I diritti delle minoranze nelle società per azioni.
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amministratori, che talvolta si trasforma in una vera e propria deprivazione a danno
dell’uno o dell’altro azionista.
Tematiche che oggi si sviluppano di pari passo con le questioni fondamentali della
trasparenza, dell’asimmetria informativa, della tutela del risparmio.
Tra le tante argomentazioni possibili in proposito, ai giorni nostri il dibattito risulta
concentrarsi in particolare sul corretto funzionamento dei consigli di amministrazione, che
viene generalmente considerato, dagli studiosi in materia di governance, come l’organo
che riveste il ruolo centrale nella tutela e bilanciamento degli interessi degli azionisti, degli
amministratori e del management aziendale in generale.
In Italia, a causa della già citata elevata concentrazione della struttura azionaria
dell’impresa, la tutela giuridica degli azionisti di minoranza, soprattutto per quanto riguarda
le società quotate, si può classificare in tre principali grandi categorie, in funzione di come
e dove la scissione tra diritto residuale di controllo e diritto residuale al rendimento
azionario sia realizzata.
La tutela delle minoranze si può analizzare rispetto ad una maggioranza che possiede la
maggioranza assoluta del capitale sociale, direttamente oppure attraverso accordi
relazionali o patti di sindacato (le quasi-maggioranze), con un controllo esercitato anche
sull’’impresa attraverso il management, fattispecie nella quale l’azionista di comando
tende ad esercitare il potere con una marcata presenza di benefici espropriativi, tipico di
imprese familiari quotate.
Altro può significare tutela delle minoranze quando ci si trovi di fronte a minoranze, o
quasi-minoranze, quando ci siano importanti rapporti relazionali con la maggioranza che
di fatto configurino situazioni di accordo anche parziale, rispetto ad una maggioranza che
possiede la maggioranza relativa delle quote azionarie, direttamente o tramite accordi
relazionali o patti di sindacato (quasi-maggioranze), e che esercita anche un totale o
parziale controllo dell’impresa attraverso il management, contenendo in questo caso i
benefici espropriativi, fattispecie che si verifica tipicamente nel caso di aziende con uno o
più soci finanziari di riferimento.
Altra cosa ancora è la questione della tutela delle minoranze (o quasi-minoranze) nei
confronti del management, in imprese dove anche la maggioranza non esercita il controllo
in modo totale o parziale, mentre il comportamento dei manager sia di tipo espropriativo
del potere nei confronti sia della minoranza che della maggioranza, e in Italia è questo il
caso in pratica soltanto di public companies o poche grandi imprese controllate dallo
Stato, direttamente o indirettamente.
5.2 I conflitti di interesse e le minoranze
Passiamo ora ad analizzare le numerose e differenti tematiche di conflitto d’interesse, o
comunque di divergenza di interessi tra azionisti di maggioranza, azionisti di minoranza e
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La oggettiva concentrazione del capitale di comando in capo a pochi soggetti, nel
cosiddetto capitalismo europeo continentale, ed in maniera particolare nel capitalismo
italiano, avvenuta ormai da tempo, ha avuto l’effetto di privare le assemblee delle società,
in special modo quelle quotate, del loro ruolo istituzionale di ambito deputato alla
formazione delle decisioni societarie, che dunque vengono prese altrove, e cioè là dove si
riunisce il capitale di comando, come dice Galgano, <<al di fuori di ogni possibile dibattito
con le minoranze…>>
173
.
In sostanza, alle maggioranze societarie è riconosciuta una predominanza evidente al
punto tale che la finanza d’impresa attribuisce al possesso di pacchetti azionari di controllo
i cosiddetti premi di maggioranza aggiuntivi. Ciò si traduce in valori maggiori, e
conseguentemente, in maggiori prezzi delle quote azionarie di controllo, il cui eventuale
acquisto da parte di aspiranti proprietari comporterà un esborso assai maggiore rispetto
alle azioni possedute dagli altri soci, e che costituisce la premessa necessaria al controllo
di un determinato pacchetto di maggioranza.
Sono evidenti i fattori di potere ascrivibili alle maggioranze, che possono ad esempio
eleggere gli amministratori, il management e stabilirne i compensi, stabilire l’importo dei
dividendi, determinare acquisizioni, in generale quindi decidere tutta la politica aziendale.
A tali fattori di potere corrispondono potenzialmente i benefici espropriativi di controllo, in
virtù dei quali risulta possibile quantificare consistenti premi di maggioranza nella
determinazione del valore dei pacchetti azionari, corrispondenti, secondo alcuni studi, nel
caso delle società quotate, ad un 31,6% di valore in più, in termini di media ponderata
174
.
Il mercato del controllo che ne deriva costituisce un ambito di naturale scontro di principi
ed <<istanze di democrazia economica>>
175
, dove necessita una reale tutela delle
minoranze azionarie, i soggetti deboli, che molto spesso risultano danneggiate dai
meccanismi soggettivi attraverso i quali avviene lo scambio di tali pacchetti.
Peraltro, risulta evidente che, mentre il prezzo di un pacchetto di controllo, oltre che
dall’attribuzione e quantificazione dei fattori di potere appena ricordati, dipende anche
dagli eventuali miglioramenti gestionali attuati dall’amministrazione societaria, il prezzo dei
pacchetti di minoranza possa essere espressione unicamente della capacità reddituale
dell’impresa, oltretutto ulteriormente subordinata ad una gestione non predatoria e ad una
corretta e proporzionale distribuzione degli utili.
173
Galgano F., La forza del numero e la legge della ragione. Storia del principio di maggioranza, Il Mulino,
Bologna, 2007, p.131, in Zanchi M., La tutela degli azionisti di minoranza nelle società quotate, Giuffrè,
Milano, 2009, p.95.
174
Zanchi M., La tutela degli azionisti di minoranza nelle società quotate, Giuffrè, Milano, 2009, p.97.
175
Ibidem nota 174.
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Molteplici sono i conflitti di interesse che permeano e presiedono costantemente l’intreccio
fitto di relazioni umane ed economiche che caratterizzano i vari aspetti della vita della
società per azioni, soprattutto delle società di medie e grandi dimensioni. Tra azionisti e
manager, tra azionisti ed azionisti di maggioranza, tra azionisti di maggioranza e
minoranza, tra i possessori di capitale di rischio (i cosiddetti “stockholders”) ed i portatori di
interesse (i cosiddetti “stakeholders”), tra azionisti di risparmio e titolari di stock options,
esistono divergenze più o meno marcate di prospettiva e di volontà, tanto da determinare
criticità spesso, purtroppo, difficilmente sanabili.
La tematica della tutela delle minoranze è saldamente intrecciata con quella dei conflitti di
interesse, sia in conseguenza della separazione tra proprietà e amministrazione
dell’impresa, sia a causa dei potenziali conflitti tra maggioranze e minoranze azionarie
nell’ambito degli assetti proprietari, entrambi argomenti per i quali il dibattito sottostante
sulla corporate governance risulta sempre assai intenso.
Il problema, benché sempre presente, assume forme differenti nel caso delle società
quotate e delle cosiddette public companies, rispetto all’ambito più circoscritto di aziende
non quotate a conduzione familiare.
In particolare, in Italia il maggiore conflitto di interesse potenziale si riscontra
principalmente nell’ambito dell’insieme eterogeneo dei soci, ed è un conflitto tra
maggioranza e minoranza. La minacciosa e permanente presenza di pericolose ed
inevitabili asimmetrie informative costituisce un dato di fatto.
Il problema italiano è stato delineato da tempo come <<una rete di consigli di
amministrazione interconnessi>>
176
, definizione che pare sintetizzare con grande efficacia
la situazione del nostro paese.
Secondo Guido Rossi
177
, è compito del diritto, in definitiva, impedire il dilagare
incontrollato e senza regole delle dinamiche naturali ed irrazionali del mercato.
Il diritto societario italiano, che trae origine dal diritto franco-napoleonico, è fondalmente
basato sul principio di un governo d’impresa esercitato dagli amministratori in rapporto
fiduciario (duty of loyalty e duty of care) nei confronti dei portatori di interessi (gli
stakeholders).
Accade però che la teorica e idealizzata gestione realmente collegiale e collettiva dei
consigli di amministrazione si scontra con la realtà della diffusa pratica di concentrare
ampie deleghe e poteri di gestione nelle mani di pochi amministratori, benché dalla
176
Minz, Beth, United States of America, in Bottomore T., Brym R.J. (a cura di), The Capitalist Class. An
International Study, Harvest Wheathsheaf, New York London, 1989, in Zanchi M., La tutela degli azionisti di
minoranza nelle società quotate, Giuffrè, Milano, 2009, p.45.
177
Rossi G., Il conflitto epidemico, Adelphi, Milano, 2003.
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normativa siano previste pesanti ed oggettive responsabilità personali per i singoli
amministratori, anche non esecutivi, a controbilanciare, almeno in parte, il grande potere di
fatto dei consigli di amministrazione.
Ciò avviene, ad esempio, con l’art. 2392, che pone a carico di ciascun amministratore,
benché privo di qualunque delega di gestione, il generale obbligo di vigilanza e di azione,
qualora venisse a conoscenza di atti pregiudizievoli per la società, e che discende dal più
generale obbligo di diligenza, e dall’obbligo di vigilanza, da cui derivano responsabilità
anche di carattere penale per gli amministratori non esecutivi i quali, violando l’art. 40 c.p.
non impediscano <<un evento che si ha l’obbligo giuridico si impedire>>
178
, e che pertanto
risultano essere citabili <<a titolo di concorso nelle fattispecie di reati commessi da altri
amministratori, laddove vengano accertati anche dolo o colpa come elementi soggettivi di
reato>>
179
.
Peraltro il vizio del conflitto di interessi, in materia di responsabilità degli amministratori di
società, sussiste ad esempio quando la condotta da essi attuata è diretta al
soddisfacimento di interessi extrasociali, in danno della società, ma con la necessità di
essere accertata in concreto, senza perciò alcuna aprioristica considerazione della
eventuale soggettiva coincidenza tra i ruoli di amministratore e di socio in capo al
medesimo soggetto, occorrendo altresì la valutazione dell’esistenza di un rapporto
d’incompatibilità tra gli interessi del rappresentato e quelli del rappresentante, riferibile al
singolo specifico atto, con possibile creazione di un utile per un soggetto a discapito
dell’altro (Trib. Roma Sez. III, 16 dicembre 2010).
Una particolare fattispecie nell’ambito della tassonomia dei conflitti di interesse, più in
particolare inerente alle problematiche dei cosiddetti diritti di agenzia, è la tematica relativa
alle tunnelling transactions, quelle transazioni finanziarie che costituiscono una evidente
violazione dei diritti degli azionisti di minoranza, in quanto rappresentate da trasferimenti
più che proporzionali, e che avvengono in modo diretto, dall’uno all’altro azionista. Esse
costituiscono indubbiamente una delle modalità privilegiate in cui avvengono le operazioni
di tunnelling, anche se di per sé questo tipo di operazioni potrebbe essere effettuato anche
del tutto a favore della società e dell’insieme dei suoi azionisti.
Un altro elemento centrale nella vasta tematica dei conflitti di interesse è rappresentato
dalla presenza massiccia e pervasiva dei patti parasociali e dei patti di sindacato.
178
Cass. Penale, 5 febbraio 1998, n.3328 ha stabilito che : <<l’amministratore di diritto, ancorché “testa di
legno” può essere chiamato a rispondere dei reati fallimentari in quanto commessi con attività di concorso
con l’amministratore di fatto, attività di concorso che può essere attuata anche con omissioni>>, in Zanchi
M., La tutela degli azionisti di minoranza nelle società quotate, Giuffrè, Milano, 2009, p.48.
179
Zanchi M., La tutela degli azionisti di minoranza nelle società quotate, Giuffrè, Milano, 2009, p.48.
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Secondo Guido Rossi
180
, nella società per azioni contemporanea, in realtà i sindacati
azionari ed i patti parasociali, costituiti in forma contrattuale, hanno l’unico scopo di
aggirare i principi fondamentali alla base degli stessi mercati finanziari, ovverosia quelli
della proporzionalità tra potere di controllo ed investimento nel capitale di rischio. Pertanto
essi <<costituiscono naturali generatori di conflitto di interesse
181
>>.
Mediante regimi pattizi, dichiarati o segreti tra azionisti, definiti generalmente “sindacati di
voto”, si è verificata per secoli in Europa continentale la costituzione di maggioranze,
stabili o provvisorie, formali o informali. Questa pratica, assai diffusa, fu ritenuta per lungo
tempo illegittima, in quanto ritenuta lesiva del diritto di maggioranza, o quantomeno della
trasparenza ed intelligibilità degli assetti societari.
Nel nostro attuale ordinamento giuridico, in base all’art. 2341 bis c.c., introdotto con la
riforma del diritto societario del 2003, sono esplicitamente consentiti i sindacati di voto, in
quanto tesi a <<stabilizzare gli assetti proprietari o il governo della società>>.
I patti parasociali, che possono essere esplicitati o meno, hanno natura prettamente
privatistica. Pertanto, qualora il socio aderente al patto violasse il regime pattizio, non ne
deriverebbe l’inefficacia del voto assembleare, ma soltanto l’eventuale responsabilità per
danni del socio stesso nei confronti degli altri aderenti al patto, eventualità chiaramente
prevista dai regimi pattizi in quanto essi vengono usualmente blindati attraverso pesanti
regimi risarcitori od altri sistemi, come ad esempio l’indisponibilità fisica dei titoli azionari,
che vengono dati di comune accordo in gestione a società fiduciarie, delegate con rigide
disposizioni ad amministrarli.
Secondo Galgano
182
, in linea con i principi ispiratori alla base del codice civile, i patti di
sindacato, o meglio, e più precisamente i patti di blocco di maggioranza, non ledono i
principi di libertà del voto, non essendo opponibili alla società e non pregiudicando la
libertà del voto espresso in assemblea dal socio ad essi aderente con le eventuali
violazioni dei vincoli di sindacato.
Nel capitalismo relazionale ad alta concentrazione, con scarsità di capitali, come quello
italiano, è fortemente presente una naturale tendenza alla convergenza tra le principali
famiglie e gruppi finanziari del paese, al fine di evitare i conflitti ed il dispendio di forze
economiche, situazione che spesso però favorisce una sterile stabilità degli assetti
industriali del Paese, a discapito dell’efficienza immediata del sistema finanziario e non di
rado anche delle stesse società. Non è peraltro da escludere che un simile atteggiamento
180
Rossi G., Il conflitto epidemico, Adelphi, Milano, 2003, pp. 43-45.
181
Zanchi M., La tutela degli azionisti di minoranza nelle società quotate, Giuffrè, Milano, 2009, p.51.
182
Zanchi M., La tutela degli azionisti di minoranza nelle società quotate, Giuffrè, Milano, 2009, p.53.
I diritti delle minoranze nelle società per azioni.
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culturale, prima che economico, derivi da una oggettiva ed atavica situazione di scarsa
disponibilità di capitale finanziario, con la necessità quindi di dover sopperire alla ridotta
liquidità del mercato con sistemi impropri.
Considerata dunque la massiva tendenza, nell’ambito delle società italiane, a stringere
alleanze attraverso i sindacati di voto ed i patti parasociali più in generale, risulta
essenziale per le società quotate l’obbligo di comunicazione alla Consob e di successiva
pubblicità dei patti stessi. Ed è importante che siano comunicati e resi pubblici, qualora
esistano, in quanto la conoscenza dell’esistenza di patti parasociali costituisce un
elemento a tutela degli azionisti di minoranza, e più in generale del mercato e di tutti gli
azionisti non aderenti a tali regimi pattizi.
Generalmente i patti sono formalizzati contrattualmente e quindi pubblicizzati nelle forme
previste dalla normativa, ma in un capitalismo relazionale come quello italiano essi
tendono ad assumere anche forme implicite.
Peraltro, essi possono inoltre venire stipulati anche tra soci di minoranza, al fine di
esercitare pressioni e interloquire con maggiori possibilità di successo con la
maggioranza, e vanno comunque dichiarati e pubblicizzati nel caso in cui si tratti di società
quotate o di società cosiddette “aperte”
183
.
Nella forma di patti parasociali cosiddetta dei “sindacati di voto”, avviene che i pattisti si
impegnano a concordare, durante riunioni che si svolgono altrove rispetto all’assemblea
generale dei soci, luogo istituzionalmente deputato a tale funzione, le decisioni di voto
riguardanti i diritti complessivamente posseduti, e provvedendo anche eventualmente a
delegare alcuni soggetti, pattisti od anche terzi di fiducia, a rappresentare la volontà
espressa dai pattisti ed agire in sede assembleare in tale direzione, espropriando
sostanzialmente in tal guisa la sede assembleare della principale funzione ad essa
riconosciuta dalla legge, ovvero di luogo eletto alla formazione della volontà societaria.
Accade spesso dunque che gli azionisti di minoranza, con partecipazioni di modesta entità
economica, si convincano sempre più di non potere minimamente influire sulle decisioni e
le sorti della società, e le assemblee divengano soltanto la sede di notifica di decisioni, già
prese, della maggioranza precostituita.
Il capitalismo europeo, ed italiano in particolare, è stato da sempre classificato come
capitalismo di relazioni, in quanto caratterizzato dalla costante presenza nella sua storia
di tali patti, espliciti o talvolta anche semplicemente impliciti, magari costituiti da vari gradi
e tipologie di intrecci ed accordi più generali di non belligeranza tra soci di grandi gruppi
183
Vedi il capitolo 1.3. a pag.10.
I diritti delle minoranze nelle società per azioni.
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finanziari o industriali, con partecipazioni incrociate a più livelli: il capitalismo dell’invisibile
stretta di mano
184
.
In base all’art. 2341 bis c.c., essi oggi sono considerati dal nostro ordinamento, oltre che
validi, in una certa misura anche utili, in quanto finalizzati a stabilizzare il governo della
società. In realtà, una simile utilità, loro riconosciuta dalla legge in Italia, a parere dello
scrivente appare quantomeno opinabile, considerata l’applicazione della norma nella
realtà italiana, dove l’opportunismo ed il malaffare rappresentano una prassi diffusa, e non
l’eccezione, anche in ambito societario.
In ogni caso, per quanto riguarda le società quotate, nella comunicazione n. DIS/29486 del
18 aprile 2000 la Consob ha sottolineato che la disciplina delle convenzioni parasociali
rilevanti rispetto agli assetti proprietari delle società quotate, soprattutto riguardo agli
importanti profili di pubblicità e durata, è imposta in un’<<ottica di tutela degli investitori e
degli azionisti di minoranza>>, con lo scopo di <<garantire l’assoluta trasparenza degli
assetti proprietari e di controllo delle società quotate>>
185
. Anche per le società “aperte” e
per le società che le controllano sono previsti particolari obblighi pubblicitari e di
informazione.
L’informazione rispetto ai reali assetti proprietari della società ed ai regimi pattizi, anche
solo latenti, tra soci di maggioranza, dovrebbe essere il più trasparente possibile,
rappresentando, come già detto poco sopra, uno dei principali presidi a tutela degli
azionisti di minoranza, e degli investitori in generale. Allo stesso modo, è corretto ed
opportuno che le maggioranze societarie possano e debbano conoscere le formazioni di
intese e gli accordi tra soci di minoranza, che in pratica attuano una sorta di tutela diretta
delle minoranze, tanto da poter assumere dimensioni anche rilevanti nell’ambito degli
equilibri societari.
Il T.U.I.F. prevede specifiche norme relative ai patti parasociali. Pertanto esse si
applicano alle società italiane le cui azioni siano quotate in mercati regolamentati dei paesi
dell’Unione Europea. Ulteriori normative sono contenute nella delibera Consob n.11971
del 14 maggio 1999, oltre alle disposizioni conseguenti all’entrata in vigore del D.Lgs.
n.229 del 19 novembre 2007.
Purtroppo, analoghe forme di pubblicità e di informazione non sono attualmente previste
dal nostro ordinamento giuridico per le cosiddette società “chiuse”.
184
A.M. Okun, Prices and quantities. A macroeconomic Analysis, Oxford, Blackwell, 1981, in Zanchi M., La
tutela degli azionisti di minoranza nelle società quotate, Giuffrè, Milano, 2009, p.103.
185
in Zanchi M., La tutela degli azionisti di minoranza nelle società quotate, Giuffrè, Milano, 2009, p.55.
I diritti delle minoranze nelle società per azioni.
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123
Nel complesso la normativa tende ad operare solo indirettamente una tutela degli azionisti
di minoranza e degli investitori in generale, attraverso l’imposizione di obblighi di
trasparenza e pubblicità sui reali assetti proprietari delle società quotate e sui regimi pattizi
esistenti, che comportano importanti conseguenze per i mercati in generale, e sull’attività
eventuale delle autorità di vigilanza.
In tema di rapporto tra maggioranze e minoranze, il dibattito rimane sempre vivo e le
problematiche che ne scaturiscono non sempre trovano adeguata soluzione.
Von Hayek affermava che <<il solo fatto che la maggioranza voglia qualcosa non basta
per considerare buono ciò che essa vuole>>
186
.
Può essere utile rifarsi ad un limite logico del principio di maggioranza costituito dalla
<<sua idoneità a legittimare decisioni vincolanti per la minoranza>>
187
. Di fatto la
reversibilità delle decisioni in ambito societario, e la possibilità di future maggioranze che
ribaltino precedenti decisioni, è fisiologica e necessaria per il corretto agire in base al
principio maggioritario.
La democrazia della maggioranza, che è maggioranza di capitale, democrazia
capitalistica, afferma almeno in linea di principio il diritto alla pari dignità e diritti tra
azionisti, anche perché, quantomeno nella concezione anglosassone, la maggioranza è
tenuta ad agire a vantaggio dell’intera comunità azionaria, non essendo legittimata a
commettere abusi (breach of trust)
188
, tanto da giustificare, in tal caso, qualunque
resistenza della minoranza. Per di più, nel diritto societario britannico non è concesso alla
maggioranza di superare, nelle sue decisioni, i limiti della ragionevolezza (reasonable
laws)
189
.
Secondo Galgano, il modello renano, europeo continentale, a cui fa capo anche il nostro
Paese, benché con la sostanziale differenza della trainante e diretta presenza dello Stato,
con concentrazione del capitale industriale in poche mani e fortemente trainato dal
sistema bancario, <<non ha sottratto gli amministratori alle direttive del capitale di
comando, al quale debbono la propria elezione e dal quale potrebbero essere non
confermati alla scadenza della carica>>
190
. Ed ha prodotto uno stato di fatto secondo cui
186
Von Hayek, F.A., (1960), The constitution of Liberty, trad it. La società libera, Firenze, 1969, pp.127 ss., in
Zanchi M., La tutela degli azionisti di minoranza nelle società quotate, Giuffrè, Milano, 2009, p.87.
187
Galgano F., La forza del numero e la legge della ragione. Storia del principio di maggioranza, Il Mulino,
Bologna, 2007, pp.93 ss., in Zanchi M., La tutela degli azionisti di minoranza nelle società quotate, Giuffrè,
Milano, 2009, pp.87-88.
188
Zanchi M., La tutela degli azionisti di minoranza nelle società quotate, Giuffrè, Milano, 2009, p.89.
189
Ibidem nota 188.
190
Galgano F., La forza del numero e la legge della ragione. Storia del principio di maggioranza, Il Mulino,
Bologna, 2007, p.131, in Zanchi M., La tutela degli azionisti di minoranza nelle società quotate, Giuffrè,
Milano, 2009, pp.107-108.
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<<agli amministratori il capitale di comando dà ordini al di fuori dell’assemblea e, quindi, al
di fuori di ogni possibile dibattito con le minoranze; in una parola, li dà loro
“confidenzialmente”…>>
191
.
Questo rappresenta un tema di fondamentale centralità in tutto il dibattito relativo ai presidi
istituzionali ed alla reale tutela dei diritti delle minoranze. Pur tralasciando qualsiasi
speculazione riguardo alle strategie dei rapporti endosocietari, un certo substrato di
dipendenza, anche pur soltanto morale o emotiva, degli amministratori preposti da una
maggioranza stabile e ben definita si può con certezza ipotizzare comunque, anche solo
come fattore condizionante delle decisioni e dei comportamenti posti in atto, anche in
amministratori rispettosi dell’art. 2380 bis c.c..
In ambito dei rapporti endosocietari, i collegi sindacali in Italia, anche nelle società quotate,
storicamente subiscono l’influenza negativa e limitante derivante dal fatto che la loro
nomina provenga proprio dalla stessa maggioranza assembleare che nomina anche gli
amministratori sul cui operato i sindaci dovrebbero esercitare una vigilanza super partes,
circostanza questa che ne inficia fattualmente l’indipendenza, oggettivamente od anche
solo dal punto di vista prettamente emotivo.
La problematica risulta di difficile soluzione, poiché l’ordinamento giuridico italiano
attribuisce al collegio sindacale un ruolo propulsivo ed un agire informato, necessario per
un esercizio ragionato delle funzioni di controllo non soltanto e puramente ispettive, e ciò
risulta del tutto incompatibile con l’estraneità completa degli organi di controllo all’ambito
ed all’ambiente societario.
Fondamentale questione aperta, con base scaturente dall’assetto descritto, è quella della
concreta possibilità per le minoranze azionarie di poter esercitare effettivamente, in modo
sostanziale e nelle forme ed istituti giuridici previsti, un ruolo di reale controllo e presidio
sulle attività societarie ed endosocietarie, ed attraverso di esso della maggioranza
azionaria.
L’art. 147 ter, comma 3, del TUIF prevede che almeno uno dei consiglieri di
amministrazione eletti debba necessariamente provenire <<dalla lista di minoranza che
abbia ottenuto il maggior numero di voti e che non sia collegata in alcun modo, neppure
indirettamente, con i soci che hanno presentato o votato la lista risultata prima per numero
di voti>>. Vi è da notare però che l’art. 147 ter, comma 1, terzo periodo, del TUIF dispone
che lo statuto potrà disporre che <<ai fini del riparto degli amministratori da eleggere, non
191
Ibidem nota 190.
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si tenga conto delle liste che non hanno conseguito una percentuale di voti almeno pari
alla metà di quella richiesta dallo statuto per la presentazione delle liste>>.
Nel nostro Paese, nelle società con azioni quotate, spetta alle previsioni statutarie,
beninteso nei limiti dei principi fissati dal legislatore, il compito e l’onere di regolare le
modalità di elezione degli amministratori, ivi compresa la soglia percentuale minima per la
presentazione delle liste, che risulta dunque diminuibile eventualmente in base allo
statuto. È inoltre demandato alla Consob l’eventuale innalzamento o l’abbassamento della
soglia massima rispetto al 2,5% previsto dalla legge.
Tali disposizioni sono state previste al fine di tentare di prevenire la possibilità di
costituzione di minoranze eccessivamente ridotte in termini percentuali, che di fatto
risulterebbero del tutto subordinate, attraverso i loro amministratori, alle maggioranze
assembleari. Così pure vi è il tentativo di contenere la formazione di minoranze
premeditatamente ostili, i cui amministratori di fiducia, nominati all’interno dei consigli di
amministrazione, potrebbero a ragione ritenersi facilmente strumentalizzati da soci
portatori di interessi sociali non meritevoli di considerazione, se non addirittura ostili
all’azienda stessa, anche solo attraverso premeditate azioni ostruzionistiche.
Naturalmente, la mancanza di collegamento, neppure indiretto, tra liste di minoranza e
soci di maggioranza, così come enunciata dall’art. 147 ter del TUIF, si presta a diverse
interpretazioni, pur apparendo evidente lo scopo perseguito dal legislatore di evitare la
costituzione strumentale di minoranze eccessivamente esigue e dunque poco
rappresentative di una volontà di minoranze ben individuate. La norma, evidentemente,
tenta inoltre di impedire il verificarsi di azioni sabotatorie da parte della maggioranza nei
confronti di minoranze potenzialmente ostili, o di fatto contrarie alla maggioranza.
Peraltro, per fornire la prova dell’esistenza di un collegamento tra lista di minoranza e soci
che hanno presentato oppure votato la lista di maggioranza è necessario dimostrare
l’esistenza di intese precisamente rivolte ad un obiettivo comune. Non risulta dunque
sufficiente la prova dell’esistenza di un identico scopo qualora manchi la dimostrazione
che, tra i soci della lista di minoranza e coloro che hanno presentato o votato la lista di
maggioranza, siano precorse intese specificamente dirette a raggiungere quell’unico fine.
Tuttavia, il rigore dell’onere è in parte attenuato dal fatto che tale prova può essere data
anche attraverso presunzioni semplici
192
.
La difficoltà oggettiva nel dirimere la questione appare ancor più evidente in presenza di
quasi-maggioranze e/o quasi-minoranze, eterogenee ma non pregiudizialmente ostili, se
192
Trib. Modena Sez. I, 26 marzo 2010.
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non addirittura parzialmente sovrapponibili in termini contestuali e relazionali alla
maggioranza di controllo della società.
Ciò sia nel consiglio di amministrazione, sia nell’ambito del collegio sindacale, dove
storicamente i sindaci, nella gran parte dei casi, sono uomini di fiducia degli stessi
amministratori.
In particolare, è previsto dalla legge che nelle società quotate l’elezione dei membri del
collegio sindacale debba avvenire mediante la tecnica del voto di lista, con l’obbligo di
riservare almeno un sindaco alla prima tra le liste di minoranza, che anche in questo caso
non deve rigorosamente risultare collegata con quella di maggioranza.
Ed è illegittima la eventuale modifica statutaria che attribuisca al consiglio di
amministrazione della società il diritto di presentare una propria lista di candidati, con
possibile integrale copertura dei posti disponibili, poiché ciò implicherebbe la violazione del
diritto dei soci di minoranza, ai sensi dell’art. 148, comma 2, del TUIF, di ottenere
l’elezione di un loro candidato quale componente effettivo
193
.
La possibilità di concorrere, con un proprio sindaco, candidato su tre eleggibili, per liste
espressioni di minoranze anche minime in percentuale poco incide per la soluzione in
direzione democratica e garantista di tali problematiche, dal momento che, anche nel caso
in cui il consigliere cosiddetto “indipendente” sia designato dalla minoranza attraverso i
previsti meccanismi di voto di lista, esso risulterà per ciò stesso casomai ancor più
radicalmente (e nella più ampia accezione) “dipendente” da una minoranza o quasi-
minoranza.
È evidente, in ogni caso, che il risultato di tali disposizioni è quantomeno il rafforzamento
del ruolo degli investitori di minoranza qualificati in quanto significativamente e
percentualmente quantificati, rappresentati in sostanza dagli investitori professionali e
istituzionali, interessati ad esercitare i propri poteri all’interno delle imprese partecipate.
In tema di comportamenti assunti dagli amministratori, almeno in linea teorica, gli
amministratori della società che non si trovino in conflitto di interessi risultano i soggetti
nella posizione migliore per valutare quale sia l’interesse della società, ivi compreso
l’interesse a proporre un’azione giudiziaria nei confronti di altri amministratori o di soggetti
terzi rispetto alla società stessa.
Ciò poiché essi sono oggettivamente in possesso di tutte le informazioni rilevanti e per
poter decidere in modo rapido, solitamente possono vantare una maggior esperienza di
gestione societaria in generale e conoscenza del settore economico di riferimento, rispetto
193
App. Trieste, 7 febbraio 2004; Cass. Civ. Sez. I Sent. 13 settembre 2007, n.19160.
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agli azionisti di minoranza od ai giudici, i quali, di norma, non hanno l’interesse, né
tantomeno le risorse, per seguire in maniera adeguata e costante le questioni societarie.
Ad esempio, i giudici, in occasione dei contenziosi societari, a qualsiasi livello, si trovano
invece a dover decidere ex post, ad anni di distanza, e senza avere di tutte le informazioni
disponibili, se una specifica azione degli amministratori sia avvenuta in violazione dei
doveri fiduciari nei confronti della società.
Nondimeno, un’influenza o condizionamento di varia natura esiste anche per gli
amministratori che, pur non trovandosi in situazione di conflitto d’interesse, debbano
decidere se adire una causa contro altri amministratori, in quanto essi stessi nominati dalla
medesima maggioranza azionaria e legati da vincoli di amicizia o di contesto
professionale.
Secondo la parte di dottrina sostenitrice della visione contrattualistica del diritto societario,
gli stessi meccanismi di mercato risultano più efficienti di qualsiasi istituto giuridico nel
ridurre i costi di delega indispensabili per mantenere quanto più convergenti possibile gli
interessi di amministratori ed azionisti. Fatti salvi naturalmente i casi di frode o della
commissione di reati.
In tema poi di amministratori indipendenti, previsti dalla legge italiana (art. 147 ter del
TUIF), possiamo dire che in quanto, almeno in teoria, meno legati dei consiglieri
tradizionali, soprattutto di quelli esecutivi, all’andamento societario, essi dovrebbero
garantire il miglior collegamento possibile fra la società stessa ed il mercato. Le cose però,
nella realtà dei fatti, non vanno in questo modo.
Ad esempio, i consigli di amministrazione delle società quotate, negli ordinamenti ove vige
una ampia libertà statutaria, come nell’attuale ordinamento italiano, sono ormai spesso
ridotti ad una sorta di “teatrino” dell’apparenza e dell’affarismo “salottiero” e familiare, dove
le attribuzioni dei componenti si ripetono dal un consiglio di amministrazione di una società
all’altra, così come si moltiplicano i problemi di conflitto di interessi, di fatto o potenziali. In
diversi casi si tratta, alla fine, soltanto di una ingombrante quanto vacua e dispendiosa
burocrazia.
L’Italia costituisce un caso di scuola di mercato inefficiente per natura, dove, con un
ordinamento che prevede sistemi di controllo minoritario, avviene la ripartizione dei
consigli di amministrazione in comitati, i quali perseguono finalità non solo di monitoraggio,
ma soprattutto di sostegno all’azionista minoritario di controllo, così favorendo il tunnelling
in ogni sua forma.
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È stato dimostrato da tutti i più importanti e recenti studi che la presenza di amministratori
indipendenti non risulta in alcun modo determinante per i risultati in generale dell’impresa
sociale
194
.
Secondo Guido Rossi, <<Nella sua versione ultima, la corporate governance è
essenzialmente il risultato, fallimentare, di una catena di mistificazioni, e il suo inglorioso
epilogo sta trascinando in una crisi di proporzioni ancora ignote i mercati e anche il
capitalismo finanziario nel suo insieme>>.
195
Anche il rapporto tra soci appartenenti al gruppo di comando e minoranze è riconducibile a
quelli di agency, e laddove i soci di minoranza godono di migliori protezioni si avranno
indubbiamente effetti positivi sul valore della società, con una sensibile riduzione anche
dei costi di agenzia.
Maggiori salari necessari per assumere dirigenti che sanno di essere esposti al costante
rischio di azioni di responsabilità, spese per l’acquisto di polizze di assicurazione da
responsabilità degli amministratori, parcelle degli avvocati, e tempo investito,
rappresentano tutti costi che, con una efficace tutela degli azionisti in generale, e della
minoranza in particolare, subirebbero un drastico ridimensionamento.
Per completare la disamina nel dettaglio della problematica dei conflitti di interesse, ci
avvaliamo ora di alcuni esempi e casi concreti.
Si può verificare un caso di conflitto di interessi fra socio e società nel caso di abuso del
diritto di voto. È utile qui ricordare che il sindacato giudiziario sulle deliberazioni
assembleari è mero sindacato di legittimità. Pertanto, a norma dell’art. 2377 c.c. sono
impugnabili solo <<le deliberazioni che non sono prese in conformità della legge o dello
statuto>>, restando escluso qualsiasi giudizio di merito sulla opportunità della
deliberazione. Tuttavia il sindacato giudiziario del merito della deliberazione è consentito
quando risulti necessario per accertare un vizio di legittimità della deliberazione. Quando
una specifica deliberazione appaia inutile per la società, giudicata nei limiti di una generica
e normale ragionevolezza, ciò costituisce e può essere assunto quale elemento presuntivo
di prova di un abuso commesso dalla maggioranza. In tal caso la maggioranza avrebbe
utilizzato la propria posizione di potere per conseguire vantaggi personali o particolari per i
suoi componenti, vantaggi ed utilità in alcun modo riferibili alle esigenze dell’impresa
sociale. Questo tipo di controllo giudiziario è preordinato all’accertamento dell’illegalità, è
ammesso anche nel nostro sistema giuridico, ed ha come risultato l’annullamento, da
parte del giudice, della deliberazione presa con abuso del diritto di voto.
194
Rossi G., Il mercato d’azzardo, Adelphi, Milano, 2008, p.79.
195
Ibidem nota 194.
I diritti delle minoranze nelle società per azioni.
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L’art. 2373 c.c. poi, relativo al conflitto d’interessi, disciplina il caso della deliberazione
assunta con il voto determinante del socio che ha, per conto proprio o di terzi, un interesse
in conflitto con quello della società, richiamando quanto previsto dall’art. 2377 c.c.. Se il
socio non provveda ad astenersi dal voto, la deliberazione adottata, qualora possa recare
danno alla società, è impugnabile a norma dell’art. 2377 c.c nel caso in cui non si sarebbe
raggiunta la maggioranza necessaria senza il voto determinante del socio che avrebbe
dovuto astenersi.
Il conflitto di interessi fra socio e società si configura quando il socio, riguardo ad una
specifica deliberazione, si trova ad essere portatore del duplice interesse di socio e di un
ulteriore interesse esterno rispetto alla società, laddove la realizzazione di un interesse
non possa avvenire se non sacrificando l’altro.
Di per sé, la duplice posizione di interesse in capo ad un medesimo soggetto da sola non
implica però, tecnicamente, la situazione di conflitto di interessi. Se il soggetto vota,
qualora il suo voto sia stato determinante agli effetti del calcolo della maggioranza
assembleare, occorre verificare in quale senso egli abbia votato, ovverosia verificare nel
merito l’espressione del suo voto, valutando se il socio abbia sacrificato l’interesse
personale oppure quello sociale, o se abbia assunto una posizione tale da non nuocere
alla società.
In base al comma 1° dell’art. 2373 c.c., <<la deliberazione approvata con il voto
determinante di coloro che abbiano, per conto proprio o di terzi, un interesse in conflitto
con quello della società è impugnabile a norma dell’art. 2377 qualora possa recarle
danno>>. In sostanza, considerato il contenuto della deliberazione, essa è annullabile
soltanto se risulti evidente che il socio abbia sacrificato l’interesse sociale per quello
personale, non essendo peraltro richiesta la prova di un effettivo danno riportato dalla
società, poiché risulta sufficiente la semplice prova del pericolo di danno. Con specifico
riguardo a quest’ultimo aspetto, si parla cioè del cosiddetto “danno potenziale”, di
fondamentale importanza in quanto, se non ricorre quest’ultima condizione, la delibera
resta inattaccabile anche se approvata con il voto determinante del socio in conflitto di
interessi
196
.
D’altra parte, nell’annullamento per conflitto di interessi della delibera assembleare, ai
sensi dell’art. 2373 c.c., <<il vizio ricorre quando essa è diretta al soddisfacimento di
interessi extrasociali, in danno della società, senza che risulti condizionante in sé, ai fini
del conflitto di interessi>> o dell’eccesso di potere, <<la decisività del voto da parte
196
Trib. Novara Ord., 21 gennaio 2010.
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dell’amministratore beneficiario dell’atto che sia anche socio; ne consegue che la
accertata irragionevolezza della misura del compenso (valutata in base al fatturato ed alla
dimensione economica e finanziaria dell’impresa, da rapportare all’impegno chiesto per la
sua gestione) può risultare anche quando la delibera attua un patto parasociale, in
precedenza stipulato sotto forma di transazione fra i soci, compresi gli impugnanti soci di
minoranza, che sono legittimati all’impugnazione in quanto dissenzienti e nonostante la
partecipazione al predetto accordo>>
197
(Annotazione Cass. Civ. Sez. I, 3 dicembre 2008,
n.28748).
Il comma 2° dell’art. 2373 c.c. prevede una ipotesi tipica di conflitto di interessi riguardante
gli amministratori, i quali non possono votare nelle deliberazioni relative alla loro
responsabilità.
Secondo ampia e autorevole dottrina, il principio generale, del quale l’art. 2373 c.c.
rappresenta un’espressione, in quanto specificamente riferito all’ipotesi del conflitto di
interessi fra socio e società, è quello in base al quale il socio non può validamente
esercitare il diritto di voto per realizzare interessi particolari, estranei ai motivi ed agli scopi
del contratto di società, ricorrendo, nel caso di inottemperanza al precetto, la pena
dell’annullabilità della deliberazione assunta con il concorso determinante del suo voto.
Ciò, quindi, anche in ambito di azioni esercitate da parte della maggioranza rispetto alle
minoranze. Sull’argomento è utile ricordare, ad esempio, che la giurisprudenza si è
espressa in diverse occasioni ritenendo invalide deliberazioni di aumento di capitale
predisposte all’unico scopo di ridurre la quota di partecipazione di un socio di minoranza,
così come pure sono state ritenute invalide deliberazioni di anticipato scioglimento della
società assunte dalla maggioranza azionaria con l’unico scopo di liberarsi di un socio non
gradito, e seguite dalla ricostituzione della società con il medesimo oggetto sociale, senza
però il medesimo socio non gradito.
Un altro tipico caso di scuola è costituito da una deliberazione di approvazione del bilancio
di una società quotata, che artificiosamente preveda una riduzione dell’utile al solo scopo
di determinare una diminuzione del valore del titolo in borsa, permettendo così alla
maggioranza di acquistare le azioni sul mercato ad un prezzo più basso, e che viene
comunemente considerata invalida dalla dottrina. In questo caso il giudice dovrà esercitare
un sindacato di legittimità, teso ad accertare l’eventuale violazione di legge, in particolare il
mancato rispetto della norma di cui all’art. 2247 c.c., che definisce la causa del contratto di
società.
197
Annotazione Cass. Civ. Sez. I, 3 dicembre 2008, n.28748, su ItalGiureWeb, 23 aprile 2011.