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CAPITOLO 1 - ANALOGIA: APPROFONDIMENTO
STORICO
1.1 - Ricostruzione storica del principio nullum crimen sine lege
Con il principio nullum crimen sine lege si vuole esprimere il divieto di
punire un soggetto per un fatto che non sia espressamente preveduto come
reato dalla legge o di “porre a carico di chi abbia commesso un reato una
circostanza aggravante non preveduta dalla legge”
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. Il medesimo divieto
viene enunciato anche con la formula nulla poena sine lege per impedire
che qualcuno venga punito con pene non stabilite dalla legge. Questo
ultimo divieto solitamente viene accolto come correlativo anche dagli
ordinamenti che prevedono la formula nullum crimen sine lege. Il nostro
articolo 1 del codice penale li accoglie entrambi e, l’articolo 25 della
Costituzione, nonostante qualche incertezza di alcuni costituenti, racchiude
sicuramente il principio nulla poena sine lege.
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G. Vassalli, Novissimo Digesto Italiano, voce Nullum Crimen Sine lege, Torino, 1964, pagina 495,
volume 1
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Ripercorrere la storia del principio nullum crimen, nulla poena sine lege
non è un’ impresa molto facile , a causa delle diverse interpretazioni con cui
il principio fu inteso nei vari ordinamenti del passato e per le difficoltà che
l’interprete si trova a dover affrontare nel ricostruire ordinamenti molti
diversi da quelli contemporanei. Per quanto il nome sia recente, l’utilizzo
del procedimento analogico è antico.
Il punto di partenza della tradizione, infatti, è un frammento di Giuliano:
“Non possunt omnes articuli singillatim aut legibus aut senatus consulti
comprehendi: sed cum in aliqua causa sententia eorum manifesta est, is qui
jurisdictioni praeest ad similia procedere atque ita ius dicere debet”
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, alla
lettera: le leggi e i senatoconsulti non possono racchiudere analiticamente
tutti i casi ma, quando in una controversia ne risulti evidente la ratio, colui
che ha la giurisdizione deve attenervisi e pronunciare il principio di diritto
in conformità. (12, D, de leg., 1, 3).Le parole ad similia procedere si
riferiscono al completamento del diritto tramite l’analogia. Inoltre
Giustiniano, affermò che nella sua raccolta del diritto, potevano essere
presenti delle sviste, dovute alla ripetizione di cose già dette o dalla
omissione di cose nuove, distinguendo così, il caso in cui la legge scritta
non abbia preveduto una fattispecie a causa di una dimenticanza, dal caso in
cui invece, la lacuna, sia il frutto di una nuova fattispecie per cui non poteva
essere dettata una specifica disposizione. Questo nuovo negozio giuridico
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G. Vassalli, Novissimo Digesto Italiano, voce analogia, cit., pag. 601
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però poteva presentarsi anche solo semplicemente coma una nuova
questione in ordine ad un istituto già conosciuto, per cui sarebbe stato
sufficiente risolvere la nuova controversia secondo la sua affinità con
l’istituto principale. La legge scritta, non poteva ovviamente tener conto di
tuti i casi e prevederli. Come disse Teofrasto infatti, le leggi dovrebbero
essere istituite per quelle cose che accadono più frequentemente, e non per
quelle che avvengono accidentalmente, quindi, le leggi, devono adattarsi ai
casi frequenti e non a quelli rari.
Prendendo spunto dal passaggio di Giuliano, glossatori e commentatori
formularono i principi di una dottrina della extensio legis di cui
l’argumentum a simili era uno dei mezzi. Gli studiosi del quattro e del
cinquecento distinsero la comprehensio legis , cioè l’interpretazione delle
parole (verba) e dell’intenzione (mens) del legislatore, dalla extensio legis
comprendente invece i procedimenti per l’integrazione della legge, tra i
quali il procedimento per analogia. “Il termine analogia invece per indicare
l’estensione sulla base della somiglianza”
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venne utilizzato molto più tardi
forse alla fine del 18° secolo e deriva dall’espressione analogia iuris con la
quale si indicò “la connessione logica delle norme di un ordinamento al fine
della eliminazione delle antinomie e della costruzione del sistema, e da cui
solo più tardi nacque l’espressione analogia legis, per indicare il
procedimento che serviva a colmare le lacune di un ordinamento inteso
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G. Vassalli, Novissimo Digesto Italiano, voce analogia, cit., pag. 602
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come sistema unitario e coerente”
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. Presso i Romani, un divieto simile a
quello in uso oggi negli ordinamenti moderni ebbe vigore solo
limitatamente alla procedura ordinaria delle questiones, istituiti nel secondo
secolo a.C. Infatti, la coercitio, attività pubblica della polizia, non fu mai
vincolata alla legge ed inoltre, nell’ambito della stessa poenitio , attività
pubblica repressiva, i magistrati avevano la facoltà di agire come meglio
reputavano, quindi anche al di là delle fattispecie delittuose previste dalla
legge. Il ricorso all’analogia fu comunque comunemente ammesso sia nel
campo dei delicta privata sia nel campo dei crimina publica. I prudentes
romani, cioè quei giuristi che operavano tramite la loro interpretazione, non
si servirono dell’analogia nel senso in cui se ne parlò poi in seguito nella
scienza giuridica occidentale nell’Alto medioevo, poiché non era
compatibile tale sistema con i principi su cui si fondava il complesso
normativo romano.
Ogni decisione giurisprudenziale, infatti, aveva una particolare efficacia: il
suo fondamento giuridico era l’auctoritas dell’autore della sua
formulazione, senza tener conto che magari la fonte di ispirazione potesse
essere un esempio fornito da una norma precedente. Ciò che invece aveva
rilevanza era l’influenza che tali exempla potevano avere sul
comportamento dei giuristi. Tra l’altro, le esigenze giuridiche e di equità,
conducevano ad adottare soluzioni giuridiche analoghe. Questa
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G. Vassalli, Novissimo Digesto Italiano, cit., pag. 164
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caratteristica dello ius scriptum fu molto evidente nell’antico diritto romano
a causa del modo in cui esso si formò nel tempo. Non fu infatti “ l’opera di
una concezione giuridica astratta, ma si manifestò e si svolse lentamente e
gradatamente (…), applicando ed estendendo a nuovi istituti concetti e
forme antiche adattati alla nuova condizione di cose”
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. Non è quindi
possibile mettere in dubbio l’utilizzo del ragionamento analogico da parte
dei romani, ma bisogna tener presente che essi non lo considerarono come
un processo mentale che consiste nell’estendere logicamente una
conclusione stabilita da norme generali. Anzi, vi era un procedimento per
analogia, suddiviso in analogia di legge, se muoveva da una singola
disposizione e, quindi, la si applicava ad un caso diverso da quello per cui
fu prevista, e analogia di diritto se invece muoveva da tutto il sistema del
diritto positivo e perciò dai principi generali del diritto. In entrambi i casi, si
procedeva nell’individuare se la volontà del legislatore avesse preveduto il
caso controverso e si procedeva quindi alla decisione del caso. Per cui, il
procedimento per analogia, si distingueva dall’interpretazione estensiva,
poiché questa, non colmava alcuna lacuna di legge, il procedimento per
analogia invece, si utilizzava quando si presentava un nuovo negozio
giuridico non disciplinato e quindi per colmare tale mancanza, basandosi
però sull’unità organica del diritto.
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G. Vassalli, Novissimo Digesto Italiano, voce analogia, cit., pag. 602
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Nel medioevo il principio di legalità fu assai poco riconosciuto rispetto ad
oggi, poiché si ammetteva ampiamente il ricorso all’analogia in materia di
delitti e di pene. Così l’antico diritto germanico e in genere tutto il diritto
dell’alto medioevo, appariva in gran parte dominato dalla consuetudine. In
particolare, durante questo periodo, grammatici, dialettici e teologi,
attribuirono alla parola analogia il significato matematico di proporzione e,
quello, più generico, di comparazione.
I giuristi medievali, in particolar modo i Commentatori, non ritenevano
applicabile l’analogia ad ogni norma del regime positivo. Specialmente i
glossatori, non mostrarono mai di apprezzare norme nuove che
modificassero o correggessero le leggi precedenti. Di qui il principio,
teorico del divieto di applicazione analogica delle leges correctoriae, cioè
delle norme statutarie e di qualsiasi legge correttiva derivante da una norma
precedente. Inoltre anche nel diritto medievale, vi era la distinzione tra
norme di diritto comune e norme di diritto singolare, rispetto a cui si
sosteneva la regola interpretativa del divieto di analogia. Questo divieto poi,
per una serie di ragioni anche di natura morale, fu esteso alle leggi penali.
Questo a livello teorico, ma nella pratica il divieto non fi poi così rigoroso,
infatti l’estensione analogica veniva applicata tutte le volte in cui la ratio
legis fosse espressa nel testo legislativo. Nello stesso modo il problema
dell’analogia venne affrontato dai giuristi medievali anche rispetto alla
consuetudine, per cui, quando si dimostrava la presenza di una
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giustificazione razionale dell’applicazione analogica della consuetudine
contra ius, il procedimento interpretativo era considerato legittimo.
“L’interpretazione a similibus ad similia appariva il soccorso mirabile del
pensiero, all’impossibilità del legislatore di adempiere in maniera esauriente
la sua missione, poiché sulla base delle leggi positive, l’interprete poteva
elaborare nuove massime di decisione per situazioni nove ed imprevedute,
attraverso argomentazioni e deduzioni logiche”
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. In Italia, durante l’età
comunale, nel compito di interpretare gli statuti cui il giudice penale era
chiamato, era molto frequente il ricorso all’analogia cui espressamente
rinviava tutta una serie di statuti comunali sia sotto il nome di interpretatio
ad supplendum e sia sotto il nome di extensio fondata sulla identità di ratio
legis. “Questa volontà si manifestava anche nelle materie delle pene che
non erano lasciate alla discrezionalità del giudice. Tuttavia alcune
legislazioni penali, quali quella della Repubblica veneta, nel 12° e 13°
secolo, concedevano al giudice un arbitrio suppletivo che andava al di là del
ricorso alla analogia, anche in materia di crimini e di pene”
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. Durante
l’illuminismo, l’espressione analogia iuris fu utilizzata per indicare anche il
complesso di norme del diritto positivo, alla cui costruzione contribuiva
l’interpretatio analogica.
Fu nel 16° e nel 17° secolo che molti giuristi italiani, tra Farinaccio e Zuffo,
gettarono le basi della dottrina giuridica moderna in tema dei delitti e delle
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Luigi Caiani, Enciclopedia del diritto, secondo volume, citazione, pagina 347, 1958, Milano
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G. Vassalli, voce Nullum crimen sine lege, cit., pag. 497-8