INTRODUZIONE
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INTRODUZIONE
La presente tesi di Laurea si prefigge il compito di definire le caratteristiche storiche
e culturali del concetto di made in Japan, approfondendone i tratti distintivi che ne
hanno decretato il successo nel mondo, garantendo alle multinazionali del Sol
levante una posizione di assoluta e duratura leadership in numerosi settori di
riferimento.
D’altronde, nell’attuale contesto economico la globalizzazione delle vendite spinge i
consumatori a valutare con maggior attenzione la provenienza geografica dei propri
acquisti, la cui importanza assume una valenza sempre più decisiva nell’orientarne le
preferenze. A livello cognitivo i collegamenti tra l’immagine di un Paese ed i
prodotti che fanno riferimento a tale Nazione se hanno significato positivo sono
enfatizzati nelle scelte dei clienti, il che comporta fedeltà assoluta agli articoli
caratterizzati da un definito made in, oppure sono rifiutati qualora le esperienze
vissute e/o le informazioni raccolte dai medesimi acquirenti sullo Stato di
provenienza dei beni analizzati siano negative.
Nello specifico la trattazione dell’argomento si dipana su quattro capitoli, organizzati
secondo logica sequenziale: il primo analizza lo sviluppo industriale del Giappone,
onde fornire il background necessario per comprendere l’argomento trattato.
Il secondo capitolo approfondisce il processo di costruzione della potenza economica
giapponese tratteggiando la politica del capitalismo nipponico dall’epoca Meiji sino
all’attualità.
Il terzo capitolo illustra il funzionamento del made in effect a livello teorico ed
empirico per spiegare l’influenza dell’immagine di Paese nel processo d’acquisto che
coinvolge il consumatore, anche alla luce delle più recenti teorie emerse ne l vivace
dibattito che coinvolge la letteratura specializzata.
Il capitolo conclusivo esplora i caratteri distintivi del made in Japan, suddividendone
la struttura in tre parti unite da un comune filo-conduttore, ossia la capacità dei
prodotti nipponici di essersi imposti all’attenzione della domanda globale sino ad
ottenere un successo planetario. Pertanto il primo paragrafo esamina la struttura
dell’apparato manifatturiero e le sfide che il Giappone deve intraprendere nella
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VI
serrata competizione che coinvolge tutti gli Stati industrializzati per non perdere
preziose quote di mercato nell’export mondiale; il secondo spiega la dottrina della
produttività come potente leva che ha garantito al made in Japan una vantaggiosa
rendita competitiva rispetto ai principali competitors; il terzo paragrafo da un lato
definisce l’immagine proiettata nel mondo dal gigante asiatico a livello di design,
dall’altro descrive brevemente alcune iniziative adottate dal Governo nipponico per
costruire una nuova Country image, innovativa ed attraente.
CAPITOLO I
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CAPITOLO I. Lo sviluppo industriale del Giappone
L’ascesa del Giappone al rango di grande potenza mondiale è considerato uno degli
eventi principali del diciannovesimo secolo. Per numerosi studiosi ed osservatori
occidentali il progresso economico è apparso cosi sorprendente da non poter essere
spiegato razionalmente, e non pochi storici hanno imputato tale crescita ad una serie
di coincidenze fortuite, prefigurando un imminente declino che non è mai avvenuto
totalmente. Il Paese si posiziona attualmente al terzo posto nella classifica mondiale
per Prodotto Interno Lordo complessivo, a testimonianza della aggressiva
competitività raggiunta dal tessuto industriale in numerosi comparti che vedono la
produzione giapponese dominare le vendite da una posizione di indiscussa
supremazia, raggiunta grazie ad una certosina ossessione per la qualità e ad una
propensione continua all’innovazione. D’altronde la forza del made in Japan deve
essere ricondotta all’energia e all’ambizione che il popolo giapponese ha acquisito
nel corso della Storia, assimilando rapidamente nuove idee e realizzando
coraggiosamente ambiziosi progetti che hanno esaltato una capacità organizzativa
affinata nei secoli. Il moderno Stato nipponico ha ereditato dal proprio passato alcune
istituzioni che si sono facilmente adattate a servire gli scopi della nazione nel periodo
di boom economico, sapientemente utilizzate dall’élite politico-militare per
glorificare il senso di appartenenza della società ad un Paese a lungo auto-
consideratosi assolutamente invincibile: l’organizzazione sociale e la disciplina
feudale hanno forgiato un’abnegazione estrema nell’individuo; l’attitudine al
corporativismo ha instillato nel lavoratore l’etica del sacrificio e della fatica come
strumento per migliorare la propria condizione sociale.
Pertanto, il capitolo fornisce il necessario background per comprendere al meglio il
significato dell’etichetta made in Japan analizzando la crescita industriale del Paese
dalle origini sino all’attualità, approfondendo in particolare le cause che hanno
instillato il cambiamento avvenuto nel 1868 con la rivoluzione Meiji, alla base della
prepotente affermazione della Nazione sulla scena economica attuale.
CAPITOLO I
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1.1. I primi secoli d.C.
Lo sviluppo industriale del Giappone, le cui prime testimonianze risalgono al 5-600
d.C., è stato profondamente influenzato dalla cultura cinese di quel periodo. Infatti,
nonostante le differenze socio-economiche che caratterizzano i due paesi, è possibile
osservare come il Giappone abbia ciclicamente assorbito ed elaborato numerosi
elementi tipici della cultura cinese per elevare il proprio livello di educazione civico-
religiosa, alla base dell’industria manifatturiera
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del sesto secolo.
Il potere era geograficamente suddiviso tra la famiglia imperiale ed i principali clan
che erano obbligati a produrre i manufatti ecclesiastici e cerimoniali utilizzati nelle
numerose funzioni che coinvolgevano gli strati sociali più elevati. Tuttavia i clan, in
perenne guerra tra loro per partecipare alla successione imperiale legando la propria
discendenza a quella dell’imperatore, costruirono un clima di instabilità e precarietà
politica che sfociò in una violenta serie di lotte intestine che eliminò molti candidati
al trono, col risultato di destabilizzare la fragile economia interna, eccessivamente
dipendente dalle richieste di prodotti da utilizzare nella liturgia e nelle celebrazioni
religiose praticate.
L’impellente necessità di salvaguardare la sovranità della famiglia imperiale e di
riformare l’apparato governativo su solide basi fu realizzata da Shotoku Taishi, erede
al trono che nel 603 d.C. riuscì a modernizzare l’azione di governo introducendo il
sistema amministrativo
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cinese, più progredito di quello indigeno. Un anno dopo
promulgò la prima costituzione, il cui obiettivo principale fu di limitare il nepotismo
nella burocrazia in favore del principio di uguaglianza meritocratica; ciascun
funzionario avrebbe dovuto essere nominato non in virtù del proprio lignaggio ma in
base alle competenze apprese. Tale criterio però non fu applicato all’imperatore, il
cui potere fu invece idealizzato a livello divino. Tale evidente paradosso tra il
tentativo di premiare la legalità nella gestione degli affari e l’assoluta obbedienza
all’autorità suprema danneggiò a più riprese l’economia e peggiorò le condizioni di
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Il termine deve essere opportunamente contestualizzato al periodo in analisi perché nel 7° secolo la
quasi totalità della popolazione era impegnata nella coltivazione della terra.
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Ancora oggi l’economia giapponese si caratterizza per l’eccessiva burocratizzazione. Sotto questo
aspetto rileva un interessante parallelis mo con alcune società occidentali, in particolar modo quella
italiana.
CAPITOLO I
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vita di molti artigiani, perché il valore della loro produzione dipendeva
esclusivamente dalla volontà imperiale di servirsi o no dei beni acquistati al prezzo
che (l’imperatore) imponeva a suo piacimento.
Il progetto di Shotoku Taishi di riformare organicamente lo Stato non si completò a
livello politico perché egli era troppo debole per realizzare la portata storica dei
propri progetti.
Alla sua morte il Giappone ripiombò in un periodo di forte instabilità e insicurezza, e
per oltre venti anni l’economia nazionale si ridusse unicamente alla coltivazione di
cereali necessari al sostentamento della popolazione; tuttavia un gruppo di studiosi
inviati in Cina per studiare il funzionamento dell’efficace apparato burocratico
utilizzato della dinastia T’ang riuscirono a convincere l’imperatore Fujiwara
Kamatari a istituire un apparato economico-industriale modellato sulla scia di quello
cinese. Così nel 645 d.C. fu varata la riforma Taika, basata sulle dottrine filosofico-
politiche di Shotoku Taishi, che determinò una drastica riduzione dei privilegi
concessi all’aristocrazia. I clan disponevano di tutta la ricchezza perché godevano di
rendite derivanti dallo sfruttamento di enormi appezzamenti di terra, coltivati da
contadini mal pagati, costretti ad effettuare periodiche prestazioni gratuite di lavoro
ed obbligati anche a trasformarsi in mercanti: occasionalmente dovevano occuparsi
della vendita dei manufatti prodotti dagli artigiani per gli scopi religiosi
3
.
Con la riforma invece l’intero terreno coltivabile fu scisso in appezzamenti uguali, a
loro volta suddivisi ulteriormente in nove parti di dimensione analoga.
Ogni appezzamento era lavorato da otto uomini, ed un’ulteriore piccola parte era
destinata al sostentamento privato e della famiglia. I clan subirono una drastica
riduzione del proprio prestigio sia perché persero la proprietà privata delle loro terre
sia perché i capi-clan dovettero accontentarsi di ottenere un lotto uguale a quello
lavorato della gente comune, anche se molti di loro furono nominati amministratori
alle dirette dipendenze dello Stato centrale, retribuiti con uno stipendio fisso in
cambio dell’esercizio delle funzioni burocratiche-gestionali delegate dall’autorità.
La riforma permise di offrire uguali opportunità economiche al popolo in virtù della
nazionalizzazione della terra, permettendo al paese di godere di un periodo di rapido
3
La società era religiosamente tripartita: la famiglia imperiale praticava lo shintoismo, i clan
seguivano i precetti del confucianesimo mentre la popolazione comune adottava il buddismo.
CAPITOLO I
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sviluppo; furono emanati numerosi codici di disciplina dell’attività mercantile, in
particolar modo il codice Taiho, promulgato nel 701, comprendente un insieme di
norme volte a regolamentare il diritto penale, il diritto civile, il diritto amministrativo
e quello commerciale. Replicando l’esperienza cinese della dinastia T’ang, furono
anche istituite scuole ed università volte ad educare e formare i futuri funzionari
governativi.
Anche la pratica del buddhismo presso la popolazione comune contribuì
notevolmente alla diffusione del principio inviolabile del rispetto della legge,
imponendosi come valore morale di riferimento nella condotta e nei comportamenti
lavorativi. L’etica buddista si preoccupava principalmente di aiutare la gente comune
in difficoltà, facendo leva sul sacrificio come primo strumento per migliorare la
propria condizione economico-sociale; i monaci oltre ad occuparsi di celebrazioni
religiose erano spesso impegnati nel coordinare attività lavorative quali l’irrigazione
dei canali e/o la costruzione di templi, edifici, case, utilizzando come manodopera
salariata lavoratori (contadini, fabbri, operai) emarginati e rimasti senza impiego.
La struttura produttiva avviata con la riforma Taika rimase in vigore per circa
duecento anni, tuttavia l’organizzazione centralizzata dello Stato si ridusse
gradatamente ad un involucro. Alcune sconfitte militari subite dalla corona per la
conquista della Corea indebolirono notevolmente il potere ed il controllo esercitato
dall’imperatore sull’apparato burocratico, favorendo la ribellione di numerosi clan a
cui il Governo dovette elargire importanti concessioni economiche. I rampolli delle
principali famiglie ottennero così un trattamento privilegiato nella nomina o nella
promozione ad una carica, col risultato di istituzionalizzare il nepotismo come prassi
dilagante all’interno della macchina amministrativa. Inoltre numerosi capi-clan
approfittarono dell’acuita debolezza della figura imperiale per staccarsi dall’autorità
centrale, iniziando a comportarsi più come governatori indipendenti che come
legittimi rappresentanti del potere, senza rispettare il vincolo della divisione della
terra presso ma privatizzando nuovamente la proprietà concessa ai contadini.
Nell’arco tre secoli la riforma Taika fu svuotata di ogni significato, sostituita dal
sistema ereditario di proprietà feudale che rimase in vigore sino al diciassettesimo
secolo e che ridusse l’arretrata attività manifatturiera ad un ruolo secondario, legato
principalmente alla sostituzione degli attrezzi da lavoro consumati nella lavorazione
CAPITOLO I
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della terra. L’isolamento culturale del Paese, nonostante i contatti con la Cina e la
Corea, e l’instabilità politica causata dalle continue guerre tra clan impedirono la
fioritura dell’industria, anche perché i primi contatti con il mondo occidentale si
ebbero solo nel 1542
4
ad opera di navigatori portoghesi.
Un’eccezione degna di nota è costituita dalla carta, materiale igroscopico utilizzato
per la scrittura e la contabilità delle merci scoperta in Cina attorno all’anno 105 d.C
ed introdotta in Giappone nel 610. Originariamente fabbricata con la rafia di gelso, la
tecnica di produzione fu migliorata già a partire dal IX secolo, diventando una
fiorente industria nazionale, nota soprattutto per la cartiera imperiale di Kyōto che la
produceva ricavandola da numerose fibre quali gelso, canapa, dafne e paglia
5
.
1.2. Il sistema feudale
L’introduzione del sistema feudale successivo all’epoca del grande cambiamento
avvenne agli inizi dell’undicesimo secolo e coincise con la caduta del clan Taira,
spodestato dalla famiglia Minamoto, il cui capo-clan Yorimoto Minamoto divenne
talmente potente da annullare di fatto l’autorità imperiale, accentrando su di sé tutte
le principali decisioni politico-economiche. Nominato Shogun
6
dall’imperatore,
Yorimoto puntellò il regime della proprietà privata della terra introducendo il
principio che obbligava i contadini a fornire una quantità determinata di lavoro al
latifondista che possedeva i terreni agricoli in cambio della possibilità di coltivarne
una parte per i propri bisogni.
Dalle lotte tra clan emerse il potere dei daimyo, cariche dinastiche attribuite a grandi
proprietari che utilizzavano forze armate personali, incarnate nella figura del
4
La scoperta del Giappone si deve ad alcuni mercanti portoghesi che, attorno al 1542-43, giunsero
sulle sue coste a bordo di un bastimento cinese, spinto verso l'isola di Kyushu a causa di una tempesta
in maniera totalmente casuale.
5
M. Morishima, Cultura e tecnologia nel successo giapponese, Il Mulino, Bologna, 1982, pp. 12-28.
6
Il termine Shogun rappresenta un titolo in uso dal X sino al XIX secolo per identificare il
comandante in capo delle armate militari del paese, attribuito solitamente in via ereditaria ai
comandanti più valorosi ed audaci che si distinguevano nelle battaglie combattute tra clan rivali.
CAPITOLO I
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samurai
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, per il controllo degli appezzamenti e del territorio. Nei confronti dei
daimyo il governo dello Shogun, pur riconoscendone l'autonomia, esercitava ampi
poteri di controllo su alleanze e matrimoni, riservandosi anche il diritto di confisca
delle proprietà per coloro che non accettavano la sua autorità.
Il sistema diarchico di amministrazione, che affiancava all’autorità dell’imperatore
quella dello Shogun, si accentrò nelle mani di quest’ultimo, delegando l’esercizio
della propria autorità ai governatori/latifondisti a lui legati da un rapporto di
vassallaggio: ciò favorì un decentramento del potere che portò all’autonomia di
numerose comunità di villaggi e l’ascesa di nuovi ceti urbani che stimolarono la
nascita di alcune manifatture, principalmente spade ed articoli di ricambio per i
samurai, ma anche stuoie, pellame, oggettistica per i monaci e per le funzioni
religiose, etc.
Tuttavia il problema che soffocò lo sviluppo della nascente produzione
manifatturiera confinandola ad una dimensione locale fu il regime dittatoriale
imposto dallo Shogun attraverso una severa politica di controllo economico-sociale
nei confronti della popolazione, ripartita in comunità sigillate e prive di contatti: al
proprio interno, i ceti sociali erano rigidamente suddivisi in gerarchie legate alla
funzione svolta: samurai, contadini, artigiani e mercanti. Il dominio su tali comunità
era assicurato dal ricorso alla regola della responsabilità collettiva verso la classe
feudale superiore. La stabilità del sistema, infine, era rafforzata dal principio del
Paese chiuso, che imponeva il rigido controllo del Governo sugli scambi
commerciali e sul flusso di informazioni con le potenze vicine, Corea e Cina
8
.
1.3. L’era Tokugawa
L’immagine del Giappone quale paese arretrato, ostile ad ogni influenza esterna e
confinato nella sola dimensione agricola, incominciò a cambiare nel diciassettesimo
7
Il termine samurai indica una figura militare appartenente alla casta aristocratica dei guerrieri, molto
potente nel Giappone feudale.
8
M Morishima, Cultura e tecnologia nel successo giapponese, op. cit., pp. 28-36.
CAPITOLO I
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secolo con il cosiddetto periodo Edo
9
, quando dalle numerose guerre civili che
portarono la casa Tokugawa allo Shogunato iniziò un processo di sviluppo
demografico, commerciale ed industriale.
Lo Shogun era proprietario di un quinto di tutte le terre coltivabili e da tali fonti
derivava la maggior parte delle proprie rendite. Il resto del paese era governato dai
daimyo che godevano di un considerevole grado di autonomia nell’amministrazione
dei territorio, anche se il controllo centrale era esercitato nei loro confronti attraverso
il Sankin Kotai, ovvero l’obbligo per ogni vassallo di soggiornare almeno sette mesi
l’anno nella capitale.
I samurai, che avevano l’obbligo di difendere le proprietà dei daimyo in caso di
guerra, si ritagliarono il ruolo di consiglieri militari dei Signori, che provvedevano al
loro mantenimento economico in cambio del giuramento di assoluta fedeltà. Sebbene
membri di diritto di una classe privilegiata, si distinsero sempre per potenza e
ricchezza; godevano di abbondanti porzioni di riso, ampiamente sufficienti a sfamare
le necessità delle loro famiglie, ed esercitavano anche funzioni amministrative quali
la riscossione di dazi e tasse per conto dei daimyo. Tuttavia, durante il lungo periodo
di pace interna inaugurato con l’era Tokugawa i samurai ebbero poche opportunità di
esercitare il loro ruolo di guerrieri, e poiché consideravano l’industria ed il
commercio attività indegne e ripugnanti, divennero una classe parassitaria e priva di
utilità, ad eccezione di coloro che rivestivano cariche direzionali. Alla vigilia della
restaurazione, la classe dei samurai, includendo i parenti più stretti e gli schiavi,
ammontava a circa due milioni di persone: mantenere tale massa di nullafacenti
arroganti costituiva un pesante macigno impossibile da sostenere.
Invece il contadino, che alla fine del 1600 costituiva circa l’86% della popolazione
nazionale, rappresentava la classe sociale più disagiata perché assoggettata
all’assoluta obbedienza al proprio daimyo: gli era preclusa la migrazione nelle
comunità urbane e la possibilità di produrre entrate extra era circoscritta
all’autosufficienza economica della famiglia. Le libertà individuali erano fortemente
limitate dalle leggi imposte dall’alto, sebbene nacquero in forma assolutamente
9
Dal nome della città cu i lo Shogun decise di trasferire il proprio governo. Di fatto nel paese
esistevano due capitali perché, pur essendo Kyoto quella ufficiale in quanto sede della corte imperiale,
l’effettivo potere governativo era esercitato a Edo.
CAPITOLO I
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spontanea numerose associazioni di mutua assistenza per il pagamento delle tasse:
ogni villaggio formava un’unità che si assumeva la responsabilità di assecondare le
richieste e le pretese imposte dai Signori. L’annuale imposta fondiaria rappresentava
il tributo principale e sebbene variasse di provincia in provincia, era pagata in riso ed
oscillava tra il 40/50% dell’intero raccolto delle risaie. I daiymo avevano la facoltà di
imporre un numero di prestazioni lavorative gratuite ed esigevano altri pagamenti di
varia natura. Numerosi storici sono concordi nell’affermare che tali tributi ridussero
numerosi contadini in uno stato di estrema indigenza: “…la loro sorte era cosi dura
che pareva vivessero con l’unico scopo di pagare le tasse e soddisfare i capricci di
ogni vassallo
10
”.
L’agricoltura impegnava la stragrande maggioranza della forza-lavoro e forniva
come principale raccolto il riso, mentre sugli altopiani era diffusa anche la
coltivazione di miglio, orzo, frumento, soia e tè. Alcune piante erano utilizzate per la
manifattura quali le foglie di gelso per i bachi da seta, la canapa ed il cotone. I
contatti con le altre comunità rurali e con le città erano ridotti all’acquisto di merci
come sale, metalli, medicine, anche se numerose famiglie avevano un’occupazione
sussidiaria perché producevano articoli e merci per la lavorazione agricola.
All’inizio del diciottesimo secolo l’estensione delle aree coltivabili ed il graduale
miglioramento delle tecniche agricole iniziarono ad erodere il sistema feudale perché
aumentarono le relazioni tra comunità rurali, sempre più orientate agli scambi
commerciali. I mercanti più intraprendenti incominciarono ad acquistare
appezzamenti di terra dai daimyo in difficoltà economiche, affiancandosi agli sparuti
contadini abbienti per cedere in affitto i poderi ad una nuova classe di coltivatori
salariati, mentre le città conobbero un aumento vertiginoso della popolazione causato
dalla fuga di massa dei lavoratori dai latifondi che avevano coltivato da generazioni.
La progressiva penetrazione di un’economia monetaria nelle comunità determinò
così una decisa influenza nell’abbattimento del vecchio sistema politico, scardinato
nelle proprie fondamenta sociali dal progresso tecnologico e dalla crescita
dell’industria manifatturiera.
10
G. Allen, Il Giappone dal feudalesimo alla grande industria, Giannini Editore, Napoli, 1973, p. 9.