3
INTRODUZIONE
La crisi che attraversa i secoli XVI e XVII investe tutto il campo
della cultura umana in forme così profonde che le istanze qui prodotte
segnano l’arco intero del pensiero moderno e, a detta di molti studiosi,
cercano ancora risposte nell’epoca contemporanea
1
. Il declino del
Rinascimento coincide difatti con il tramonto di quella solidarietà tra
valori politici, morali e religiosi, che caratterizza l’umanesimo in virtù di
un fondamento religioso ancora avvertito come elemento condiviso che
accomuna gli animi e gli intelletti della società europea.
L’avvento della Riforma, causa e conseguenza della crisi
rinascimentale, mette in discussione per la prima volta il metodo con il
quale questo fondamento viene legittimato, aprendo di fatto quella che
Popkin definisce la crise pyrrhonienne
2
. I dubbi insinuati da Lutero sul
criterio di verità in materia divina, rappresentato fino a quel momento
dalla tradizione ecclesiastica, porta a caricare la ragione e il libero
arbitrio, ad essa correlato, di un peso insostenibile che, nella reazione di
alcuni cristiani “ortodossi”, tra cui Erasmo, finisce per schiacciarli.
Si spiega in questo modo il rinnovato interesse per l’antico
scetticismo – conosciuto dagli intellettuali del ‘500 tramite l’edizione
latina delle opere di Sesto Empirico – che sarà il tratto distintivo di un
1
Tra questi segnaliamo A.M. Battista, che rileva come la nascita dell’individualismo
moderno, etico e politico, si debba alla crisi post-rinascimentale (Cfr. A. M. BATTISTA, Alle
origini del pensiero politico libertino: Montaigne e Charron, Giuffrè, Milano 1966).
2
Cfr. R. POPKIN, La storia dello scetticismo. Da Erasmo a Spinoza, tr. it. di R. Rini, Anabasi,
Milano 1995, p. 11.
4
fideismo cristiano volto a riaffermare la vacuità e la miseria di ogni
progetto di auto-determinazione umana e la contemporanea necessità di
una passiva apertura alla grazia, in un ritorno ad una sensibilità religiosa
di stampo pre-rinascimentale e agostiniano.
In questo scenario si stagliano due figure – quelle di Montaigne e
Pascal – che risultano pienamente rappresentative di quella crisi ma, allo
stesso tempo, aliene e peculiari rispetto alle nette contrapposizioni
religiose e filosofiche di cui i sec. XVI e XVII sono teatro
3
. L’eccedenza
del loro pensiero rispetto a qualsiasi impronta dottrinale e speculativa
alla quale si è cercato di ridurli è confermata sia dallo stile della loro
scrittura, che dalla difficoltà, tuttora presente, di fornire
un’interpretazione esauriente delle rispettive opere, che trovi conferma in
una, seppur parziale, concordanza tra gli esegeti.
3
Non a caso le opere di Pascal e Montaigne si annoverano tra le letture predilette di un
autore come Nietzsche, che ha fatto del paradosso dell’inattualità uno dei temi dominanti del
suo pensiero. Sull’interesse mostrato verso il primo e le affinità riscontrabili tra i due
pensatori, si rimanda alle testimonianze di F. Overbeck (Cfr. F. OVERBECK, Ricordi di
Nietzsche, tr. it. di C. Angelino, il Melangolo, Genova 2000, p. 36) e allo studio di T. Mann
(Cfr. T. MANN, Considerazioni di un impolitico, tr. it. di M. Marianelli e M. Ingenmey,
Milano, Adelphi 1997
3
, p. 538). Riguardo all’apprezzamento nei confronti di Montaigne,
basti citare: «Conosco soltanto un altro scrittore pari a Schopenhauer per onestà ed anzi
superiore: Montaigne. Veramente per il fatto che un tal uomo abbia scritto, il piacere di
vivere su questa terra è stato aumentato» (F. NIETZSCHE, Schopenhauer come educatore, in
Considerazioni inattuali, tr. it. di S. Giametta e M. Montinari, Einaudi, Torino 1981, p. 175).
Inoltre, in merito a Pascal, va segnalato il giudizio espresso da uno dei suoi interpreti più
importanti e attenti, Jean Mesnard: «I Pensieri si situano, quindi, a una svolta del XVII
secolo e il genio comprensivo del loro autore fa sì che essi conservino il meglio di un’epoca
che tramonta, annunciando il meglio di un’epoca che sorge. Ma noi coglieremo sotto
l’aspetto più favorevole il clima dei Pensieri, non già insistendo su ciò che era soggetto di
cambiamento, bensì traendo fuori dalla cultura del tempo alcune componenti essenziali su
cui l’opera riposa come sulle sue fondamenta. Sia ben chiaro, tuttavia, che Pascal non è
soltanto il testimone di una cultura; egli partecipa alla sua elaborazione» (J.MESNARD, Sui
“Pensieri” di Pascal, trad. it. di T. Pavone e M. V. Romeo, Morcelliana, Brescia 2011).
5
Dal punto di vista stilistico colpisce come i due pensatori francesi
siano assimilabili nel rifiuto del pensiero sistematico, ma profondamente
divergenti nel modo di declinare questa distanza
4
.
Per quanto riguarda la letteratura critica, va segnalata una
particolare propensione ad avvicinarsi a queste due figure con una
notevole mole di pregiudizi, per cui l’osservazione tramite le “lenti”
delle interpretazioni tradizionali dà luogo ad uno sguardo presbite che
tende ad attribuire sfumature fantasiose ad affermazioni altrimenti
chiare, sovvertendone il senso letterale
5
.
Nel presente lavoro si è quindi cercato di tornare alla scrittura dei
due autori, nel tentativo di prescindere dal condizionamento dell’enorme
mole esegetica che ha attribuito loro, ed in particolare a Pascal
6
,
4
Le ragioni profonde di questa discrepanza saranno messe in luce nelle conclusioni, poiché
si legano strettamente alle divergenze religiose e filosofiche, che saranno prese in esame nel
corso dello studio.
5
È il caso del recente studio di S. Giocanti che, pur in un’approfondita analisi che offre
spunti di riflessione rilevanti – su tutti quello della differenza tra lo scetticismo antico e
quello moderno sulla base di una differente nozione di piacere, dato dall’atarassia nel primo
caso, e dall’adesione al movimento della vita tramite un’etica del divertissement nel secondo
–, nega qualsiasi legame tra il dubbio di Montaigne e la fede, riducendo la seconda a mera
adesione formale e proponendo una visione dello scetticismo come sola posizione che, nella
sua autonomia, sia in grado di risollevare la razionalità umana su delle basi sane e solide
(Cfr. S. GIOCANTI, Penser l’irrésolution: Montaigne, Pascal, La Mothe Le Vayer. Trois
itinéraires sceptiques, Honoré Champion, Paris 2001, pp. 32-35; pp. 632-636).
6
L’immagine di un Pascal profondamente scettico che metterebbe in dubbio la stessa fede,
ha riscontrato un certo successo nel XIX secolo, a partire dalla lettura dei Pensieri fornita dal
Cousin, che si spese affinché l’opera venisse pubblicata in un’edizione priva delle censure di
Port-Royal così da lasciar affiorare tutto il suo presunto scetticismo. Costui, commentando il
fr. 451, che descrive il divino come «infinitamente incomprensibile, perché, non avendo né
parti né limiti egli non ha nessun rapporto con noi» (B. PASCAL, Pensieri, tr. it. di A. Bausola
e R. Tapella, in ID., Pensieri, opuscoli, lettere, Rusconi, Milano 1978, fr. 451, p. 574),
esclama «voilà le fond de la conviction de Pascal; voilà le principe qui lui est commune avec
tout l’école sceptique et sensualiste. Port-Royal, qui aurait eu horreur de ce principe, l’òte a
Pascal et l’impute à un interlocuteur fictif» (V. COUSIN, Des Pensées de Pascal. Rapport à
l'Académie Française sur la nécessité d'une nouvelle édition de cet ouvrage, Ladrange, Paris
1843, p. 181). Giunge così a dichiararlo filosoficamente assimilabile a Montaigne: «En effet,
6
pressoché qualsiasi posizione speculativa in merito alla relazione tra
ragione e fede. Si è perciò proceduto con il fine di far emergere lo spirito
delle opere dei due autori francesi, evitando di piegarle ad ogni costo ad
una lettura semplificante che prenda uno dei tanti spunti proposti nei loro
scritti, per farne il motivo dominante della loro intera produzione
letteraria. Si è per questo cercato di evitare di ricorrere all’escamotage
spesso utilizzato dagli interpreti: quello di liquidare intere parti della
letteratura dei due come scarsamente credibili dal punto di vista
teoretico, oppure di ridurle a testimonianza di fasi di pensiero poi
totalmente superate. Esempi più eclatanti al riguardo, sono i tentativi di
ridimensionamento dei giudizi che troviamo nelle Provinciali
7
e in
numerosi frammenti dei Pensieri
8
, per quanto riguarda Pascal, e di quelli
contenuti nell’Apologia di Raymond Sebond
9
, in relazione a Montaigne.
In entrambi i casi, si assiste al proposito di ridurre la stesura di questi
scritti a motivi occasionali o strettamente polemici, privandoli di una
reale adesione intellettuale ed esistenziale degli autori.
Qui, al contrario, ci si propone di riconoscere la stessa dignità
filosofica a tutte le pagine redatte dai due, tentando di interpretarle alla
luce del contesto letterario e speculativo, e non in base a valutazioni
arbitrarie su episodi biografici controversi e di incerta lettura. Pertanto i
motivi polemici non diventano pretesti per ostracizzare i suddetti passi
Pascal est sceptique en philosophie. Otez la révélation, et Pascal serait un disciple de
Montaigne» (Ivi, p. 156).
7
Cfr. L. GOLDMANN, Il Dio nascosto. Studio sulla visione tragica nei "Pensieri" di Pascal e
nel teatro di Racine, tr. it. di L. Amodio e F. Fortini, Universale Laterza, Bari 1971, pp. 275-
279.
8
Cfr. G. FERREYROLLES, Pascal et la raison du politique, Presses Universitaires de
France, Paris 1984, pp. 163-180.
9
Vedi nota 352, pp. 146-147.
7
dall’esegesi dell’opera, ma al contrario rivelano delle precise
preoccupazioni che sorgono direttamente da esigenze speculative e da
inquietudini filosofiche. Pertanto, se ad esempio le Provinciali vanno
messe in relazione ad uno sdegno nei confronti del lassismo gesuita che
ci dice qualcosa di importante circa l’etica e la politica pascaliana,
l’Apologia di Raymond Sebond ci conferma un fideismo scettico che,
come vedremo, non entra affatto in conflitto con i giudizi
apparentemente laici e razionalisti che troviamo negli altri capitoli dei
Saggi.
Con questi presupposti, il percorso disegnato dal presente lavoro è
volto innanzitutto a mostrare un’ambiguità interna al pensiero di Pascal
che si palesa nella sua profonda incomprensione di Montaigne.
L’itinerario di pensiero di Pascal sarà per questo analizzato facendo
costante riferimento alla sua presa di distanza dai Saggi come presunta
opera libertina e pagana, poiché è proprio dalle critiche rivolte alla figura
dell’honnête homme, cara ai libertini, che trapela la tensione drammatica
che attraversa la filosofia di Pascal e la lascia per certi versi irrisolta. È
difatti nell’esame delle sue posizioni etiche e politiche che traspare il
travaglio e le difficoltà che il suo cristianesimo del coeur comporta.
Schiacciando l’uomo in una negatività da imputare alla condanna del
mondo come regno dell’amor proprio, il riscatto promesso nell’incontro
con la grazia sembra prevedere un rinnovamento spirituale che non trova
applicazione nella realtà mondana, dove una condotta onesta che rispetti
8
la coscienza dei propri limiti appare l’esito più retto, e tuttavia privo di
reale valore.
La tormentata ambiguità di Pascal emerge così in tutta la sua
problematicità alla luce della giustapposizione con il fideismo di
Montaigne che, evitando di attribuire l’apparenza e la verità a differenti
facoltà umane o a differenti dimensioni dello spirito, in virtù
dell’epochè, rovescia il pessimismo antropologico e politico in una
serena accettazione della propria incerta, vaga e paradossale natura.
Giunge così ad un rinnovamento dello spirito che non sovverte la scelta
degli oggetti ai quali applicarsi, quanto il modo di interpretarli e goderne.
Si resta nel mondo e nelle sue modeste occupazioni, ma con la
consapevolezza che, se il passatempo è vissuto per quello che è, non si
rivela più un’applicazione vana e assurda. È difatti nell’applicarsi ad
esso tramite una contemporanea distanza interiore che l’uomo può
acquisire la dignità che gli è più propria, in una dialettica tra il
riferimento al foro interno e l’impegno esterno, che permette di vivre à
propos
10
.
Se parlare di fideismo rispetto a Montaigne non risulterà un
azzardo, farlo in relazione a Pascal potrebbe apparire ardito: nei suoi
scritti si contano difatti diversi tentativi di non porre la “doppia verità” in
termini esclusivi e dicotomici, sia perché il passaggio alla verità
teologica avviene comunque secondo ragione, sia per la volontà di
10
«Il nostro grande e glorioso capolavoro è vivere come si deve [Nostre grand et glorieux
chef-d'œuvre, c'est vivre à propos]» (M. DE MONTAIGNE, Saggi, tr. it. di F. Garavini, Adelphi,
Milano 1982
2
, vol. III, p. 1485 [III, 13]).
9
salvaguardare in qualche modo la ragionevolezza. Ma nell’analisi qui
svolta e anche nella lettura di un interprete equilibrato come Bausola,
che tende a ridimensionare lo scetticismo di Pascal
11
, trapela tutta la
sfiducia nei confronti dell’idea, propugnata dal cattolicesimo
“ortodosso”, che nell’ordine delle verità naturali, la ragione possa
approdare autonomamente alla conoscenza della verità.
Pertanto, assumendo la definizione di fideismo fornita da Popkin, il
cristianesimo d’ispirazione giansenista di Pascal potrà essere riportato,
senza sollevare grandi obiezioni, a quella vaga e ampia categoria di
fideismo moderato che si limita «all’affermazione della priorità della
fede sulla ragione»
12
, dove semplicemente si «nega che la ragione possa
avere una certezza assoluta e completa della verità indipendentemente
dall’accettazione per fede di una o più proposizioni […] ma nel
contempo ammette che la ragione possa giocare un ruolo relativo o
probabile nella ricerca o nella spiegazione della verità»
13
.
Venendo all’organizzazione del presente studio, la scelta di
suddividerlo in tre capitoli, dedicando i primi due alla filosofia di Pascal,
si deve a quell’ambiguità di pensiero, di cui si è detto, che costringe ad
un approfondimento specifico dei diversi temi che affronta nel corso
11
«In alcuni frammenti […] Pascal sembra condannare senza rimedio le facoltà conoscitive
umane, e negare radicalmente l’esistenza di un diritto di natura, di una giustizia naturale. In
altri, egli sembra soltanto sottolineare il fatto che troppo spesso l’uomo erra, che le facoltà
conoscitive umane, pur non irrimediabilmente corrotte, di fatto subiscono spessissimo
deviazioni – ma non finisce in un pessimismo radicale, non approda alla dichiarazione di una
incapacità di diritto dell’uomo di attingere la verità» (A. BAUSOLA, Introduzione a Pascal,
Laterza, Roma-Bari 1973, p. 49).
12
R. POPKIN, La storia dello scetticismo. Da Erasmo a Spinoza, cit., p. 8.
13
Ibid.
10
delle sue opere. Motivo per il quale si è resa necessaria la suddivisione in
numerosi paragrafi, allo scopo di fare ordine in un pensiero che si pone
come asistematico, ma che allo stesso tempo si presenta denso di
affermazioni filosoficamente forti, di giudizi perentori, i quali
costringono a cercare eventuali conferme o smentite all’interno della
stessa letteratura dell’autore.
Viceversa la scrittura di Montaigne si caratterizza per uno stile
colloquiale ed esortativo che si mostra più parsimonioso
nell’esternazione di giudizi teoretici, per cui è apparso più idoneo un
approccio che cercasse di mettere a confronto le tante valutazioni
sfumate che troviamo in merito agli stessi argomenti. Si è puntato quindi
a trarre da queste un’immagine unitaria dell’approccio mostrato
dall’autore nei confronti dei diversi domini culturali, piuttosto che a
distillarne delle vere e proprie teorie filosofiche. Per questo nel terzo
capitolo, a lui dedicato, si è preferito organizzare tematicamente l’analisi
dividendola in quattro ampi paragrafi.
Nel primo capitolo si prende in esame il rapporto tra ragione e
fede in Pascal, dividendo l’analisi in due sottocapitoli che corrispondono
a quelli utilizzati da Jacque Chevalier per organizzare i frammenti dei
Pensieri: l’uomo senza Dio e l’uomo con Dio.
La prima parte mette in luce come Pascal prenda in esame la
filosofia “atea” allo scopo di mostrare gli esiti ai quali conduce la
ragione umana nel momento in cui si pretende auto-fondata, o comunque
esclude un riferimento esterno da sé. Si volge difatti alle due sette
11
filosofiche, stoici e pirroniani, che rappresentano, in forma radicale, le
due opposte tendenze di una ragione siffatta: l’umiliazione e la superbia.
La misura dell’insufficienza della conoscenza autonoma ci è data dal
fallimento dei rimedi proposti da queste due dottrine per poter
conquistare la serenità d’animo. Un’insufficienza che rivela la
condizione di sproporzione dell’uomo, il quale, condannato ad una
posizione ibrida tra l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo,
riversa il suo desiderio inappagato, ispirato dalla grandeur, sugli oggetti
comuni. Ha qui origine il divertissement, pratica della fuga da sé che può
essere interrotta solamente accettando l’idea che l’essere dell’uomo
ecceda la ragione e i sensi, cioè il suo esperirsi terreno.
Nel par. 1.1.3. si attesta quindi la vicinanza di Pascal con il
pirronismo di Montaigne, in virtù del servizio che la sua lezione di
umiltà offre alla causa cristiana. Si pone l’accento, altresì, su come
l’antropologia pascaliana tenda a sottolineare la componente umile
dell’uomo piuttosto che quella nobile, come confermano le dichiarazioni
di superiorità del pensiero scettico rispetto alle altre filosofie pagane,
nonché il debito nei confronti del Perigordino circa l’inconoscibilità
della legge naturale (nella comune avversione ai démi-habiles) e la
predilezione per l’ignoranza dotta.
Ma le critiche di Pascal alla figura dell’honnête homme, incapace
di trascendere l’amor proprio che domina la dimensione del
divertissement, ci rivelano come il dubbio scettico non sia affatto la
parola definitiva sul problema della conoscenza, ma un ponte
provvisorio che conduce ad abbracciare una diversa verità, quella
12
rivelata. Il sottocapitolo 1.2 prende quindi in esame l’approdo al
cristianesimo come superamento del paradosso filosofico, in virtù di
quella spiegazione della condizione umana fornita dall’antropologia
cristiana. Dunque solo la verità di fede del peccato originale può rendere
conto dei moti contrari dell’uomo e della dislocazione che avverte.
Aprirsi alla fede significa volgersi a Dio tramite una facoltà
sconosciuta ai filosofi, quella del coeur, a partire dalla quale l’incontro
con il divino percorre una strada del tutto diversa, finanche opposta, a
quella intellettuale. Nei paragrafi centrali si prendono quindi in esame,
da un lato, i caratteri di questo Dio personale e, dall’altro, il nuovo
rapporto che viene ad instaurarsi tra le differenti dimensioni dello spirito
umano. Un’analisi che fa i conti con la difficoltà di estrapolare
dall’opera pascaliana una connotazione precisa di facoltà quali coeur,
sentiment, lumière naturelle ed esprit de finesse. Un nodo, questo, che
rivela il complicato e, per certi versi, irrisolto rapporto che corre tra la
ragione e questa dimensione esistenziale, volitiva ed assiologica, a causa
del tentativo di riservare alla grazia un primato indiscusso e, allo stesso
tempo, di salvaguardare il libero arbitrio e le capacità razionali. Difatti il
superamento del pirronismo riafferma una fiducia nella ragione pura,
cioè presa di per sé, che limita la critica al suo cattivo utilizzo; ma questa
rivalutazione deve fare i conti con un’idea del divino che – allo scopo di
segnare la distanza rispetto al Dio dei filosofi e quello di sottolineare la
funzione rivelatrice del Gesù storico, nonché la novità del messaggio
cristiano come follia saggia –, assume le sembianze del Deus
absconditus (argomento del par. 1.2.4.).
13
L’ultimo paragrafo del primo capitolo mostra come Pascal, anche
a causa della sua necessità di attribuire allo spirito umano una dicotomia
interna, non comprenda affatto la portata cristiana dell’opera di
Montaigne, riducendo i Saggi ad un testo pagano e libertino che presenta
opinioni del tutto empie su argomenti fondamentali quali la disposizione
nei confronti della morte.
Il secondo capitolo sposta l’attenzione sulla teoria politica di
Pascal, nel tentativo di fare luce sui margini di conoscibilità di un ordine
normativo naturale, quindi sulla possibilità di un’etica oggettiva
razionalmente fondata o, quantomeno, confermata dalla facoltà
razionale, che funga da criterio sul quale modellare le legislazioni
positive e l’organizzazione degli Stati. Dall’analisi del realismo politico
di stampo cristiano di Pascal – imperniato sull’idea del fondamento
mistico del potere che resta celato grazie alle corde d’immaginazione,
fondate a loro volta sull’aspirazione alla vera giustizia che permane
nell’uomo (par. 2.1) –, si passa alla valutazione del peculiare
conformismo che richiede al potente un atteggiamento liberale, in virtù
del doppio sguardo, e intima al suddito un’obbedienza pressoché
acritica, alla luce della distinzione tra grandezze di istituzione e
grandezze di natura (par. 2.2).
La questione si dipana così nella ricognizione dei diversi modi in
cui il concetto di giustizia terrena si presenta negli scritti di Pascal, a
partire da una definizione tendenzialmente negativa e funzionalistica,
come mera difesa della pacificazione (par. 2.2), per giungere poi a
14
scorgere un’idea di giusto in forma figurata che sembra mettere in
discussione il suo presunto pessimismo politico.
Nel par. 2.3 si valutano i tratti di questa giustizia figurativa, anche
tramite il riferimento all’interpretazione di Ferreyrolles che estremizza la
portata positiva di questo concetto, rovesciando l’immagine del Pascal
giansenistico in un giusnaturalismo di stampo tomista. Attestando i limiti
e le forzature di questa lettura, si passa a ridimensionare la portata
ottimista della figura in virtù di quel principio di carità che appare non
declinabile nelle leggi positive. Il che ci porta, nel par. 2.4, a ridurre le
possibilità assiologiche della dimensione politica, i suoi margini di
concretizzazione del Valore, all’ordine della ragionevolezza; vale a dire
al mero disciplinamento della concupiscenza, che prevede il ricorso ad
un buon senso non diverso da quello dell’honnêteté.
Si giunge così nel paragrafo conclusivo a dedurre un’inevitabile
indifferenza da parte del vero cristiano nei confronti della dimensione
sociale e politica, giacché quest’ultima resta, anche nelle migliori delle
ipotesi, fondata sul vizioso egocentrismo, dal quale il credente deve
esimersi per auspicare una redenzione. Si apre in questo modo una
frattura netta tra un noncurante esterno ed un interno volto unicamente al
corpo mistico, in una tensione escatologica che sembra risolversi in una
dedizione di coeur dai connotati solipsistici.
Nel terzo capitolo si passa a prendere in esame il pensiero di
Montaigne, così da comprendere meglio le ragioni speculative che
portano Pascal a quell’impasse, alla luce del confronto con una forma
diversa di fideismo, che pur partendo da presupposti molto simili – come
15
dimostrano i debiti di Pascal nei confronti dei Saggi –, perviene ad una
serena accettazione dell’esistenza e della partecipazione sociale e
politica.
Si inizia, nel par. 3.1, con l’analisi dell’antropologia scettica di
Montaigne, anche alla luce del contesto storico e culturale, dove gli
epocali mutamenti in diversi campi favoriscono una forte sfiducia nelle
capacità della ragione, indistinguibile dall’immaginazione, e la critica
all’antropocentrismo rinascimentale, che si declinava come
eurocentrismo. Una valutazione che non può prescindere dal metodo con
il quale l’autore decide di mostrare la miseria dell’uomo, cioè quello
dell’auto-descrizione, dell’intento di dipingere se stesso, di cui si
cercherà di far emergere la ragion d’essere filosofica nell’esigenza di
descrivere l’uomo prescindendo da giudizi generalizzanti e categoriali.
Da queste premesse, iniziano ad affacciarsi i motivi per i quali il
pensiero di Montaigne appare assolutamente irriducibile al lassismo
libertino imputatogli da Pascal, passando a mostrare, nel par. 3.2 come la
fede cristiana, nonché l’accettazione dell’interpretazione ecclesiastica
delle Scritture, non corrisponda affatto ad una scelta formale e
puramente conformista, come vorrebbe un filone interpretativo del
Perigordino che vanta numerosi esponenti. Al contrario, appare come
esito necessario dell’epochè scettica, che però, a differenza di Pascal,
non viene superata e messa da parte, ma prevede una complementarietà
tra scetticismo filosofico e fideismo religioso, tra dubbio pirroniano e
verità rivelata, dove l’adesione alla seconda avviene tramite una scelta in
16
favore della credenza, che non si confonderà mai con la certezza
razionale della teologia naturale.
Il fideismo di Montaigne si caratterizza quindi per un’idea del
divino in cui le indecisioni di Pascal al riguardo sono evitate grazie ad un
rifiuto netto dell’approdo alla ragione dogmatica in virtù della fede come
scelta di carattere esclusivamente esistenziale, che evita qualsiasi
applicazione razionale alle materie religiose.
Nel par. 3.3 si valutano le implicazioni etiche di questo pirronismo
cattolico, mettendo in luce come il possesso della virtù per Montaigne
non sia né strettamente subordinato alla rivelazione cristiana, né del tutto
scevra da essa, dal momento che l’etica della coscienza e del possesso di
sé, alla quale già si è accennato, può raggiungere un livello di stabilità e
di sicurezza tale da placare l’animo, solamente se sostenuta dalla fede
cristiana. Cioè dalla credenza in un Essere distante, ma allo stesso tempo
con un volto umano tale da potergli affidare il proprio destino,
escludendo qualsiasi velleità di conoscere il piano divino. Si mette in
luce come, sulla base di questa impostazione, sia possibile risolvere la
tensione drammatica tra la ricerca introspettiva di una quiete nel
possesso della coscienza e la consapevolezza del condizionamento
imprescindibile al quale l’uomo è sottoposto, sia in termini di costume e
consuetudine, che di collocazione ontologica nell’Essere che lo
trascende. Tensione che rimanda all’ambivalenza del concetto di natura,
anch’essa esaminata nel par. 3.3.