7
reti di protezione a tutela di singole categorie produttive, condizioni più
concorrenziali ed incentivi ad innovare. Contribuì, inoltre, a orientare verso
l’esportazione tanto le grandi che le piccole imprese industriali italiane.
Il secondo tratto riguardava l’intervento pubblico nell’economia: le vicende
del capitalismo italiano furono caratterizzate, in primo luogo, dalla rinunzia
dello Stato a svolgere direttamente entrambe le funzioni tradizionali di
programmazione e di regolazione; in secondo luogo, dalla scelta di affidare
agli enti pubblici autonomi il compito di indirizzare strategicamente il
completamento dell’industrializzazione del paese. In altre parole non vi fu
alcun tentativo da parte dello Stato di costruire strutture per lo sviluppo di
uno paese moderno: rinunziò a disegnare assetti e poteri del governo
nazionale e dei governi locali tali da gestire e normalizzare i divari di reddito
esistenti nell’interno del paese; rinunziò ad adottare un imposizione
straordinaria che potesse consentire sia di utilizzare al meglio i profitti di
guerra, sia di finanziare la ricostruzione, sia di frenare l’inflazione; non attuò
una riforma fiscale tale da accrescere stabilmente le imposte per finanziare le
spese dello stato sociale; non avviò piani (quantitativamente rilevanti) di
edilizia residenziale pubblica; non realizzò politiche industriali attive; e,
soprattutto, anche a causa delle altre rinunzie, non avviò una riforma
dell’amministrazione pubblica.
Un’altra scelta di politica economica effettuata dallo Stato fu quella di
rinunziare a fissare le “regole”, ossia i diritti ed i doveri da applicarsi nel
“gioco” fra gli interessi di individui e classi diverse, al fine di dare loro
certezze e parità di opportunità. L’Italia, quindi, si ritrovò nel dopoguerra
con un Codice civile che era stato ridisegnato ed aveva assorbito il codice di
commercio appena quindici mesi prima della caduta del fascismo, nel 1942.
Il suo limite, ha sostenuto Irti, stava nel fatto che, pur riconoscendo rispetto al passato
la centralità dell’impresa, esso ignorava i problemi dell’economia di mercato, il fatto che nel
mercato la protezione giuridica dell’autonomia privata coincidesse appieno con la disciplina
del mercato e con la tutela della concorrenza. Gli era, insomma, sostanzialmente estraneo
8
il principio che la piena opportunità di accesso ai mercati rappresentasse uno dei
fondamentali diritti da tutelare per tutti i cittadini ed una condizione fondamentale di
sviluppo2.
Eppure, nonostante queste rinunzie, lo Stato fu attore decisivo del
modello di sviluppo post-bellico: con il rafforzamento e lo sviluppo degli
enti pubblici autonomi scelse di fare pieno uso dell’intervento pubblico e di
delegare agli uomini a capo di queste istituzioni il compito di indirizzo dello
sviluppo a cui lo Stato rinunziò in prima persona.
Il terzo tratto del compromesso post-bellico riguardava le relazioni
industriali che potevano sembrare simili a quelle di altri paesi: una contenuta
crescita salariale che consentiva un elevato autofinanziamento, che a sua
volta si traduceva in alti investimenti. Vi erano, in realtà, due radicali
differenze: in primo luogo, la crescita dei salari era molto più bassa rispetto
agli altri principali paesi europei; in secondo luogo, il fenomeno della bassa
crescita dei salari e la compressione dei diritti personali dei lavoratori che vi
si accompagnò non furono frutto di un accordo, ma derivarono dai rapporti
di forza connessi ad un tasso di disoccupazione assai elevato, molto più che
negli altri principali paesi europei.
Tre furono dunque i tratti del compromesso post-bellico: liberismo
internazionale; intervento dello Stato attraverso gli enti pubblici anziché con
la regolazione e la programmazione; contenimento dei salari e dei diritti dei
lavoratori. Questi tratti non configurarono né un trionfo iperliberista, né
costituirono un trionfo statalista; possiamo dire che tale modello rappresentò
invece un compromesso tra idee ed interessi, pure assai diversi, che
conversero in una rinunzia ed in una scelta: la rinunzia a disegnare le regole
del gioco per l’ordinario funzionamento dei mercati e dell’amministrazione
pubblica; la scelta di restare nel solco segnato negli anni venti e trenta,
affrontando i problemi dello sviluppo per mezzo dello strumento
2
Irti, N. 1990 La cultura del diritto civile, Utet, Torino, pp. 44 – 65 – 66
9
straordinario degli enti pubblici. Si trattava, dunque, di un compromesso che
possiamo definire “straordinario”.
Tale è la situazione che si presentava nell’immediato dopoguerra. Proprio
partendo da qui si è cercato di analizzare l’evoluzione che ha condotto il
capitalismo italiano fino ai giorni nostri; a tale scopo sono state evidenziate
le permanenze e le mutazioni di alcuni aspetti che paiono più caratterizzanti:
l'assetto proprietario, la dirigenza, i mezzi di comunicazione di massa e
l’utilizzo del suolo. Il lavoro è introdotto da una breve carrellata storico-
economica che partendo dall’unità d’Italia ci porta al secondo conflitto
mondiale. Buona lettura.
10
CAPITOLO 1
ASPETTI E CARATTERISTICHE DELLO SVILUPPO
CAPITALISTICO ITALIANO DALL’UNITA’ ALLA SECONDA
GUERRA MONDIALE
1 Introduzione
Nel giro di poco più di cent’anni, tra l’unificazione politica del paese ed il
secondo dopoguerra, l’economia e le società italiane conobbero una
trasformazione radicale. Aumentò il volume complessivo dei beni e dei
servizi prodotti e tale crescita fu accompagnata da un sostanziale
cambiamento strutturale del sistema economico. Diminuì progressivamente
e marcatamente l’incidenza del settore agricolo sul prodotto interno lordo
(PIL) e sull’occupazione totale, benché l’agricoltura fosse rimasta sino ad
oltre la seconda guerra mondiale il comparto con il maggior numero di
addetti. Viceversa si dilatò l’importanza dell’industria sia in termini di forza
lavoro occupata, sia come quota percentuale del PIL. Anche la crescita del
terziario fu rilevante, ma esso non assunse ancora le dimensioni raggiunte
nei decenni a noi più vicini.
Tabella 1. Composizione percentuale del PIL per settori 1861-19633
Anno Agricoltura Industria Servizi Pubblica amministrazione
1861 46,1 18,4 30,4 5,1
1913 37,6 24,9 32,0 5,5
1938 26,6 30,3 31,7 11,4
1963 16,5 49,5 26,0 8,0
Il reddito crebbe con ritmi superiori rispetto a quelli della popolazione
che passò dai 25,8 milioni di abitanti del 1861 ai 49,9 del 1961: il prodotto
interno lordo pro capite risultò così più che triplicato nell’arco di cent’anni. I
11
suoi incrementi furono contenuti nel primo quarantennio post-unitario, più
intensi in età giolittiana; la crescita continuò, anche se più lentamente, nel
periodo fascista e divenne impetuosa dopo la seconda guerra mondiale.
Tabella 2. Composizione percentuale della forza lavoro per settori 1881-
19814
Anno Agricoltura Industria Servizi Pubblica amministrazione
1881 59 24 17 -
1911 59.1 23,6 15,3 2,0
1936 52,0 25,6 19,0 3,4
1963 26,6 40,1 25,6 7,7
1981 11,1 41,5 34,4 13,0
Tabella 3. Produzione industriale. Tassi di crescita annui medi 1861-19135
Anno Indice Gerschenkron Indice Istat Indice Fenoaltea
1861-1881 - 2,0 2,2
1881-1888 4,6 1,0 6,2
1888-1896 0,3 0,0 1,2
1896-1908 6,7 5,0 7,6
1908-1913 2,4 1,5 2,3
La dinamica della produzione industriale presentava un notevole
sincronismo con l’andamento del reddito pro capite e si può considerare
come il fattore determinante dello sviluppo economico. I diversi indici
elaborati al riguardo concordano nell’individuare una fase di faticoso
progresso nei primi vent’anni dopo il 1861. Tra il 1881 e il 1913 il secondario
crebbe più velocemente. Smaltiti gli effetti del conflitto e quindi della
difficile riconversione post-bellica, la produzione industriale crebbe nel
periodo fascista, anche se meno rapidamente che in età giolittiana, per subire
poi una dura battuta d’arresto con la seconda guerra mondiale. Dopo il 1945,
terminata la fase della ricostruzione, l’Italia visse il suo momento di maggiore
3
Zamagni, V. 1990 Dalla periferia al centro. La seconda rinascita economica dell’Italia 1861-1981, il
Mulino, Bologna, p. 54
4
Istituto centrale di statistica (Istat), 1968 Sommario di statistiche storiche dell’Italia 1861-1965, Roma,
p. 96
5
Zamagni, V. 1990 Dalla periferia al centro, cit., p. 106
12
sviluppo. Industrializzazione e diffusione dei consumi segnarono un
decennio in cui si compì definitivamente la metamorfosi del paese in società
industriale.
Tabella 4. Indice della produzione industriale 1923-1939 (1929=100)6
1923 1925 1927 1929 1931 1933 1935 1937 1939
73 92 89 100 86 91 96 111 121
Tabella 5. Prodotto lordo dell’industria. Saggio annuo di variazione
percentuale 1921-19677
1921-1938 1949-1967
3,6 6,7
Tabella 6. Forza lavoro in alcuni comparti dell’industria manifatturiera
(percentuale su totale addetti industria manifatturiera) 1911-19618
Settori 1911 1937-1939 1961
Alimentari e bevande 13,8 14,0 8,8
Tessile 22,9 17,6 13,1
Abbigliamento 8,9 8,3 7,5
Legno e mobili 11,9 8,3 8,5
Metallurgia 1,9 3,0 4,3
Meccanica 16,7 24,9 31,1
Chimica 2,6 4,5 6,0
Gomme 0,1 0,7 1,2
Il settore secondario, che tanto aveva contribuito a questi epocali
mutamenti, si trasformò anch’esso. Ne fu evidente indicatore il diverso peso
che assunsero i vari comparti dell’industria manifatturiera nel corso dei
decenni: rispettando il classico percorso dei paesi sviluppati, si ridimensionò
il ruolo dei settori tradizionali (tessile ed alimentare), mentre acquisirono una
maggiore importanza la metalmeccanica e la chimica (tabella 6).
6
Zamagni, V. 1990 Dalla periferia al centro, cit., p. 347
7
Fuà, G. 1981 Lo svilyppo economico in Italia. I. Lavoro e reddito, Franco Angeli, Milano, p. 286
8
Doria, M. 1998 L’imprenditoria industriale in Italia dall’Unità al “miracolo economico”, Giappichelli,
Torino, p. 11
13
Il processo di cambiamento e sviluppo si svolse con un ritmo che, se da
un lato non poteva non risentire del più generale andamento dell’economia
Tabella 7. PIL e PIL pro capite in Italia 1861-1963 (a confini attuali e prezzi
costanti)9
Anno PIL PIL pro capite
1861 100 100
1896 131 104
1913 198 140
1922 231 157
1929 271 174
1938 315 187
1951 359 196
1963 719 365
Tabella 8. Andamento del PIL e del PIL pro capite in Italia in diverse fasi
storiche (a confini attuali e prezzi costanti)
PIL PIL pro capite
Variazione
percentuale
totale
Variazione
percentuale
media annua
Variazione
percentuale
totale
Variazione
percentuale
media annua
1861-1896 31 0,9 4 0,1
1896-1913 51 3,0 35 2,0
1922-1938 36 2,2 19 1,2
1951-1963 100 8,3 86 7,2
internazionale, dall’altro fu profondamente influenzato dalle specifiche
caratteristiche economiche e politiche dell’Italia e dalla loro evoluzione
storica. Di tale evoluzione cercheremo ora di delineare sinteticamente le
diverse fasi.
2 La situazione al momento dell’unificazione
Nel 1861 circa il 70 per cento della popolazione attiva era impegnato in
agricoltura, un’agricoltura spesso di sussistenza, con un bassissimo utilizzo di
capitali; l’alimentazione della grande maggioranza della popolazione era
9
Zamagni, V. 1990 Dalla periferia al centro, cit., p. 53
14
misera e carente di proteine, grassi e zuccheri, ma assorbiva quasi il 70 per
cento del reddito medio pro capite: non c’è da stupirsi se nel 1861
l’aspettativa di vita media alla nascita fosse di soli 30,5 anni, con un indice di
mortalità nel primo anno di vita superiore al 20 per cento. Contribuirono a
rendere più desolante questo quadro i forti tassi di analfabetismo.
Il reddito lordo pro capite italiano era nel 1860 sensibilmente più basso
rispetto a quello che si registrava nei paesi di prima industrializzazione,
Regno Unito e Belgio, e nella vicina Francia, pur collocandosi
sostanzialmente al livello medio europeo (tabella 9).
Tabella 9. Prodotto nazionale lordo pro capite in Europa 186010
Europa Europa
continentale
Regno Unito Belgio Francia Italia Russia
100 91,3 180 158 117,7 97 57,4
“L’arretratezza” dell’Italia era dunque tale se si confrontava la situazione
economica della penisola con quella delle più avanzate realtà dell’epoca, ma
era assai meno, o per nulla, evidente se si guardava all’Europa continentale
nel suo complesso, dove il fenomeno dell’industrializzazione interessava
alcune limitate aree, ma era ben lungi dall’avere investito la maggior parte del
vecchio continente. Se poi analizziamo le varie situazioni singolarmente e
definiamo gli specifici tratti delle diverse realtà regionali, si possono cogliere
aspetti che, seppure parziali, smentiscono l’immagine di “mondo immobile”.
La realtà era dunque articolata: nel complesso le ombre dominavano sulle
luci; nella sua relazione finale dell’Inchiesta agraria e sulle condizioni della classe
agricola, pubblicata nel 1884, Stefano Jacini parlò di parecchie Italie agricole
differenti tra loro. Complessivamente il processo di accumulazione di capitali in
agricoltura fu assai debole e interessò in particolare alcune aree
dell’agricoltura piemontese e lombarda. Al momento dell’unificazione era
10
Cattini, M. 1992 La genesi della società contemporanea europea, Delta, Parma, p. 402
15
dunque già riscontrabile lo squilibrio esistente nel fondamentale settore
economico, quello primario, fra Nord e Sud del paese.
Non deve stupire il fatto che in un paese dall’agricoltura povera ed
investita assai parzialmente dal processo di trasformazione capitalistica le
condizioni del comparto manifatturiero fossero molto arretrate. Prevaleva
un modo di produzione basato sulla cosiddetta “protoindustria”, un’attività
svolta a domicilio, nelle campagne, da una manodopera contadina che vi si
dedicava nei periodi di sospensione del lavoro nei campi. Il processo
produttivo era organizzato da mercanti imprenditori che fornivano a tale
forza lavoro le materie prime per poi ritirare il prodotto finito da collocare
sul mercato. Questa attività manifatturiera si localizzava in prevalenza nelle
zone collinari e prealpine del Nord Italia, dove era disponibile una
manodopera abbondante e poco costosa: si trattava, infatti, di aree di
agricoltura povera, con raccolti non sufficienti a sfamare una popolazione
numerosa, alla ricerca quindi di proventi capaci di integrare i modesti redditi
agricoli.
Come ha suggerito M. Doria è innegabile il contributo che la protoindustria ha
dato alla fertilizzazione di un altrimenti asfittico tessuto economico: scambi commerciali
con l’estero e crescita delle partite attive della bilancia commerciale, sviluppo di una più
moderata rete commerciale e finanziaria, accumulazione di capitali, crescente abitudine di
una popolazione contadina al lavoro manifatturiero sono il portato di questa attività
diffusa11.
Assai rare, in questo panorama segnato dalla presenza del lavoro
domestico e di minuscoli opifici, furono le fabbriche vere e proprie. In
particolare secondo uno studio di Aliberti il settore alimentare era con il tessile il
ramo più importante del secondario; al suo interno l’attività molitoria occupava un posto
centrale. Essa si svolgeva in decine di migliaia di mulini (74764 secondo un censimento
effettuato nel 1872), conservando una fisionomia decisamente precapitalista. Tale carattere
11
Doria, M. 1998 L’imprenditoria industriale, cit., p. 15
16
era comune al settore della lavorazione del legno e ad altri comparti industriali minori12.
Infine, molto arretrata si presentava la siderurgia, in altri paesi simbolo del
processo di industrializzazione: l’Italia scontava la sua povertà di materie
prime (sia ferro sia carbon fossile). I rudimentali altiforni esistenti facevano
uso del carbone di legna e l’affinazione della ghisa avvenne sovente con
antichi metodi a fuoco aperto: i quantitativi di ghisa e ferro prodotti erano
davvero insignificanti.
3 1861-1881: cronaca di un avvio difficile
Nel primo ventennio post-unitario, l’agricoltura fu certamente la base
dello sviluppo economico italiano; di conseguenza ancora modesta era la
quota del reddito destinata al risparmio, anche se cominciarono ad avere una
certa diffusione sul territorio le Casse di risparmio e le banche popolari.
Oltre ai banchieri privati, cui spettava una funzione importante
nell’erogazione del credito a medio e lungo termine, comparvero sulla scena
alcuni istituti di credito ordinario: il maggior dinamismo di questi istituti
nella politica degli impieghi non alterò l’attitudine diffusa a privilegiare forme
di investimento più sicure quali la sottoscrizione dei titoli di Stato.
Come ha sottolineato Bonelli lo Stato era dunque il principale operatore
finanziario a livello peninsulare per la sua capacità di drenare il risparmio e di inasprire il
prelievo fiscale13.
Lo stesso Stato attirava poi capitale estero: le maggiori piazze finanziarie
europee, soprattutto Parigi, erano infatti attente alle remunerative occasioni
di allocazione di capitali che l’Italia offriva.
Sotto il profilo finanziario lo sforzo maggiore compiuto per “unificare “ la
penisola fu rappresentato dalla costruzione di una più efficiente ed articolata
rete di infrastrutture di comunicazione: si realizzarono più di 20000 km di
12
Aliberti, G 1977 Fra tradizione e rinnovamento: l’industria molitoria dopo l’Unità, in Mori, G. (a cura
di) L’industrializzazione in Italia (1861-1900), il Mulino, Bologna, p. 446
13
Bonelli, F. 1978 Il capitalismo italiano. Linee generali di interpretazione, in Storia d’Italia. Annali 1. Dal
feudalesimo al capitalismo, Einaudi, Torino, p. 1202
17
nuove strade, l’estensione delle linee telegrafiche passò da 9860 a 21437 km
e le ferrovie raggiunsero i 7686 km, dai 1829 che erano in esercizio al
momento dell’unificazione.
All’accresciuta lunghezza della rete non si accompagnò un corrispondente
aumento dei volumi di traffico: diminuì così il prodotto chilometrico lordo
ed il pubblico erario fu costretto a sborsare alle società private ragguardevoli
sussidi in denaro.
L’industria della seta si sviluppò grazie alle esportazioni in Francia e in
Inghilterra; i comparti laniero e cotoniero riuscirono faticosamente a
crescere: ne sono indicatori i dati relativi alle importazioni della materia
prima, che tendevano al rialzo e corrispondevano ad un’accresciuta
dotazione di macchinario. Più desolante il quadro offerto dall’industria
siderurgica e meccanica: la produzione di ferro e di acciaio era limitata e
l’arretratezza dei metodi di lavorazione impiegati rendeva i prodotti italiani
assai costosi, cosicché il mercato interno fu invaso da merci importate ben
più convenienti; il settore meccanico scontò il basso livello dei consumi e la
debolezza della domanda di beni di investimento. In queste condizioni
l’occasione offerta dalla costruzione della rete ferroviaria non venne colta dal
comparto metalmeccanico: locomotive, vagoni e rotaie arrivarono dall’estero
e solo in una quota modesta furono forniti dalle imprese nazionali.
Si trattò dunque dell’avvio di un processo di industrializzazione, capillare
ma limitato per la esiguità delle risorse disponibili nel sistema economico e
per la ristrettezza del mercato interno: spesso il basso livello dei redditi pro
capite consentiva appena di soddisfare i bisogni primari. Condizione
indispensabile per la sopravvivenza di queste realtà produttive era lo
sfruttamento di una manodopera a basso costo.
Gli industriali, sebbene pochi e costretti ad operare in un contesto non
certo favorevole, cominciarono a far sentire la propria voce, richiamando
l’attenzione del Parlamento e richiedendo un maggior protezionismo:
proprio le barriere doganali erano viste dagli ambienti industriali come
18
strumento indispensabile per consentire all'ancor gracile settore
manifatturiero di competere con l’agguerrita concorrenza estera.
Finalmente nel 1878, soprattutto a causa della “grande depressione”
generata dalla fortissima concorrenza americana, lo Stato decise di rivedere
in senso protezionistico le proprie tariffe doganali: vennero stabiliti dazi
specifici sui singoli prodotti determinati sulla base delle dichiarazioni di
importatori ed esportatori. A partire dal 1882 la spinta a ritoccare le tariffe si
fece più insistente e nel 1887 si giunse così all’approvazione della nuova
tariffa generale protezionistica.
Nel complesso, ha rilevato M. Doria, si trattò di provvedimenti che tutelavano sia il
settore industriale sia quello agricolo. È dunque appropriato sottolineare come tale scelta
fosse frutto delle convergenti pressioni degli ambienti industriali e di un mondo agricolo
che, dopo essere stato fedele ai principi liberoscambisti, approdò alla convinzione dell’utilità
dei dazi, che avrebbero offerto una qualche difesa di fronte alla concorrenza
internazionale14.
L’azione dello Stato non si limitò ai provvedimenti di carattere doganale;
la nuova Italia di Crispi, legata dal1882 a Germania e Austria-Ungheria nella
Triplice Alleanza, ambì a giocare un ruolo da grande potenza sia sullo
scacchiere europeo, sia nelle avventure coloniali; necessitava quindi di un
adeguato apparato militare e di un’industria nazionale capace di soddisfare le
richieste delle forze armate. Vari atti governativi mirarono a sostenere le
imprese private italiane nel settore metalmeccanico, cui ci si intendeva
rivolgere per le commesse militari che non potevano più essere espletate nei
soli arsenali statali.
I nuovi ordinamenti di politica economica erano riconducibili a
cambiamenti di fondo nell’ideologia delle classi dirigenti italiane. Crebbe il
peso parlamentare della borghesia urbana ed industriale. Le nuove
maggioranze parlamentari lavorarono alla costruzione di una Italia nuova:
non più un paese rurale ma una nazione industriale, senza che questo
14
Doria, M. 1998 L’imprenditoria industriale, cit., pp. 30 –31
19
elemento di auspicata novità nella sua economia significasse un attacco alla
stabilità delle gerarchie sociali.
A partire dalla fine degli anni Settanta e per il successivo decennio
l’espansione dell’industria fu marcata. In siderurgia la produzione di ferro
triplicò negli anni Ottanta rispetto al decennio precedente, mentre quella di
acciaio, esigua sino al 1880 decuplicò i propri risultati. Il formidabile tasso di
crescita della metallurgia si poteva spiegare con i suoi modestissimi livelli di
partenza. Considerazione analoga valeva per l’industria chimica: aumentò la
produzione base di acido solforico e cloridrico, si diffusero gli stabilimenti
adibiti alla produzione di perfosfati e di altri concimi chimici, sempre più
richiesti dalle aziende agricole della pianura padana. Infine più contenuto, ma
in ogni caso ragguardevole, fu il ritmo di sviluppo del settore meccanico.
4 L’accelerazione dello sviluppo
Guardando al periodo tra la fine del XIX secolo e la prima guerra
mondiale possiamo notare come il tasso annuo di incremento del PIL
divenne più elevato rispetto a quello registrato nei primi vent’anni post-
unitari; crebbero, infatti, produzione e produttività: si determinò così un
reale aumento del benessere, per quanto questo non fosse certo distribuito
in modo equilibrato.
Tale espansione economica non riguardò esclusivamente l’Italia, ma fu un
evento generale europeo. A partire dal 1896 l’economia internazionale entrò
in una fase di espansione. Lo sfruttamento di nuovi giacimenti auriferi e la
conseguente aumentata produzione mondiale di oro permisero l’incremento
della circolazione monetaria, che a sua volta favorì l’ascesa dei prezzi. Tutto
ciò suscitò le favorevoli aspettative degli operatori e vivacizzò il sistema
economico. Un formidabile impatto ebbero poi le innovazioni tecnologiche
che interessarono il settore industriale e non solo. Nel corso di pochi
decenni rilevanti acquisizioni scientifiche si tradussero in nuovi metodi di
produzione, che trovarono una rapida diffusione nelle fabbriche. Si posero
20
così all’avanguardia del processo di sviluppo economico i paesi che si
dotarono di un sistema d’istruzione di primo ordine a livello universitario,
con una attenzione particolare per le discipline scientifiche, e le imprese
capaci di finanziare generosamente i propri attrezzati laboratori di ricerca.
L’economia italiana risentì della mutata congiuntura e non fu estranea ai
cambiamenti che coinvolsero il sistema economico occidentale nel suo
complesso.
Forte fu l’espansione della produzione agricola; tra il 1896 ed il 1913
l’incremento medio annuo della produzione lorda vendibile fu del 3 per
cento. Si trattava, dunque, di un vero e proprio salto di qualità rispetto a
quanto avvenuto nel precedente ventennio. Il settore primario, oltre a
soddisfare meglio la domanda interna, contribuiva alle esportazioni italiane
con prodotti quali gli agrumi e il vino ed offriva sbocco ai prodotti
industriali.
Tabella 10. Agricoltura italiana: produzione lorda vendibile 1884-191315
1884-1888 1895-1899 1901-1905 1909-1913
Totale 100 103 124 139
Cereali 100 100 133 137
Leguminose 100 106 137 148
Patate e ortaggi 100 129 170 245
Frutta e agrumi 100 94 126 151
Prodotti olivo 100 79 104 69
Prodotti vite 100 92 118 147
Prodotti zootecnici 100 112 117 132
In una fase di intensa espansione dell’economia risultò più agevole la
formazione del risparmio che venne in parte indirizzato verso il sistema
bancario: le somme depositate presso gli istituti di credito ammontavano a
2682 milioni di lire nel 1895, a 5781 milioni nel 1907, a 8452 milioni nel
1913.
15Toniolo, G. 1988 Storia economica dell’Italia liberale 1850-1918, il Mulino, Bologna, p. 186