimento alla mutevole volontà della popolazione. Infatti, non è possibile
fornire a priori indicazioni sul trattamento del “corpus planning” di una qualsiasi
varietà, poiché le scelte di chi si accinge a intervenire su ortografia, fonologia,
morfologia, sintassi e lessico delle varietà da standardizzare sono estremamente
delicate e legate alle particolari condizioni in cui la lingua potrà essere adoperata.
Altrettanto difficile è indicare vie astratte per lo status planning,
115
in quanto, a parte
le indicazioni generali che possono essere dedotte da documenti come la Charta
Magna, è evidente che le diverse legislazioni nazionali e regionali impongono
trattamenti legislativi e amministrativi differenti.
8.3 Scenario normativo del territorio sardo
Nel 1992, con la pubblicazione di una Charta Magna dei diritti relativi alle lingue
regionali o minoritarie, la Comunità Europea indica le vie univoche che le regioni con
lingue etniche devono seguire per ottenere lo status di autonomia nella pianificazione
linguistica. La Sardegna comincia ad appropriarsi dei diritti delineati nella Charta
Magna con la Legge n. 26 del 15 ottobre 1997, la quale esprime una particolare
attenzione alla tutela e al potenziamento delle varietà linguistiche dell’Isola e si
istituiscono, per la prima volta, programmi di finanziamento per agevolare la ricerca e
l’insegnamento del sardo e delle altre minoranze linguistiche. Dopo due anni, e
precisamente il 15 dicembre 1999, lo Stato Italiano vara la Legge n. 482 sulle
“minoranze linguistiche italiane”.
116
In entrambi i testi di legge viene utilizzata
l’espressione “lingua sarda” , ma le varietà implicitamente indicate in questa
espressione sono in realtà diverse per ciascuna legge:
Legge regionale n. 26, a partire dall’articolo 1 si fa riferimento ai linguaggi della
Sardegna riferendosi, oltre al sardo e al catalano di Alghero (comma 4 dell’art.
2), anche al tabarchino delle isole del Sulcis, al gallurese e al sassarese;
Legge nazionale n. 482, «popolazioni … catalane, … e … popolazioni … parlanti
… il sardo».
Nella legge nazionale con l’espressione “lingua sarda” sembra si voglia intendere tutti i
linguaggi della Sardegna diversi dal catalano di Alghero; nella legge regionale sarda,
invece, con la stessa espressione si indicano chiaramente tutte le varietà di Sardegna
115
Per “status planning” si intende l’insieme dell’apparato normativo e legislativo volto a rendere
effettivi i diritti linguistici della popolazione.
116
Cfr. nota 7, Blasco Ferrer E., 2005, pp. 18-19.
115
che orbitano di fatto o idealmente nella coscienza di molti sardi, intorno alle due
macro-varietà del sardo campidanese da una parte e del sardo logudorese dall’altra.
Infatti la legge regionale, a differenza di quella italiana nomina eplicitamente come
linguaggi a sé il catalano, il tabarchino, il gallurese e il sassarese.
117
Il sardo, come del resto tutte le altre lingue naturali, è allo stesso tempo unico e
molteplice, costituito dal complesso delle varietà che lo compongono (una per paese),
accomunate da caratteristiche che lo identificano e lo differenziano da altre lingue
neolatine. Dopo secoli di assenza della lingua sarda dall’uso pubblico ufficiale, anche se
non è risultato facile trovare una soluzione perfettamente bilanciata tra tutte le
varietà, si è sentita sempre più forte l’esigenza di definire l’uso scritto e pubblico del
sardo. Il cammino, in tal senso, è stato profondamente complesso e caratterizzato da
diversi e aspri contrasti politici che nel 2001 hanno portato, anziché ad una proposta di
ortografia unificata come ci si attendeva, alla proposta di una “Limba Sarda
Unificada”. La LSU, in seguito a polemiche e disconoscimenti sul suo presunto
sbilanciamento a favore dei dialetti centro-settentrionali, non è mai stata adottata
ufficialmente dall’esecutivo regionale, mentre (negli anni dal 2003 al 2005) è stata
sperimentata da alcuni enti locali quali la provincia di Nuoro. Intanto, all’interno del
movimento di promozione de “sa limba” emergevano ancora critiche e scontri che nel
2004 si concretizzarono con la proposta di uno standard basato sulla “Limba de
Mesania”; ossia la rimodulazione di una varietà linguistica centrale rispetto alle varianti
del Nord e del Sud dell’isola, definita sul modello della lingua usata dalla regina
Eleonora d’Arborea per scrivere le leggi dello stato indipendente sardo.
118
La “Limba Sarda Comuna” adottata dalla Regione Sardegna con una delibera del 18
aprile 2006, alla fine, sembra essere il giusto ed equilibrato compromesso tra queste
due proposte di unificazione linguistica, a cui si giunge in seguito ad un acceso dibattito
conclusosi con la convinzione che lo standard ufficiale della Regione deve essere «una
varietà linguistica naturale che costituisca un punto di mediazione tra le parlate più
comuni e diffuse e aperta ad alcune integrazioni volte a valorizzare la distintività del
sardo e ad assicurare la sovramunicipalità e la semplicità del codice linguistico».
119
Spostando l’attenzione del problema linguistico locale ad un più ampio livello
nazionale, è lecito rilevare che negli anni in cui in Sardegna ci si dibatteva per
l’identificazione di una LSC, in Italia (a partire dal Decreto Legislativo del 3 settembre
2002 sull’autonomia scolastica) comincia a diffondersi la metodologia CLIL - Content
and Language Integrated Learning -, ovvero l’apprendimento integrato di lingua e
contenuti disciplinari attraverso una lingua veicolare diversa dalla lingua madre. Dopo
117
CALARESU E., “Alcune riflessioni sulla LSU (Limba Sarda Unificada)”, in La Legislazione Nazionale sulle
minoranze linguistiche. Problemi, applicazioni, prospettive, Udine, 2001.
118
CORONGIU G., Guvernare cun sa limba, Condaghes, Cagliari, 2006.
119
GIUNTA REGIONALE SARDA, Nota ufficiale del 28.09.2005 riguardante i lavori della commissione
tecnica di proposta della Limba Sarda Comuna, rivista telematica Diariulimba,
www.sotziulimbasarda.net.