3A margine di queste problematiche, legate prevalentemente al recupero di informazioni
morfometriche ed alla caratterizzazione del sistema in termini di risposta all’impulso, si
considererà anche un approccio sperimentale al problema inverso, consistente nella stima
dell’indice di rifrazione di un mezzo sconosciuto a partire dalla misura dell’estensione assiale di
oggettinoti.
Introduzione
CAPITOLO 1
Introduzione alla microscopia confocale
n questo primo capitolo sono affrontati alcuni aspetti introduttivi legati alla microscopia
confocale a fluorescenza ed alle sue problematiche. In particolare, ne vengono sottolineati
gli aspetti peculiari rispetto a quella convenzionale.
Nel corso della dissertazione si fa uso delle ipotesi di linearità ed invarianza spaziale per
modellare matematicamente i sistemi ottici, ipotesi queste analizzate in dettaglio nel successivo
capitolo relativo alla formazione delle immagini.
I
Capitolo 1 : Introduzione alla microscopia confocale 6
1.1 Cenni storici e problematiche della microscopia confocale e convenzionale
Allo storico che volesse indagare l’evoluzione nel corso dei secoli dei diversi strumenti ottici
“associati all’occhio”, l’evoluzione del microscopio come “protesi per un’indagine più
ravvicinata della natura” (S. Freud) apparirebbe sorprendentemente variegata, a tratti quasi
contraddittoria.
Per l’avvento della microscopia si fa generalmente riferimento all’opera di A. van Leeuwenhoek
(1632-1723), considerato una sorta di ‘padre della microscopia’.
Di fatto, è storicamente accertato che vi fu un forte ritardo nell’impiego e nell’ulteriore sviluppo
di dispositivi ottici esistenti già da tempo: la tecnologia di cui si è valsa la microscopia nei
secoli XVII e XVIII e anche in gran parte del secolo XIX era già nota da secoli, basti pensare
che alcune delle prime grandi scoperte nel campo della biologia e delle scienze naturali nel
corso di tali secoli furono compiute, in realtà, osservando i preparati attraverso una semplice
lente convergente, o microscopio semplice, nota fin dal XIII secolo. Le ragioni di tale ritardo
vanno ricercate principalmente nelle idee filosofiche che dominarono nell’ambiente scientifico
fino al tempo di Galileo e che furono abbandonate soprattutto grazie al suo intervento
innovatore.
Gli obiettivi dei primi microscopi (come quelli adoperati da Galileo stesso, da C. Drebbel, R.
Hooke ed altri ricercatori del tempo) erano costituiti da lenti semplici, affette da numerose
aberrazioni e sorrette da stativi in legno o cartone approssimativi e traballanti. Nonostante
questo approccio, il microscopio semplice fu ben presto portato verso i 200 ingrandimenti
convenzionali e oltre. Nonostante la precarietà di un tale assemblaggio delle componenti e la
scarsa praticità di utilizzo, esso diede, come detto, risultati eccellenti per le ricerche dell’epoca.
Quando si cominciarono a fabbricare i primi obiettivi acromatici e si svilupparono adeguati
strumenti matematici per lo studio e l’analisi quantitativa dell’ottica, anche gli obiettivi usati nei
microscopi subirono un’evoluzione via via più rapida, finché, verso la metà del secolo XIX,
l’introduzione da parte di G. B. Amici della ‘lente semisferica frontale’ e, successivamente, i
perfezionamenti introdotti da E. Abbe a Jena, nonché la teoria che questi sviluppò intorno
all’immagine degli oggetti illuminati gettarono le basi di quella che è considerata la moderna
microscopia.
Nel caso più comune e di più antico impiego, l’idea di fondo è quella di costruire un dispositivo
in grado di sfruttare la radiazione ottica trasmessa o riflessa dall’oggetto sotto osservazione per
fornirne un’immagine quanto meno verosimile: è questo il cosiddetto microscopio ottico che
possiamo considerare come una sorta di antenato di quelli presenti ai giorni nostri ed in
continua via di sviluppo.
Esistono infatti dispositivi concepiti per sfruttare anche altri tipi di interazioni con la materia
investigata o radiazioni quali fasci di elettroni (microscopio elettronico, al quale si assimilano i
microscopi ad emissione di campo) oppure fasci di raggi X (microscopio a raggi X).
Il motivo di questa ricerca in costante evoluzione non risiede tanto nel tentativo di ottenere
ingrandimenti sempre maggiori, quanto nella necessità di aumentare il potere risolutivo dello
strumento, che limita di fatto la possibilità di mettere in evidenza le particolarità dell’oggetto
sotto osservazione anche quando si sia riusciti ad aumentare notevolmente l’ingrandimento.
Per ottenere l’ingrandimento desiderato, ogni microscopio opera sul fascio di radiazione per il
quale è progettato in base alle caratteristiche intrinseche delle varie radiazioni che entrano in
gioco e precisamente:
� con lenti ottiche (nei vari tipi di microscopio ottico)
� con lenti magnetiche o elettrostatiche (nel microscopio elettronico)
Capitolo 1 : Introduzione alla microscopia confocale 7
� sfruttando la dispersione del fascio di radiazione emesso dalla sorgente, in modo da
raccoglierne l’immagine ad una distanza conveniente affinché essa risulti sufficientemente
ingrandita e ‘leggibile’ (nei microscopi a emissione di campo e in quelli a raggi X)
D’altra parte, poiché il meccanismo secondo il quale si forma, nell’immagine, il contrasto fra i
particolari del campione osservato cambia a seconda della radiazione impiegata, esso potrà
essere esaltato mediante una conveniente preparazione del campione stesso: questa fase
preliminare è di particolare importanza nel caso di materiali biologici e nella microscopia per
trasmissione, anche se il concetto ha validità del tutto generale.
Nell’ambito della microscopia ottica, la preparazione consiste prevalentemente (quando
necessita) nella colorazione selettiva di oggetti di per sé ‘trasparenti’ in modo che la radiazione
venga diversamente assorbita, in funzione della lunghezza d’onda, in zone diversamente
colorate e quindi il fascio originario giunga al rivelatore differenziato, per intensità e lunghezza
d’onda, a seconda dei punti del preparato dai quali proviene.
Nell’ultimo decennio si sono sviluppate, in seno alla microscopia ottica, tecniche avanzate di
analisi quantitativa dei campioni, basate fondamentalmente sull’utilizzo di molecole
fluorescenti. Tra di esse la microscopia confocale (oggetto di questa tesi) e quella con
eccitazione a due fotoni assumono particolare rilievo per la loro capacità di fornire strumenti
adatti allo studio della delicata problematica della relazione tra struttura e funzione nei sistemi
biologici. Infatti, se, da un lato, tecniche come quella della microscopia elettronica o anche del
tipo a scansione di sonda (in particolare STM, Scanning Tunnelling Microscoy e AFM, Atomic
Force Microscopy) hanno recentemente permesso di indagare dettagli risolti su scala molecolare
e atomica, dall’altro si sono rilevate inefficienti quando l’indagine si rivolga su preparati
biologici dei quali siano peculiari le informazioni legate alla struttura tridimensionale, visto che,
come nel caso di una molecola proteica, struttura e funzione sono intimamente intrecciate.
Di fatto, l’analisi di un sistema biologico condotta per mezzo di un microscopio ottico può
essere effettuata, come già accennato in precedenza, sia sfruttando direttamente l’interazione
delle sue strutture con la radiazione luminosa, che marcando specificamente il campione (o parti
di esso) oggetto di studio con sostanze in grado di interagire con la radiazione luminosa ( ad
esempio sonde fluorescenti ).
In tal senso i recenti progressi compiuti nell’ambito della biologia molecolare e della biochimica
hanno reso possibile una sempre più selettiva marcatura di varie componenti cellulari quali
molecole di actina o sequenze di DNA costituite da 1000 o più coppie di basi, permettendo così
una sempre più affidabile discriminazione delle singole componenti elementari sotto studio.
Nonostante ciò, un comune microscopio ottico risulta di per sé inadeguato all’analisi
tridimensionale, in quanto fornisce tipicamente un’immagine bidimensionale del campione
costituita dalla mera sovrapposizione di regioni del campione a fuoco e fuori fuoco.
E’ proprio questa la problematica che, almeno in linea di principio, può essere risolta
dall’impiego della microscopia confocale, che, illuminando selettivamente il campione ‘punto
per punto’ e raccogliendo la sola risposta fornita dal piano a fuoco, permette, previa una
successiva rielaborazione (tipicamente offline) delle informazioni raccolte, la completa
ricostruzione tridimensionale dell’oggetto osservato.
Attraverso l’impiego di un tale dispositivo (descritto in dettaglio nel seguito), non si sono solo
aperti nuovi orizzonti nell’imaging in vivo di preparati biologici, ottenendo informazioni
morfometriche impensabili nell’ambito della microscopia convenzionale, ma si è pure
migliorato il limite di risoluzione, arrivando, in particolare, ad un significativo aumento della
risoluzione assiale, legato proprio alla drastica riduzione dell’informazione fuori fuoco presente
in ogni singola immagine acquisita.
Nell’ambito di questo lavoro di tesi si è affrontato lo studio delle problematiche (ad oggi ancora
in gran parte irrisolte) relative all’analisi quantitativa di campioni di diversa natura in presenza
di una discontinuità nell’indice di rifrazione tra il mezzo di immersione dell’obiettivo e quello
di immersione del campione e alla caratterizzazione del sistema ottico in termini di funzione di
trasferimento (nota come PSF: point spread function), sempre in funzione di tale discontinuità.
Capitolo 1 : Introduzione alla microscopia confocale 8
L’apparato strumentale impiegato è un sistema di microscopia confocale a scansione laser
(CLSM: confocal laser scanning microscope) a singola apertura, particolarmente compatto e
con accoppiamento totale in fibra ottica, NIKON PCM 2000.
Fig. 1.1: Il microscopio di Amici del 1835 (Pieter Harting , Das Mikroskop (Brunswick,
1859), pag.719.) . (*)
(*)
L’immagine è stata gentilmente offerta dal Dott. A. Paoletti
Capitolo 1 : Introduzione alla microscopia confocale 9
1.2 Microscopia a fluorescenza
Il microscopio ottico più diffuso è il cosiddetto microscopio a campo largo.
In figura 1.2a è riportato uno schema che riassume il principio di funzionamento di un
microscopio ottico in fluorescenza.
Fig. 1.2a: schema esemplificativo del principio di funzionamento di un microscopio a
campo largo in fluorescenza. L’emissione luminosa proveniente da un punto nel piano
focale viene rappresentata in una zona fortemente localizzata del detector che, in questo
caso, presenta una superficie estesa. La radiazione che, viceversa, proviene da un
qualsiasi altro punto al di fuori del piano focale viene visualizzata su una più larga
regione del detector, producendo così un tipico fenomeno di blurring da sfuocamento.
Ogni singola acquisizione consiste così in un’immagine completa dell’oggetto
osservato.
Come si vede, il campione è completamente illuminato dalla radiazione d’eccitazione: a seguito
di ciò, all’emissione fluorescente proveniente dai punti del piano focale, si sovrappone quella
originata da piani non a fuoco, fenomeno, questo, responsabile di quegli indesiderati effetti di
sfuocamento che degradano la qualità dell’immagine e riducono l’affidabilità dello strumento in
tutti quei procedimenti di misura basati essenzialmente sul sezionamento ottico.
A questo si aggiungono poi gli effetti dovuti alla diffrazione della radiazione luminosa, allo
studio dei quali è demandata l’analisi sperimentale e teorica della funzione caratterizzante il
microscopio, nota come PSF (point spread function) o risposta all’impulso.
Capitolo 1 : Introduzione alla microscopia confocale 10
Gli effetti pratici di quanto appena detto sono ben visibili in figura 1.2b.
Fig. 1.2b: viste della sezione centrale (x-y a sinistra, x-z a destra) di una sfera
fluorescente (diametro nominale: 6.42 µm) acquisita con un microscopio convenzionale.
Il bordo segnato in bianco indica il profilo teorico. L’immagine è stata ottenuta con un
campionamento assiale di passo 0.225µm.
L’acquisizione dei contributi dei punti a fuoco e di quelli fuori fuoco ha come effetto quello di
limitare notevolmente la risoluzione assiale: l’immagine ottenuta risulta così la combinazione di
un profilo netto, nitido, determinato dalla regione ‘a fuoco’ con una serie di profili scarsamente
definiti, rumorosi, frutto dei contributi dei punti fuori fuoco.
Una modello fisicamente convincente in grado di descrivere le proprietà di un sistema ottico (e
quindi di rendere, in qualche modo, conto dei suddetti limiti risolutivi) è basato sulla
conoscenza della forma analitica della PSF (Hopkins, 1955; Frieden, 1967; Sheppard, 1986;
Sheppard and Török, 1997; van der Voort and Brakenhoff, 1990; Visser and Brakenhoff,
1991; Visser and Wiersma, 1994; Diaspro et al., 1999 e altri ).
Si consideri un sistema bidimensionale di coordinate (xd,yd) nello spazio dell’immagine ed un
equivalente sistema tridimensionale (xo,yo,zo), distinto dal precedente, nello spazio del
campione. Iwf due sistemi sono tra loro legati dalla seguente relazione funzionale, dipendente dal
coefficiente di magnificazione M della lente:
xd = Mxo (1.2.1)
yd = Myo (1.2.2)
ove zs è lo spostamento assiale del campione durante la scansione.
Assumiamo, quindi, che l’intensità dell’emissione fluorescente sia proporzionale alla densità
dell’oggetto (cioè al numero di molecole eccitabili che lo compongono) O(xo,yo,zo) e
all’irraggiamento della radiazione eccitante. Sotto queste ipotesi, si può dimostrare che
l’immagine I del campione osservato è data da contributi, opportunamente pesati, provenienti da
tutti i punti:
(1.2.3)
ove zs è lo spostamento assiale del campione durante la scansione ed Hem rappresenta la PSF in
emissione dell’obiettivo.
Tipicamente, i modelli teorici che vengono considerati nella descrizione di queste
problematiche, assumono che la PSF sia spazio-invariante, ossia che non cambi con la
posizione. Di fatto, questo non è, in generale, del tutto vero.
In particolare, le aberrazioni introdotte da improvvise discontinuità nell’indice di rifrazione o
da sue variazioni all’interno di uno stesso mezzo, possono portare a significativi cambiamenti
nell’andamento della PSF quando si effettuino acquisizioni a profondità diverse nel campione
(Hell et al.,1993; Sheppard and Török,1997; Török et al., 1995a,b,c; Visser et al., 1992).
∫∫∫
∞+
∞−
−−−= dudvdwzwvuOwvM
y
uM
xHzyxI
s
dd
emsddwf ),,(),,(),,(
Capitolo 1 : Introduzione alla microscopia confocale 11
L’ipotesi spazio-invariante, pur nei limiti di applicabilità appena descritti, permette comunque
di trarre alcune importanti conclusioni circa i limiti risolutivi del sistema ottico in questione
(Bertero e Boccacci, 1998).
In figura 1.2c è rappresentato l’andamento qualitativo della trasformata di Fourier di una PSF
teorica, nota come OTF: (optical transfer function) relativa proprio ad un microscopio a campo
largo. (1)
Fig. 1.2c: risposta in frequenza di un microscopio a campo largo; ζ=1/z , ρ=1/r ;
Come si vede, tutte le frequenze al di là di una certa frequenza di taglio sono completamente
tagliate. In conseguenza di ciò, le alte frequenze non sono trasmesse e questo è, di fatto, un
fattore limitante per la risoluzione: in pratica, il valore di taglio costituisce il limite
fondamentale oltre il quale nessuna informazione proveniente dal campione viene registrata dal
sistema.
Un’espressione matematicamente approssimata di tale frequenza di taglio è presente in
letteratura nei lavori di Sheppard (1986) e di Wilson and Tan (1993).
Il fatto che la trasformata di Fourier di un microscopio a campo largo presenti tale ‘cono
mancante’ nello spazio delle frequenze, fa sì che la quantità di informazioni che si può ottenere
da un oggetto caratterizzato prevalentemente da frequenze in tale regione, sia spesso
insufficiente per un’accurata analisi tridimensionale.
Ecco spiegato il motivo per cui questo tipo di microscopia sia per lo più inadeguata a supportare
l’acquisizione tridimensionale di immagini se non a fronte dell’applicazione di algoritmi di
calcolo.
(1)
Vedi paragrafo (2.5.1) e seguenti per una dimostrazione.
All’interno di questo
cono la risposta in
frequenza è nulla.
Risposta in frequenza
non nulla
Capitolo 1 : Introduzione alla microscopia confocale 12
1.3 Microscopia confocale a fluorescenza
L’architettura confocale è stata, in quest’ambito, concepita proprio per eliminare i contributi
luminosi provenienti dalle regioni fuori fuoco e responsabili, come detto, della presenza di un
indesiderato ‘cono mancante’ nella trasformata della risposta del sistema all’impulso.
In figura 1.3a è schematicamente rappresentato il principio fondamentale su cui si basa tutta la
microscopia confocale.
Fig. 1.3a : Diagramma esemplificativo di un microscopio confocale a fluorescenza. Il
campione viene illuminato da una sorgente puntiforme e la radiazione fluorescente
originata dal punto considerato sul piano a fuoco attraversa il pinhole ed è raccolta dal
detector. I punti che, viceversa, giacciono al di fuori di tale piano, ma entro il cono della
luce incidente, emettono a loro volta per fluorescenza, ma tali contributi sono per lo più
‘tagliati’ dal pinhole stesso, che contribuisce dunque ad eliminare indesiderati fenomeni
di blurring. Per come è strutturato questo dispositivo, per ottenere l’immagine 2D
completa della sezione a fuoco, occorre scansionarla attraverso il movimento,
opportunamente coordinato, del campione o del complesso detector-sorgente luminosa.
Il miglioramento del potere risolutivo assiale è ottenuto, in questo caso, sacrificando
l’illuminazione a campo largo in favore di una illuminazione punto per punto ottenuta
tipicamente focalizzando sulla regione di interesse un raggio laser. Attraverso questo
accorgimento, automatizzato nella cosiddetta procedura di scansione, è possibile discriminare, a
mezzo di un pinhole collocato di fronte al detector, i contributi provenienti da punti a fuoco da
quelli originati da punti fuori fuoco.
Occorre inoltre tenere presente che il risultato di tale filtraggio della radiazione fluorescente non
può essere raffinato a piacere semplicemente riducendo progressivamente il diametro del
pinhole, come potrebbe sembrare ad una analisi superficiale dell’apparato strumentale: le leggi
fondamentali dell’ottica limitano, di fatto, la risoluzione assiale, imponendo un limite superiore
pari a circa un terzo di quella laterale. Anche in questo caso, come già per la microscopia
convenzionale, è possibile ottenere ulteriori informazioni circa il comportamento intrinseco del
sistema conoscendone la PSF.
Capitolo 1 : Introduzione alla microscopia confocale 13
Assumiamo, per semplicità, che la scansione avvenga muovendo il campione e che, per
ottenerne l’immagine completa, occorra una spostamento nelle tre direzioni rispettivamente pari
a (xs,ys,zs).
Supponiamo inoltre che il pinhole sia descritto, nel piano del detector, da una funzione P(xd,yd)
che, per un microscopio confocale ideale, sarà assimilabile ad una funzione delta. Sia quindi
Hex(xo,yo ,zo) la PSF in eccitazione dell’obiettivo (che occorre chiamare necessariamente in causa
visto che pure la sorgente eccitante è puntiforme).
Con queste notazioni e sotto identiche ipotesi a quelle usate nella trattazione precedente per un
microscopio convenzionale, si può dimostrare che il segnale raccolto dal detector è descritto da
una funzione del tipo:
(1.3.1)
ove
(1.3.2)
La (1.3.1) stabilisce, in pratica, che l’immagine acquisita al microscopio può essere riguardata
come una convoluzione tra la funzione densità dell’oggetto O(x,y,z) e la PSF complessiva del
sistema (Hcf) data dalla (1.3.2):
Icf = Hcf ⊗ O (1.3.3)
Nel caso particolare, poi, in cui si abbia a che fare con un microscopio confocale ideale,
riducendosi P(xd,yd) ad un impulso di Dirac, la (1.3.2) mostra come la funzione di trasferimento
complessiva del sistema si riduce al prodotto della funzione di trasferimento in eccitazione (Hex)
per quella in emissione (Hem).
In figura 1.3b è riportato l’andamento qualitativo della OTF di un sistema confocale.(2)
Fig. 1.3b : risposta in frequenza di un sistema confocale; ζ=1/z , ρ= 1/r ;
(2)
Vedi paragrafo (2.5.1) e seguenti per una dimostrazione.
∫∫∫
∫∫ ∫∫∫
∞+
∞−
∞+
∞−
∞+
∞−
−−−=−−−×
×−−=
dudvdwzwyvxuOwvuHdudvdwdqdrzwyvxuO
wvuHwvM
r
uM
qHM
r
M
q
PzyxI
ssscfsss
exemssscf
),,(),,(),,(
),,(),,(),(),,(
∫∫
∞+
∞−
−−= dqdrzyM
r
xM
qHM
r
M
q
PzyxHzyxH oooemoooexooocf ),,(),(),,(),,(
Capitolo 1 : Introduzione alla microscopia confocale 14
Assumendo quindi di essere in condizioni d’idealità, ed utilizzando per ogni singola PSF un
andamento analogo a quello visto in precedenza nel caso ‘a campo largo’, essendo la PSF
complessiva prodotto di due PSF (una in emissione ed una in eccitazione), si ha che la
corrispondente trasformata di Fourier è data (per la dualità del prodotto di convoluzione) dalla
convoluzione delle trasformate di Hex e di Hem , ossia:
�(Hcf) = �(Hex)⊗ �(Hem) (1.3.4)
Questo comporta che, nel caso confocale, la OTF non presenti il ‘cono mancante’ visto
precedentemente (come si vede in figura) e sia non nulla entro un range di frequenze spaziali
più ampio. Più precisamente, si può mostrare che essa ha una banda di larghezza doppia rispetto
a quella di un microscopio a campo largo, sia in direzione assiale che laterale.
Pertanto, oltre all’eliminazione di gran parte del disturbo prodotto dalle emissioni fuori fuoco,
l’architettura confocale presenta una risoluzione doppia rispetto ad un sistema convenzionale, a
patto, chiaramente, di definire tale parametro in termini di frequenza di taglio della OTF.
L’assenza del ‘cono mancante’ garantisce che anche le basse frequenze del campione, in
direzione assiale, vengano rilevate, rendendo così possibile un più completo campionamento
spaziale dell’oggetto ed una sua più dettagliata ricostruzione 3D.
Nonostante tutto questo, occorre tenere ben presente che la traccia della trasformata di Fourier
resta finita anche nel caso confocale: ciò comporta che la risoluzione, come già accennato, resta
fondamentalmente limitata e che parte dell’emissione fluorescente, proveniente dalle regioni più
prossime al piano di fuoco, viene comunque rilevata dando così origine ad una inevitabile
componente di disturbo.
L’alto potere risolutivo raggiunto da un’architettura confocale viene pagato in termini di una
maggiore complessità strumentale dell’apparato e di una minore intensità del segnale raccolto.
La necessità di compiere una scansione punto per punto del campione, riduce la velocità di
acquisizione del sistema e, contemporaneamente, anche il numero di fotoni rilevati per un
fissato tempo di esposizione. Dal momento, poi, che molti fotoni sono ‘bloccati’ dal pinhole, il
segnale può risultare debole, se confrontato con quello ottenibile, nelle medesime condizioni
sperimentali, nel caso a campo largo.
Per far fronte a questi inconvenienti, vengono tipicamente impiegate, per l’eccitazione, sorgenti
in grado di fornire radiazioni luminose di maggiore intensità, spesso accoppiate a tempi di
esposizione del detector più lunghi . E’ questo, ad esempio, uno dei motivi che sta alla base
dell’impiego di sorgenti laser fortemente focalizzate in eccitazione.
Tuttavia, a seguito di ciò, anche se i fotoni provenienti da regioni non a fuoco non vengono
rilevati, tali regioni sono investite dalla radiazione eccitante: questo può essere causa di
fotodanneggiamento e di fotodecadimento (photobleaching) delle molecole fluorescenti.
Capitolo 1 : Introduzione alla microscopia confocale 15
1.4 Importanza dell’uso del laser in microscopia confocale
L’uso di sorgenti laser per l’eccitazione è particolarmente frequente in microscopia confocale
poiché queste sono in grado di fornire:
� una radiazione monocromatica della lunghezza d’onda λ voluta per l’eccitazione di
molecole fluorescenti in modo specifico
� un’intensità luminosa sufficientemente elevata
Generalmente, sono impiegati laser all’argon, caratterizzati da due righe molto intense in
corrispondenza di λ=488nm e λ=514nm ( blu e blu-verde, rispettivamente).
La riga blu a 488nm corrisponde all’incirca alla lunghezza d’onda ideale d’eccitazione della
fluorescina e dei suoi derivati, ma funziona bene anche per alcune forme di GFP (green
fluorescent protein ) spostate verso il rosso.
Un altro laser di largo impiego in microscopia confocale è quello elio-neon, caratterizzato da
λ=543nm (verde) e λ=633nm (rosso). Questi può essere ragionevolmente considerato
alternativo a quello argon-krypton perché, pur non essendo i valori delle righe esattamente
identici, mantiene distinte le due eccitazioni, ha un consumo in potenza inferiore ed una vita
media più lunga.
I laser argon-krypton sono tuttora largamente impiegati, visto che la riga a 567nm è
sufficientemente lontana da quella a 488nm da prevenire la sovrapposizione del segnale
proveniente da diversi fluorocromi e che quella a 647nm fornisce un’efficiente sorgente
d’eccitazione per quei fluorocromi che si eccitano nel giallo o nei pressi del rosso.
Un ulteriore range dello spettro elettromagnetico di interesse in microscopia confocale è quello
del vicino ultravioletto: parecchie sonde fluorescenti impiegate per l’analisi di preparati
biologici si eccitano infatti in prossimità di queste lunghezze d’onda.
I laser utilizzati per questo tipo di eccitazione sono molto più potenti (fino a cinque volte) di
quelli ad argon. Di fatto, oltre alle due righe molto intense in corrispondenza di 488nm e
514nm, un laser ad argon emette, più debolmente, anche in corrispondenza di 367-368nm. In un
laser UV, invece, le linee a 488nm e 514nm sono ‘bloccate’ e si ha la sola riga nell’ultravioletto.
1.5 Dinamica dell’eccitazione fluorescente e fotodecadimento
Nella microscopia a fluorescenza a scansione laser, i coloranti sono spesso esposti a radiazioni
eccitanti di forte intensità: a seguito di ciò, l’emissione fluorescente e, con essa, la capacità di
imaging dello strumento perdono di efficienza a causa della crescente saturazione delle
molecole nello stato eccitato (S. Inoué,1995).
La configurazione dei livelli energetici caratteristica di un colorante è schematicamente
rappresentata in figura 1.5a:
Capitolo 1 : Introduzione alla microscopia confocale 16
Fig. 1.5a: schema dei livelli energetici di un generico colorante organico.
S0, S1, S2 rappresentano gli stati di singoletto, T1, T2 quelli di tripletto. I sottolivelli
vibrazionali sono indicati come distinti gli uni dagli altri, anche se, nella realtà, la
situazione è più complessa a causa della presenza, ad esempio, di interazioni col
solvente. Le linee in grassetto indicano transizioni radiative, le altre transizioni non
radiative.
Come si vede, ‘accanto’ alle configurazioni elettroniche di singoletto (S1, S2 , etc.), lo schema
dei livelli prevede la presenza di stati di tripletto (T1, T2, etc.) ciascuno dei quali ha energia
leggermente inferiore a quella del corrispondente stato di singoletto.
In assenza di una radiazione incidente, questi stati sono popolati in accordo con la statistica di
Boltzmann, per cui, a temperatura ambiente, la maggior parte delle molecole si trova nello stato
fondamentale. Per effetto dell’assorbimento di un fotone, la cui energia colmi esattamente il gap
tra lo stato fondamentale ed uno stato eccitato di singoletto, ciascuna di queste molecole subisce
una transizione verso tale stato eccitato.
Si può dimostrare che la frequenza con cui si verifica un tale evento è data (per ciascuna
molecola) da:
(1.5.1)
ove I (W/cm2) è l’intensità della radiazione eccitante, σ (cm2) è la sezione trasversale d’urto (in
generale dipendente dalla lunghezza d’onda λ) ed hν è l’energia del fotone assorbito.
L’assorbimento di un fotone provoca il passaggio della molecola in uno degli stati vibrazionali
all’interno della banda del primo stato eccitato di singoletto (S1) (situazione (a) in figura).
A questo punto, si ha un rilassamento verso il livello vibrazionale più basso: ciò avviene in
tempi molto brevi (≈ 10-12 secondi) e non è accompagnato dall’emissione di alcuna radiazione.
n
s
a
h
I
=