IV
soprattutto nel regno delle Due Sicilie guidati da Guglielmo Pepe, l'insurrezione
ad Alessandria e l'arresto di Silvio Pellico, Piero Maroncelli e Federico
Gonfalonieri, eventi che costrinsero i governi del blocco occidentale a riproporre
nei convegni di Münchengrätz e Teplitz la Santa alleanza.
Il battesimo del fuoco si ebbe in Italia con l'attività di repressione del
tentativo rivoluzionario di Ciro Menotti, nei Ducati, e i successivi moti
insurrezionali dell'Emilia e della Romagna, tra l’altro lo scacchiere europeo non
era per nulla tranquillizzante per Vienna con i Francesi che con un colpo di mano
avevano occupato il porto di Ancona, accentuando le mire del governo austriaco
sul processo già in atto d'accentramento neoassolutista. Per una migliore
attuazione di questa nuova politica il governo aveva bisogno di un braccio
efficace e di questo fu incaricata la polizia che divenne così la longa manus
dell’azione politica centrale. Il termine politico, sotto la cui valenza a mano a
mano veniva ad assoggettarsi fisionomie diverse di crimine, inglobando una
molteplicità di reati comuni previsti dalla seconda parte del codice penale, come
le Gravi trasgressioni di polizia o politiche, è stato al centro di questo lavoro,
cercando di seguire lo sviluppo delle forze che esercitavano la funzione di polizia
in Veneto e l'attività della Direzione generale e dei commissariati superiori,
dislocati in ogni provincia.
Fatte le dovute distinzioni, quindi, l'attività dei Commissariati appare
uguale a quella svolta dalle odierne Questure e quella della Direzione generale di
polizia, simile alle competenze del Dipartimento della pubblica sicurezza istituito
presso il Viminale.
Per quanto riguarda, poi, il materiale di ricerca, oltre alla bibliografia
riportata, si è dovuto ricorrere quasi esclusivamente ai documenti dell'epoca,
poiché a tutt’oggi non esistono in Italia degli approfonditi lavori sulla polizia
V
austriaca; tra l’altro si sono riscontrate delle serie difficoltà nel reperimento dei
documenti perché gli interventi di ristrutturazione nella sede dell'Archivio di Stato
della Giudecca, inibiscono ancora la consultazione dei processi ottocenteschi.
1
Capitolo I
Il Regno Lombardo-Veneto
E quand sto bast ghe l’emm d’avè
sui spall
Eternament, e senza remission,
Cossa ne importa a nun ch’el sia
d’on gall,
D’on aquila, d’on’occa o d’on
cappon?
Carlo Porta, poeta milanese
PROCLAMA
Ravenna, 10 dicembre 1813
“In nome del Conte Nugent, comandante generale delle forze austro-
inglesi, ai popoli d’Italia:
Siete stati abbastanza oppressi; avete patito sotto un giogo ferreo! I nostri
eserciti sono venuti in Italia per la vostra liberazione! Sta per sorgere un nuovo
ordine di cose, che vi restituirà la felicità pubblica. Cominciate a godere dei frutti
della vostra liberazione, in seguito alle benefiche misure già applicate ovunque
siano giunte le nostri armi liberatrici. La dove ancora non siamo, sta a voi
franchi e coraggiosi italiani, operare con le armi in pugno la restaurazione della
vostra prosperità e della vostra patria. Voi lo farete tanto meglio, in quanto
sarete aiutati per ricacciare chiunque si opponga a questo risultato. Dovete
diventare una nazione indipendente. Mostrate il vostro zelo per il bene pubblico e
la vostra felicità dipenderà dalla vostra fedeltà a quelli che vi amano e vi
2
difendono. In poco tempo la vostra sorte sarà oggetto d’invidia, il vostro nuovo
Stato susciterà ammirazione”.1
Il 20 aprile del 1814 le truppe francesi del generale Seras lasciavano
Venezia in mano agli austriaci, dopo che era giunta in laguna la notizia
dell’abdicazione di Napoleone, avvenuta a Fontainebleau il 6 aprile 1814; dopo
qualche settimana giunse a Milano il feldmaresciallo Bellegarde, che prese subito
sotto sorveglianza l'importantissima direzione generale della Polizia, lasciando
sussistere nelle loro funzioni di mera apparenza i Reggenti della Città.
Dopo Waterloo, il 9 giugno 1815, i sovrani d’Europa firmarono l’Atto
finale del congresso di Vienna, determinando la creazione ufficiale del Regno
Lombardo-Veneto: il nuovo governo asburgico fu accolto dalla popolazione con
molto entusiasmo ed il suo esercito fu trattato alla stregua di liberatore, poiché
ritenuto portatore di un’era di pace e di prosperità, dopo molti anni crisi
economica e di guerra rovinosa2.
1 D. M. SMITH, Il Risorgimento italiano, volume I, Bari 1976, pp. 19-20.
2
Gli anni 1811, 1812 e 1813, segnarono una gravissima crisi economica, che determinò la chiusura delle
fabbriche e gli innumerevoli fallimenti, facendo precipitare la situazione in tutto il Regno. Il blocco continentale,
inoltre, rese difficili le esportazioni e le tasse di guerra si dimostrarono eccessive per l'economia veneta, fondata
prevalentemente sull'agricoltura. Ad accrescere il disagio e il malcontento nella popolazione c'erano anche gli
omicidi e le violenze, che avvenivano sulle grandi strade interprovinciali. Un fenomeno causato soprattutto dalla
miseria dilagante e forse, anche, ai numerosi disertori, che avendo dovuto abbandonare le proprie case per sottrarsi
al servizio militare, si trovavano senza alcun mezzo per sostenersi.
Il malcontento crescente degli italiani, soprattutto dopo la disastrosa spedizione napoleonica in Russia,
era da ricercarsi nel continuo richiamo di classi alle armi e nelle gravissime perdite subite in guerra dalla gioventù
italiana, si pensi che solo in Russia di ventisette mila italiani inviati al fronte, appena un migliaio avrebbe fatto
ritorno.
3
Il giorno 7 maggio 1815, nella Basilica di San Marco, le province venete
fecero un solenne giuramento di fedeltà nelle mani dell’arciduca Giovanni
d’Austria, rappresentante dell’imperatore: l'impostazione era perciò chiara, ma la
costituzione definitiva di un nuovo ed organico governo nel Lombardo-Veneto, fu
rimandata fino alla visita, tra l’ottobre del 1815 e l’aprile del 1816,
dell’imperatore in Italia.
La visita di Francesco I alla città di Venezia, avvenne il 31 ottobre 1815,
sull'onda emotiva per la prossima restituzione dei cavalli di bronzo da parte
francese e proprio qui il Sovrano prese atto della necessità di una rapida
sistemazione normativa del Regno.
Nel Veneto come in Lombardia, però, l’iniziale entusiasmo con cui la
popolazione aveva accolto gli austriaci, mutò ben presto in un atteggiamento
critico, se non addirittura d’aperta ostilità: esasperati ed impoveriti dal gravoso
sistema continentale imposto da Napoleone, da un’oppressiva tassazione e dai
numerosi reclutamenti militari, le popolazioni delle nuove province, soprattutto le
meno abbienti si aspettavano dall'Asburgo, quantomeno una riduzione delle
vessazioni statali.
Accadde invece che per diversi mesi dopo il loro arrivo a Venezia, gli
austriaci lasciarono del tutto immutata la situazione ereditata dai francesi,
continuando a riscuotere gli elevati balzelli napoleonici ed a conservare intatta,
per quasi due anni, la legislazione, il sistema giudiziario e l'apparato burocratico
francese.
Già con il 1820-21, l'opinione favorevole era già radicalmente mutata,
tanto che dopo lo scoppio della rivoluzione napoletana del ’20, tutte le categorie
sociali erano diventate, per un verso o per un altro, ostili alla politica del governo
Lombardo-Veneto: infatti, da una parte l’aristocrazia veneta auspicava la
4
restaurazione dell’antica e gloriosa Repubblica di Venezia, dall’altra la
maggioranza del popolo desiderava la mite amministrazione austriaca che aveva
retto il paese tra il 1798 ed il 1805 e che aveva lasciato un buon ricordo.3
La situazione era talmente in fermento che autorevoli esponenti della
nomenklatura asburgica come il governatore della Lombardia, conte Giulio
Strassoldo, il comandante delle truppe asburgiche nel Lombardo Veneto, conte
Ferdinando Bubna, ed il barone Giovanni Sardagna, osservatore speciale del
Metternich per l’Italia settentrionale, erano d’accordo nell’affermare che, esclusa
la Valtellina, solo l’esercito poteva reggere le province austriache in Italia. A
consolidare quest’affermazione veniva la constatazione da parte di Vienna della
debolezza morale e politica di quel ceto nobiliare veneto che tanto famoso era
stato nei secoli precedenti: la sue debolezza era tale che nessun esponente
austriaco era convinto della sua meritevolezza nell’assumere la guida delle
province.
Per governare questi nuovi territori asburgici era stato nominato, sin dal 25
ottobre del 1813, un glorioso uomo d'armi, il principe Heinrich Reuss Plauen, che
aveva però una scarsa conoscenza dei nuovi territori; per sopperire a ciò, nei
palazzi d'Udine e poi di Padova, dove risiedeva il principe nell'attesa di poter
entrare a Venezia ancora presidiata dai francesi, stava costantemente al suo fianco
un consigliere trentino, Carlo Giusto Torresani di Lanzfeld. Con quest'incarico,
Torresani venne in contatto con quello che sarebbe divenuto in seguito suo
dipendente alla Direzione generale di polizia a Milano, il comasco conte Luigi
Bolza, funzionario di polizia napoleonica, inviato in quella regione per
combatterlo.4
3
RATH R. J., L’amministrazione austriaca nel Lombardo Veneto in «Archivio economico dell’unificazione
italiana», serie I, volume IX, Roma 1959
4
BOLZA L., Misteri della Polizia austriaca in Italia, Milano 1863.
5
Questo caso ci fa capire le linee fondamentali imposte dagli austriaci dopo
la Restaurazione, nel Regno Lombardo-Veneto, per la riorganizzazione della
Polizia.
Due dei maggiori rappresentanti delle critiche liberali, Torresani e Bolza,
erano, il primo l'esempio dell'ingerenza trentina nelle più importanti cariche
pubbliche, mentre il secondo, l'emblema della continuità con il precedente regime.
Una continuità di fatto che fu formalizzata quando una Risoluzione
Sovrana, il 12 settembre 1824, concesse agli impiegati del cessato governo
italiano di essere trattati con la normativa amministrativa austriaca a patto che
dimostrassero che, dopo la rioccupazione austriaca, avevano servito per dieci anni
senza interruzione con fedeltà e diligenza l’amministrazione asburgica, proprio
come aveva fatto il conte Bolza
In questa situazione, la dirigenza veneta si dimostrò ancora una volta
incapace d'imporre un proprio ruolo e quando, il 22 luglio 1814, fu creata un
Aulica Commissione Organizzativa Centrale con il compito di organizzare le
province di recente acquisto, la nobiltà veneziana restò esclusa da qualsiasi carica.
La Commissione, presieduta dal barone Giovanni Lazanzky, inviava i rapporti e
riceveva le disposizioni direttamente dall’imperatore ed era direttamente a lui, che
rispondevano anche i governi provvisori del Lombardo-Veneto.5 Prima di
esprimere qualsiasi parere, i delegati avevano il compito di indagare
accuratamente sulle situazioni locali, ed in particolare sull’amministrazione
esistente, sulle tasse e sulle altre entrate statali.
Questa complicata procedura rese impossibile ogni rapida trasformazione
del Regno, anche se furono proprio i delegati italiani a fornire alla commissione
informazioni dettagliate sulle condizioni locali, sul precedente sistema
5
SANDONÀ A., Il Regno Lombardo Veneto, 1814-1859, Milano 1911, pag. 74.
6
amministrativo e legale. Alcuni consiglieri della corte di giustizia, inoltre, furono
assegnati alla Commissione organizzativa come consulenti, ma tutto il lavoro in
connessione con l’amministrazione giudiziaria doveva competere esclusivamente
alla Suprema Corte di Giustizia. In questa maniera furono tracciate le linee
fondamentali del nuovo Regno, arrivando con il 15 d’aprile del 1815, a nominare
governatore per la Lombardia, il conte Francesco Saurau.
In teoria, sebbene le province italiane costituissero un regno unico, nei fatti
erano divise in due distinte unità amministrative, ognuna con un proprio governo
centrale, che sia in Lombardia sia in Veneto eseguivano gli ordini provenienti da
Vienna, nell’ambito del territorio a loro assegnato i rispettivi governi tutelavano i
diritti e l’autorità del sovrano ed ammettevano le persone alla cittadinanza
sovrintendendo ai pubblici funzionari.
Il territorio Lombardo-Veneto era così composto: del governo Lombardo
facevano parte le Delegazioni di Milano, Como, Bergamo, Brescia, Pavia,
Cremona, Mantova, Lodi, Crema, Sondrio, e di quello Veneto con le Delegazioni
di Venezia, Verona, Udine, Padova, Vicenza, Treviso, Rovigo, Belluno.6
Ciascuna Delegazione, istituita dal 1 febbraio 1816, era a sua volta suddivisa in
sotto unità territoriali, i Distretti, che presentavano qualche analogia con i Cantoni
napoleonici, la Lombardia n’aveva 127 e il Veneto 91. Alla ripartizione
territoriale ora delineata fu applicata una doppia gerarchia di poteri: la prima
costituita da funzionari professionali di nomina imperiale o governativa, la
seconda a designazione locale che pareva rifarsi all’antica costituzione adottata da
Maria Teresa nella sua prima dominazione lombarda. Secondo lo schema
teresiano i comuni furono divisi in tre classi, nei più piccoli, o comuni di terza
classe, tutti i proprietari s’incontravano due volte l’anno in assemblea generale
6MERIGGI M., Il Regno Lombardo Veneto., Torino 1987, pag. 34.
7
alla presenza del cancelliere del censo o del suo aggiunto, per suddividere i tributi,
approvare il bilancio, eleggere i funzionari e definire la politica generale.
L’assemblea eleggeva un comitato di tre proprietari per trattare gli affari comunali
durante l’intervallo tra le riunioni generali, ma nei comuni più grandi, di prima e
seconda classe, in luogo di un’assemblea generale era eletto un consiglio
comunale composto dai 30 ai 60 membri, un sindaco ed una congregazione
municipale per sovrintendere all’amministrazione. I comuni di seconda classe,
come quelli di terza, erano sotto la supervisione del cancelliere del censo, mentre
le città reali ed i capoluoghi di provincia, che costituivano i comuni di prima
classe, erano sotto il controllo delle Delegazioni provinciali.
Per coordinare le varie attività amministrative e far conoscere
all'imperatore i bisogni e i desideri degli abitanti del Regno Lombardo-Veneto,
furono istituite con Sovrana Patente del 24 aprile 1815 le Congregazioni centrali
di Milano e di Venezia e le Congregazioni provinciali.
Tale sistema di poteri s’inoltrava nei vari distretti, dove si realizzava nelle
sue forme quotidiane il rapporto tra stato e sudditi, attraverso questi funzionari
imperiali, denominati da prima Cancellieri del Censo ed a partire dal 1819,
commissari distrettuali: questi avevano un'importante funzione di polizia, poiché
se le unità periferiche a livello di provincia erano subordinate alle Direzioni
generali, nei distretti il commissario distrettuale era l'estremo anello d’irradiazione
del potere.
Una circolare del Governo veneto, del 10 luglio del 1820, rese chiari i
requisiti per accedere alla carica di commissario e d’aggiunto: era necessario
essere cittadini degli stati di Sua Maestà l’imperatore, avere mantenuto una buona
8
condotta morale, aver compiuto gli studi legali ed aver, per almeno un anno,
prestato servizio d’alunno presso qualche commissariato distrettuale.7
Il fatto che la nomina di tutti i funzionari, presenti a vario titolo nel sistema
organizzativo descritto, spettavano allo stato, costituisce una conferma delle linee
generali impostate in epoca napoleonica: affermando in pratica la centralità del
pubblico potere nelle procedure funzionali della convivenza civile, si completò
l'opera di gerarchizzazione e burocratizzazione dello Stato.
Il criterio tipico dell’epoca napoleonica della funzionalità e dell’efficienza
dell’amministrazione, però, fu soppiantato in età austriaca da un’assai maggiore
attenzione alla correttezza formale delle norme procedurali. Questo comportò una
maggiore presenza d’istanze di ricorso, ciascuna delle quali giudicava l’operato
dell’istanza precedente, contribuendo in misura decisiva ad allungare i tempi di
decorso di qualsiasi atto amministrativo.
Comunque, se all’epoca del Regno italico i momenti partecipativi
all’elezione del potere erano stati totalmente soffocati, nel Regno Lombardo
Veneto faceva la sua ricomparsa una struttura costituzionale autonomista che
scorreva parallela a quella istituzionale. 8
Alle Congregazioni municipali, in materia di polizia, competeva la
denuncia dei fatti accaduti nel proprio territorio, l’azione contro il vagabondaggio
e contro la promiscuità dei letti, la prevenzione degli incendi, il controllo sulle
locande e osterie ed infine sulla moralità pubblica.9
7
Collezione di leggi e regolamenti, p.p.10 e 11 volume VII, parte II, F. Andreola, Venezia 1820.
8
MERIGGI M., Il Regno Lombardo Veneto., Torino 1987, pag. 37.
9
TONETTI E., L’amministrazione comunale a Treviso nell’età della Restaurazione (1816-1848) in «Studi storici»,
I° Trimestre, Roma 1987.
9
Proprio in questi determinati ambiti d’esercizio della vita amministrativa
comunale, la costituzione delle autonomie locali pareva addirittura avere il
sopravvento sulle articolazioni di controllo dell’apparato statale.
10
Capitolo II
La giustizia
“Che necessità c'è di far occupare ogni
posto notevole da tirolesi e da sudditi di
altre province? Che vantaggio c'è a darci
per giudici degli sciocchi che non
conoscono nessun aspetto della
giurisprudenza, che non possono avere
alcuna conoscenza delle leggi del nostro
paese, che danno continuamente giudizi
contraddittori, sicché si perde ogni fiducia
nella giustizia amministrativa in Italia?
Paolo de Capitani al Metternich, in un
colloquio del 1832.
Georg Wilhelm Friedrich Hegel, nei lineamenti di filosofia del diritto,
aveva espresso l’idea di uno stato che per garantire l’ordine e la pace sociale,
affidava l’autorità giudiziaria e la Polizia al potere governativo10: nel pensiero
hegeliano vi era la consapevolezza della superiorità dello Stato moderno, che
aveva eliminato le strutture arcaiche con le loro giurisdizioni particolari e le
polizie settoriali. Allo Stato, quindi era attribuita la guida dell’intera società civile
e al governo, che ne rappresentava l’espressione, il compito di coordinarne
l’azione e perseguirne gli obiettivi.
L’idea dello stato di diritto, d'altronde, appariva definitivamente acquisita
per merito soprattutto della codificazione, intesa come disciplina normativa
dell’intera società civile, ideale che era portato avanti proprio dalla filosofia
giuridica postkantiana, i cui testi si andavano diffondendo tra la classe dirigente
austriaca.
10
Amministrazione della giustizia e poteri di polizia dagli stati preunitari alla caduta della destra, in «Atti del LII
congresso di storia del risorgimento italiano (Pescara 7-10 novembre 1984) », Istituto per la storia del risorgimento
italiano, Roma 1986, pag. 25.
11
Vi era in ciò, tutta la fiducia dell’uomo ottocentesco nel governo e nelle
leggi emanate da questo, ed era forte la tradizione giurisprudenziale germanica,
dove il potere giuridico e quello di polizia erano uniti per tutelare lo status quo.
Proprio in quegli anni, fra il 1818 e il 1848, però, una nuova forma di
dispotismo, che lo stesso Montesquieu non aveva previsto, si era venuta
costituendo e rafforzando nell'ambito dello stato; il governo, infatti, in virtù della
centralizzazione politico-amministrativa, poteva contare su di un potere così
concentrato da esercitare un'influenza su tutti i settori della collettività.11
Il problema del controllo sulla Magistratura da parte dell'Esecutivo era
diventato, quindi, un punto centrale dei nuovi regni restaurati e se i diversi regimi
prerivoluzionari erano stati caratterizzati dall'asservimento della Magistratura al
governo, la successiva impostazione giacobina aveva almeno evidenziato il
problema.
La separazione dei poteri era, però, inconcepibile in uno stato monarchico
ed era ben chiaro, che Napoleone non aveva instaurato un regime nel quale
l'organo giudicante era indipendente dal Governo. Del resto lo stesso Montesquieu
riteneva che questa separazione fosse un passo fondamentale, tendenza che fu
sempre considerata, a metà del secolo scorso, una linea tendenziale cui ispirarsi.
Doveva essere, però, una conquista effettiva, piuttosto che la soluzione puramente
formale realizzata in quegl'anni, come la giusta critica oggigiorno tende ad
evidenziare.
La critica, però, del sistema burocratico e della codificazione, pur corretta,
non dovrebbe dimenticare la situazione d'antico regime, dove la facile confusione
di poteri giurisdizionali ed amministrativi e la scarsa chiarezza delle competenze,
diedero adito ad un'ampia discrezionalità dell'amministrazione della giustizia.
11
D'ADDIO M., Politica e Magistratura, Milano 1966, pag. 4.
12
Nell’Impero asburgico, che più d’ogni altro ordinamento aveva assimilato
molti dei contenuti caratterizzanti dell’esperienza napoleonica, il controllo sulla
Magistratura si esercitava mantenendo il proprio sistema giuridico nei binari della
più stretta legalità. Perciò il criterio della funzionalità e dell’efficienza
dell’amministrazione, tipica dell’epoca napoleonica, fu soppiantato in età
austriaca da un’assai maggiore attenzione alla correttezza formale delle norme
procedurali.
Il lungo tirocinio, voluto dalla legge, per essere ammessi alla carriera
giudiziaria, inoltre, operava inevitabilmente una selezione sociale, facendo sì che
solamente chi era dotato di un cospicuo patrimonio potesse prestare la sua opera
senza compenso alcuno per molti anni.
Proprio la figura del praticante, che nel Lombardo-Veneto era l’Alunno,
rappresentava un chiaro esempio della difficoltà della borghesia nell’emergere
all’interno dell’apparato burocratico statale, in sostituzione dell’aristocrazia
dominante.12
Per quanto riguardava l’aspetto disciplinare, senza dubbio il più delicato e
più importante, la legislazione austriaca garantiva al magistrato un giudizio
obiettivo e conferiva una notevole autonomia al giudice, che solo in alcuni casi
era temperata dall’intervento del ministro o dal sovrano.
L’esigenza poi, di dare al giudice sicure garanzie contro eventuali
pressioni del potere esecutivo, si realizzava nelle norme che disciplinavano le
promozioni ed i trasferimenti, affidando allo stesso ordine giudiziario i pubblici
concorsi.
12
MERIGGI M., Amministrazione e classi sociali nel Lombardo-Veneto (1814-1848), Il Mulino, Bologna 1983,
pag. 295.