Introduzione
Il presente lavoro cerca di proporre, inizialmente, una breve panoramica storica
della genesi e dell’evoluzione del termine “borderline”, una descrizione dei
correlati psicologici e comportamentali associati a codesta sindrome, con l’aiuto
di ricerche ed esperimenti di respiro internazionale, nonché una riflessione sulle
cause che hanno portato questo disturbo a subire una continua revisione e
riclassificazione all’interno dei più importanti manuali di riferimento del mondo
della psicologia clinica con inevitabili ripercussioni sui modelli di trattamento del
disturbo.
E’ inevitabile che, col passare del tempo, e grazie al naturale evolversi della
disciplina, i costrutti relativi a teorie, modelli e tecniche di intervento, nonché
quelli relativi alla pura e semplice classificazione dei disturbi, cambino e si
evolvano evitando così il rischio di una fossilizzazione a vecchi parametri
interpretativi ed esplicativi che renderebbero obsoleta la disciplina e gli studi
correlati, ma il caso del disturbo borderline è decisamente particolare in quanto ha
subito modifiche e cambiamenti sempre più radicali che lo hanno pian piano
allontanato dal paradigma teorico che aveva assunto inizialmente, coinvolgendo
anche i parametri interpretativi e di intervento che si ritenevano necessari per la
sua individuazione e per il suo trattamento. Il termine borderline significa “limite”
o “linea di confine”, e indica la principale caratteristica del disturbo: “come una
persona che cammina su una linea di confine tenderà a sconfinare in due differenti
territori, così il paziente affetto da Disturbo Borderline di Personalità oscilla tra
normalità e follia, senza vie di mezzo” (Migone, 2008). È un disturbo
caratterizzato da una profonda, costante e disturbante instabilità, percepita e
sofferta sia dal paziente che dalle persone a lui vicine. L’utilizzo del termine
“borderline” è un perfetto esempio sia dell’incapacità sperimentata dai clinici, sin
dagli inizi degli studi inerenti questa sindrome, di assegnare un posto netto,
categorizzabile, facilmente descrivibile ed individuabile, ai soggetti caratterizzati
da questo stato o funzionamento di personalità, sia della umana ed universale
difficoltà a muoversi all’interno di un universo non conosciuto, senza parametri
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fissi, senza punti di riferimento, senza possibilità di orientamento, che tutti noi
proviamo in “terre straniere”. Il termine “terre straniere” è forse quello più
legittimo da utilizzare per descrivere il panorama che si presentò ai clinici e, più in
generale agli “addetti ai lavori” in materia di teorie e tecniche psicologiche,
quando si trovarono di fronte ad uno stato di cose così insolito ed
incomprensibile; come ognuno di noi in una situazione problematica e
sconosciuta, anche loro sentirono il bisogno di trovare un posto a questa nuova
entità nosologica, trovare un termine per descriverla, trovare un’etichetta da
attaccarle sopra per renderla riconoscibile, trovare un modo per spiegarne la
genesi ed uno per condurne la cura. Si sa però che, quando ci si muove in terre
straniere, il rischio di perdersi è molto più probabile che quando ci si trovi dietro
l’angolo di casa propria. Bisogna anche considerare che questo disturbo ha
iniziato a mostrarsi alla comunità scientifica in un periodo di rodaggio della
disciplina psicologica, un periodo in cui le teorie e le tecniche di trattamento
prolificavano, si intrecciavano a volte, spesso si incontravano e si scontravano. Il
doppio movimento di incontro-scontro dei vari approcci teorici e terapeutici di
certo non ha aiutato la comprensione e lo studio preciso ed accurato della
sindrome, la quale è stata spesso frammentata in vari tronconi di significato, in
diversi pezzi di un immenso puzzle che tardava a rendersi chiaramente
riconoscibile. Ne è dimostrazione in primis il numero infinito di nomenclature per
cui si è passati prima di arrivare al termine “borderline”; l’origine prima
traumatica, poi strutturale, poi evolutiva, poi genetica ed infine un’integrazione di
tutte queste, per spiegarne la genesi; l’applicazione della terapia psicoanalitica,
poi di quella cognitivo-comportamentale, poi di quella dialettica, poi di quella
razionale-emotiva, passando per quella di comunità, per giungere infine ad un
approccio integrato basato principalmente sulla capacità d mentalizzazione.
Forse è proprio l’integrazione la soluzione al “dilemma borderline”; cosa, meglio
dell’integrazione può gettare le basi per la soluzione di uno stato così altalenante,
confuso e confusivo, disgregato e disgregante? Forse la linea di confine può
essere assottigliata cominciando ad avvicinare i due lembi che la creano. Il
movimento di avvicinamento, d’altronde, è quello che più di tutti caratterizza il
panorama teorico-applicativo attuale: le teorie possiedono molti più punti in
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comune che in passato, sono meno divise nettamente; le tecniche di intervento si
integrano e completano a vicenda; un esempio può essere la recente constatazione
del sottile (ormai inesistente) margine che vi è tra interventi di tipo espressivo ed
interventi di tipo supportivo in terapia, teorizzata da Gabbard (2007). Dapprima,
infatti, la diversa modalità di applicazione dell’intervento configurava anche lo
sfondo teorico che sottostava allo stesso, nonché la tipologia di sindrome con la
quale il terapeuta si stava confrontando in quel momento; le tecniche espressive
erano maggiormente indicate per i disturbi di spettro nevrotico e per i disturbi di
personalità, mentre quelle supportive erano più adatte per trattare le psicosi o le
crisi esistenziali. La distinzione è sostanzialmente venuta meno quando ci si è resi
conto che, in ogni caso, anche il solo fatto di utilizzare un’interpretazione (tecnica
espressiva per eccellenza) comunichi al paziente che il terapeuta si sta sforzando
per trovare una soluzione al suo problema, andando a costituire quindi una sorta di
implicita validazione empatica dello stesso (intervento di tipo supportivo). Le due
componenti dell’intervento non sono altro che due facce della stessa medaglia e
lavorano congiuntamente all’interno del più ampio processo terapeutico. In sintesi
la possibilità di curare la disintegrazione si apre solo nel momento in cui si cerca
di favorire l’integrazione di parti scisse, di universi complementari separati da una
spessa striscia di rabbia e dolore. Orizzonte molto lontano, ma anche possibile,
per il paziente Borderline.
Tornando al presente elaborato, ecco come il lettore lo troverà suddiviso.
Il primo capitolo tenta di dare una panoramica quanto più esaustiva possibile della
nascita e della prima evoluzione del concetto di disturbo borderline, prendendo in
esame le prime ricerche ed i primi tentativi di classificazione ed interpretazione di
quest’ultimo.
Il secondo capitolo costituisce una sintesi dei principali modelli eziopatogenetici
del disturbo borderline di personalità, con particolare riferimento alla teoria del
trauma e alle implicazioni di un attaccamento infantile disorganizzato, con l’aiuto,
inoltre, di alcuni dati neurobiologici, nel tentativo di provare a comprendere quali
siano i più forti fattori di rischio per lo sviluppo del disturbo.
Il terzo capitolo si concentra sulla costellazione sintomatologica della sindrome,
grazie all’aiuto dei recenti modelli interpretativi del disturbo e di alcune ricerche
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ed articoli internazionali che tentano di fornire un quadro completo di ciò che
accade in questi pazienti in termini affettivi, comportamentali e neurologici.
Il quarto capitolo ha come obiettivo quello di elencare e descrivere i modelli di
trattamento di orientamento psicodinamico più recenti e maggiormente funzionali
alla cura del disturbo, grazie alla focalizzazione degli stessi sulle aree più
deficitarie del funzionamento psichico di questi pazienti.
Il quinto capitolo si propone di rendere maggiormente chiaro lo svilupparsi di
particolari dinamiche all’interno del disturbo e le tecniche terapeutiche utilizzate
per l’interpretazione e la cura dello stesso, tramite l’ausilio di un caso clinico
tratto da un recente studio.
Il sesto capitolo tenta di descrivere le modifiche ed i miglioramenti apportati al
DSM, tramite la pubblicazione, prevista per il 2013, della quinta edizione del
manuale. In esso troveremo infatti diversi cambiamenti, apportati nel tentativo di
rendere la classificazione dei disturbi mentali meno categoriale e schematica e più
attenta alla comprensione del singolo paziente, senza però perdere di vista
l’obiettivo di giungere ad una nosologia affidabile, non ridondante e valida
empiricamente.
Il settimo capitolo delinea le motivazioni dell’evoluzione e del cambiamento della
classificazione cui è soggetto il disturbo all’interno del PDM, il manuale
diagnostico psicodinamico, con riferimento non solo ai semplici e puri obiettivi
interpretativi e di trattamento, ma anche ai vantaggi in termini di costi e prestigio
ricavati dalle diverse scuole di pensiero, grazie al diverso modo di vedere e
classificare il disturbo all’interno dei più recenti manuali diagnostici di
riferimento.
L’elaborato termina con una breve conclusione tesa a tirare le fila di quanto detto
nei capitoli precedenti ed a fornire la prospettiva personale dello scrivente nei
confronti di quanto è stato fatto e si deve ancora fare per confrontarsi con questa
complessa entità diagnostica.
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