Il periodo considerato in questa ricerca è relativamente ampio, ma solo un
lungo arco temporale permette di capire la complessità dei fenomeni analizzati,
che risulterebbero invece oscuri qualora circoscritti in brevi congiunture storiche.
Infatti questa tesi, al di là dell’argomento trattato, traccia retrospettivamente dei
ponti tra discipline che appartengono alla rete sistemica del sapere, come la
sociologia, l’economia, la geografia, l’urbanistica, l’ecologia, la geologia e le altre
scienze riguardanti le componenti ambientali del territorio. Si crede fortemente nel
concetto di storia vista come un tessuto nel quale si intrecciano sistemi
economici, politici e strutture sociali all’interno del contesto specifico degli
ecosistemi esistenti. La mia propensione al «pensiero sistemico» si deve alla
lettura di alcuni scritti rivelatori del fisico e filosofo austriaco Fritjof Capra, come
il Tao della fisica, il Punto di svolta e La rete della vita. Dietro la stesura di
queste e di altre opere, che si collocano nel lasso di tempo tra gli anni settanta ed
oggi, ci sono ampi dibattiti e confronti che il pensatore tenne in quegli anni con il
filosofo-epistemologo Gregory Bateson, con l’economista Ernest Schumacher,
con la biologa Vandana Shiva, il biologo-cibernetico Humberto Maturana e il
neurobiologo ed epistemologo Francisco Varela ed altri personaggi di rilevanza
scientifica internazionale, i quali con le loro profetiche teorie hanno incrementato
notevolmente il bagaglio di una conoscenza basata su una visione «olistica» dei
problemi che affliggono l’umanità all’alba del terzo millennio. La battaglia
intrapresa da questi illuminati personaggi si presuppone l’abbattimento di una
epistemologia riduzionista, settoriale e frammentata.
La vis interpretativa di questa ricerca storica deve molto alla tradizione di studi
geo-economici che fa capo a studiosi come Giuseppe Maria Galanti e Afan de
Rivera, alle ricerche storico-agrarie di matrice marxista che fanno capo ad Emilio
Sereni e Piero Bevilacqua, nonché alla geo-storia di Lucio Gambi. Dalle varie
fonti critiche scelte si deduce che in ogni epoca è già presente una certa
consapevolezza delle questioni. Tali fonti vanno dagli scritti degli autori del XIX
secolo alle riviste economiche del novecento, passando per le indagini di
sociologia economica e di antropologia politica.
L'intuizione che Cristo si sia fermato ad Eboli non è ovviamente casuale. La
provincia di Salerno, in particolare l’area dell'Agro-nocerino sarnese e la pianura
tra il capoluogo e il fiume Sele, fu investita da fenomeni di “modernizzazione”
delle strutture produttive nel periodo compreso tra l'ultimo decennio borbonico e
gli ultimi anni del regime fascista. In questa zona «di confine» tra sviluppo e
sottosviluppo i fenomeni suddetti assunsero caratteri particolari, anche
emblematici per ciò che riguarda i difetti strutturali del sistema socio-economico
locale e meridionale in genere.
Attraverso l’allusione alla famosa opera di Carlo Levi, si può ricordare che
Eboli è l'ultimo comune della piana a nord del Sele, e si vedrà come questo
semplice fatto sia bastato a cambiare radicalmente il destino dei centri situati sulle
opposte sponde del Silarus. Infatti in tutta la porzione di provincia salernitana, che
si estende a nord di uno dei più consistenti fiumi del Meridione, sia le zone di
pianura che quelle collinari a ridosso di queste ultime, a loro modo mostrarono
presto i tratti esteriori e gli effetti della penetrazione capitalistica. L'Agro-nocerino
sarnese conobbe, già pochi anni prima dell'annessione del regno borbonico a
quello sabaudo, un’intensificazione della produzione agricola grazie alla bonifica
quasi integrale, alla costruzione dei sistemi irrigui e a quella dell’impianto di
stabilimenti manifatturieri a carattere industriale su iniziativa di capitalisti
stranieri, tanto da essere definito, insieme alla Valle dell’Irno contigua ad essa ed
al capoluogo, «la Manchester delle Due Sicilie». Nella piana «in destra del Sele»
invece si verificò una veloce evoluzione grazie alle grandi opere pubbliche di
bonifica eseguite nel ventennio 1930-50. In questa tesi si analizzerà come questi
due processi siano stati determinanti per la successiva congestione demografica,
economica ed urbana delle due zone suddette. La parte restante della provincia,
ossia più di due terzi dell’intero territorio salernitano, è per la maggior parte
costituita da zone collinari e montuose che, in un’ottica marxista, verrebbero
naturalmente considerate come realtà di tipo pre-capitalistico; ma da un punto di
vista «olistico», che è quello da me adottato, esse sono da valutare innanzitutto
come territori di grande pregio ambientale, storico e culturale, in quanto
microcosmo di tradizioni antichissime.
Il primo capitolo si apre con una breve analisi della storia degli insediamenti di
quello che è stato il Principato Citra, nella quale si pone in evidenza il
lunghissimo periodo di spopolamento delle zone costiere e in particolare della
Piana del Sele, la più estesa della provincia, fenomeno dovuto all’impaludamento
ed alle prolungate incursioni via mare dei saraceni. I centri abitati si sono
moltiplicati a partire dalla fine del primo millennio d.C. fino al XVIII secolo nelle
zone più interne, arroccandosi in modo sparso tra le catene sub-appenniniche,
continuando così a prolungare e favorire il tradizionale isolamento delle storiche
popolazioni dei Lucani e dei Sanniti. Nei successivi paragrafi del primo capitolo
si analizza la situazione socio-economica a cavallo tra il XIX e il XX secolo,
sviluppatasi nei quattro circondari in cui è divisa all’epoca la provincia di Salerno;
già in questo periodo è visibile il formarsi di una condizione di «marginalità» dei
territori sud-orientali, sui quali gravava il peso rilevante di una rendita fondiaria
parassitaria e del dissesto idro-geologico.
Nel secondo capitolo si esaminano nel dettaglio gli interventi di bonifica nella
Piana del Sele durante il fascismo. L’esecuzione pratica dei lavori da parte della
società concessionaria, la nascita del Consorzio di bonifica «in destra Sele» e i
risvolti nei rapporti di produzione tra i soggetti interessati sono l’oggetto del
secondo paragrafo. Vi si mette in evidenza come gli stessi interventi di questo
periodo siano stati la prima occasione di intreccio tra poteri locali e centrali nel
salernitano, intreccio concretizzatosi nella gestione dei finanziamenti pubblici per
le opere di bonifica dalla quale hanno tratto vantaggio soprattutto alcuni notabili
locali costituitisi in società, che, come vedremo, saranno protagonisti anche
durante la ricostruzione post-bellica. Infine si analizza l’evoluzione demografica
degli insediamenti sorti sul territorio bonificato, confrontandola con quella dei
centri dell’Agro-nocerino-sarnese e riflettendo sui risvolti economici e sociali di
questi intereventi di bonifica.
Nel terzo capitolo si prende in considerazione la struttura clientelare che ha
permesso il verificarsi di intensi fenomeni di industrializzazione ed
urbanizzazione che hanno interessato il Comprensorio dell’Agro-nocerino sarnese
e la zona tra Salerno e la «città nuova» di Battipaglia dal dopoguerra agli anni
settanta e come questi fenomeni siano stati funzionali a situazioni di interesse
nazionale. Alcune continuità con il periodo fascista, di cui troveremo ancora certi
personaggi, risultano determinanti sotto l’aspetto politico, economico ed
amministrativo. Nel periodo considerato il salernitano cade progressivamente in
una preoccupante situazione di confusione soprattutto nell’ambito dei regimi
produttivi da programmare ed adottare, mentre è proprio negli anni sessanta che
cresce l’illusione della «grande Salerno» come polo industriale, snodo burocratico
e commerciale, nonché luogo di attrazione turistica. Il capitolo si chiude con
l’analisi dello sviluppo demografico ed edile delle due conurbazioni dell’Agro-
nocerino sarnese e Salerno-Battipaglia, che iniziano ad avere caratteri simili
proprio in questo periodo.
Infine nel quarto ed ultimo capitolo si fornisce un quadro complessivo degli
effetti del processo della trasformazione sociale, economica ed ambientale che si è
velocizzata nella fase centrale del XX secolo e si traggono alcune conclusioni dal
lungo periodo considerato. Queste si basano su intuizioni ed interpretazioni
personali di un’attualità salernitana intrisa di problemi, come la questione di
un’industria mai effettivamente decollata e la congestione totale delle due aree
conurbate. Le novità dell’ultimo quarto di secolo riguardano i primi fenomeni di
abusivismo edilizio collegati alla criminalità organizzata, che con la sua sempre
più massiccia presenza rende ancora più labirintica la gestione dello smaltimento
dei rifiuti e degli scarichi industriali, drammatiche questioni che in futuro non
potranno più essere sottovalutate. È per questo motivo che la tesi si chiude con
un’intervista a Vincenzo Maddaloni, uno dei fondatori del «Tribunale dei Diritti
dell’Ammalato» presso l’Ospedale Ruggi D’Aragona di Salerno, che mette in
evidenza, attraverso le sue indagini, il forte aumento percentuale nelle due
conurbazioni considerate di alcune patologie tumorali e cardiovascolari legate
molto probabilmente alla contaminazione della catena alimentare.
CAPITOLO 1
SQUILIBRI AMBIENTALI E SOCIO-ECONOMICI
NELLA PROVINCIA DI SALERNO
1.1 La dialettica tra pianura e montagna nella storia degli
insediamenti in provincia di Salerno
In questo paragrafo introduttivo si proverà a tratteggiare un breve itinerario
evolutivo del rapporto tra popolazione e territorio nel tentativo di evidenziare
alcune problematiche che hanno accompagnato durante la sua millenaria storia
quella che è, attualmente, la più estesa provincia del Meridione.
È noto che ogni collettività umana si adatta alle risorse del territorio nel quale è
insediata, espandendosi quando l’ambiente è favorevole e viceversa; subisce
d’altra parte gli effetti delle calamità naturali, delle guerre, delle epidemie; lascia
emigrare il proprio eccedente demografico quando questo ha saturato le risorse del
luogo e con esso incrementa lo sviluppo di altre regioni, di zone rimaste spopolate
o di nascenti unità urbane. Non si tratta di rapporti di causa-effetto lineari o
unidirezionali, in quanto si ritiene che il rapporto tra società e ambiente non sia
riconducibile ad una semplice contrapposizione tra risorse scarse o abbondanti e
consistenza o capacità tecnica della popolazione attiva. L’interdipendenza di
fattori sociali, economici, politici e ambientali comporta un’interpretazione storica
dello sviluppo di un’entità territoriale locale, regionale o nazionale, che sia
inclusiva di tutti gli elementi che concorrono alla crescita o al dissesto di una
collettività insediata. È questa una fondamentale e imprescindibile premessa da
tenere presente come assioma di base e paradigma interpretativo soggiacente al
presente studio.
Il grado di «benessere» di una comunità è sempre stato associato, però, alle
generosità o alle avversità del luogo dove essa si insedia. Gli antichi, da Polibio a
Virgilio, nonché Plinio e Columella, ci hanno tramandato innumerevoli immagini
di floridezza, feracità, di una natura più che benevola verso il Meridione. Ma le
1
risorse nell’antichità non erano considerate come qualcosa di inerte da sfruttare a
proprio piacimento, ma rientravano in una visione ciclica di cooperazione tra
uomo e natura, come dimostra la radice latina del termine risorsa ovvero re-
surgere, ri-generarsi. Una concezione che ritroviamo nelle innumerevoli opere di
bonifica, manutenzione, strutturazione del territorio che i Romani attuavano
dentro e fuori Roma, così come in qualunque colonia si insediassero. Ne sono
esempio la centuriazione del suolo agricolo, gli acquedotti, i cunicoli di scolo, i
muri di contenimento degli argini, opere che indussero Goethe nel suo Viaggio in
Italia a definirle come « una seconda Natura, che opera a fini civili ». Una
sapienza empirica che si sostanziava di un approccio integrale ai problemi della
gestione del territorio, che si estinse nelle regioni Meridionali durante l’età
medievale e moderna e che ritroverà vigore solo nelle illuminanti analisi dei
tecnici « illuministi » che operarono agli inizi del XIX secolo alle dipendenze del
Regno Borbonico, quando ormai il dissesto idrogeologico e le condizioni
dell’economia del Regno erano ampiamente compromesse.
Giuseppe Imbucci con uno sguardo a ritroso sulla storia della provincia di
Salerno, e in particolare del rapporto tra popolazione e risorse, sottolineava che
essa «si colloca in un più ampio territorio (…) le cui caratteristiche strutturali ed
ambientali sono tradizionalmente tra le più disgregate d’Italia».
1
Ma sotto quali
aspetti si può parlare di una tradizione di squilibri e dissesti? È certo una
questione molto ampia ma si crede che dei cenni, anche se di certo non totalmente
esaustivi ai fini di una analisi completa del problema, siano utili per evidenziare
problematiche generali e specifiche del territorio in questione.
Innanzitutto la provincia salernitana insiste su una superficie di 4922,5 km² ed
ha una forma spiccatamente longitudinale delineata da un confine, quello attuale,
che partendo dal versante meridionale della costiera amalfitana, escludendo
l’altipiano di Agerola, scende verso Cava dei Tirreni ed attraversa la piana del
Sarno ad oriente del Vesuvio. Di qui piega verso i monti Picentini, al limite della
provincia di Avellino, racchiude la vallata di S. Severino Rota e, ripiegando verso
nord, taglia il fiume Sele al di sotto di Caposele. Si delinea, quindi, a gomito in
direzione sud-est fin presso Monte Carrozzo e con un andamento piuttosto
irregolare discende verso la provincia di Potenza, seguendo quasi parallelamente
1
Cfr. G. Imbucci, Popolazione, territorio ed agricoltura a Salerno 1861-1961, in G. Aliberti [a
cura di], Popolazione, agricoltura e lotta politica a Salerno nell’età contemporanea, Cava dei
Tirreni 1978, p. 19.
2
l’asse di direzione del Vallo di Diano. Dove termina il Vallo e le alture si
addensano con un ritmo ancora più irregolare, la linea di confine ripiega verso
sud-ovest, poco dopo Montesano sulla Marcellana; finchè, poco oltre Sapri,
raggiunge il golfo di Policastro. Il paesaggio della provincia salernitana, quindi, si
articola su una estrema varietà di pianure, colline, montagne con una netta
prevalenza, però, dei contrafforti montuosi che sfiorano i duemila metri di
altitudine e che sebbene frastagliati e irregolari si dispongono a corona lungo tutto
il territorio dei monti Picentini fino ai monti dell’Alto Bussento e dell’Alto
Mingardo. Più precisamente abbiamo quasi un 60% di territorio collinare, il 29%
di zone montuose ed un 11% di pianure. La morfologia del territorio salernitano
rientra nelle generali caratteristiche dei rilievi del Mezzogiorno, il quale è
accompagnato in tutta la sua lunghezza dalle dorsali appenniniche che solo in
pochi punti flettono al di sotto dei mille metri, e che viceversa in molti altri si
dilatano in catene trasversali o si elevano a quote di quasi duemila metri. In
riferimento alla matrice appenninica possiamo quindi individuare il paesaggio alto
dei calcari mesozoici, le sottostanti colline eo-miceniche, arrotondate in sommità
e degradanti per ripide fiancate fino ai torrenti che ne erodono la base, e infine le
pianure del Pliocene, di matrice alluvionale.
Il rilievo costituisce il primo ostacolo ad una omogeneità territoriale ma risulta
favorevole nel creare micro-climi
2
, utili ad una più equilibrata distribuzione delle
produzioni agrarie locali; questa morfologia cominciò ad essere uno svantaggio,
nella sua costituzione geologica, quando divenne causa di erosione su vaste
superfici allorché i disboscamenti e dissodamenti si estesero senza riguardo alle
condizioni del pendio, della natura del terreno, dell’esposizione. Infatti in una
regione geologicamente giovane, come il Sud Italia, soggetta a fenomeni tettonici
abbastanza frequenti e con la totalità dei fiumi a regime torrentizio la vegetazione
ricopre oltre al ruolo produttivo un’importante funzione di difesa del suolo
dall’erosione.
3
Dunque il territorio salernitano ha il primo gap strutturale nella sua
morfologia fisio-grafica. Come dicevamo prima l’ottantanove per cento del
territorio risulta costituito da montagne e colline solcate da fiumi che nelle
stagioni piovose, concentrate in pochi mesi e stravolte dai grandi cambiamenti
climatici globali, straripano nelle valli e pianure sottostanti. Queste sono alcune
2
Cfr. A. Filangieri, Territorio e popolazione nell’Italia meridionale. Evoluzione storica, Milano
1980, pp. 48 e seg.
3
Cfr. ivi, p. 108.
3
condizioni preliminari che già tendono a far considerare inscindibili le
problematiche tra le varie zone ad altimetrie diverse.
I primi insediamenti stabili della provincia, che sono emersi grazie alle ricerche
archeologiche, risalgono al IX-VIII secolo a. c. e si trovano nella zona alla foce
del Picentino dove presero dimora i Villanoviani, provenienti via mare dalle
colline toscane e dalla pianura del Po, e che si spinsero fino a Consilinum.
4
La
presunta Picentia fu un centro mercantile molto operoso che cominciò a perdere
peso solo quando nel VII secolo un «pugno di Sibariti» fondava Poseidonia e
prendeva forma l’area sacra ad Hera sul Sele, mentre Elea sorgeva più all’interno.
Il livello culturale raggiunto dalle civiltà qui insediate è indiscusso e il
ritrovamento delle monete di Elea – sulle quali sono raffigurate le teste della ninfa
Velia o della Dea Atena – in tutto il Mezzogiorno, e non solo, ci testimonia
l’ampiezza del raggio d’azione commerciale. Contemporaneamente sorgeva, dove
ora troviamo Fratte, nella parte più bassa della valle dell’Irno, un insediamento di
etruschi provenienti dal retroterra campano. La valle del Sele e il Cilento erano
territori dei Lucani uniti in confederazione con i Sanniti.
Le guerre sannitiche portarono ad un primo stravolgimento degli insediamenti;
infatti Salernum fu fondata come colonia romana nel 194 a.c. quasi
contemporaneamente a Buxentum e Nuceria. Evidentemente la dialettica tra
pianura e montagna è riscontrabile già agli inizi dell’età antica, ed è inoltre intrisa
di connotati politici: dapprima i Lucani a monte e i Greci nella piana del Sele e
nella costa cilentana, poi i Sanniti all’interno e i Romani sulle colonie costiere,
continuando nel Medioevo con i Longobardi che si insediano da Benevento a
Salerno fronteggiati dalle città della costiera amalfitana. Analogamente a cavallo
tra età moderna ed età contemporanea si può intravedere dietro la dialettica tra
montagna e pianura la contrapposizione tra spopolamento e addensamento umano,
sottosviluppo e relativa fioritura economica, prevalente feudalesimo ed
affermazione della libera e piccola proprietà; tutte coppie dialettiche che possono
essere colte in un tipo di visione che attribuisce loro lo status di «peculiarità
politica» in un dato territorio.
5
4
Cfr. V. Bracco, Campania. Guida alla riscoperta delle civiltà scomparse nel Salernitano,
nell’Irpinia, Sannio,Casertano, Napoli 1989, pp. 12-13.
5
La dialettica pianura-montagna è stata utilizzata come categoria interpretativa anche della
regione Campania dallo storico G. Galasso, ma l’origine del concetto si deve alla geografia storica
di F. Braudel, e in particolare, Civiltà e imperi nel Mediterraneo nell’età di Filippo II, Torino1965.
4