1
PREMESSA
Se si apre il dizionario della lingua italiana alla parola “corruzione”, la ricerca restituirà
significati lessicali come “stato di decadimento morale”, “depravazione”,
“pervertimento”; alla voce “corrompere” si trovano significati come “alterare”,
“guastare”, “contaminare”, “viziare”, “inquinare”, “deviare o tralignare dalla retta
via”: cercare le diverse declinazioni della radice non condurrà ad ottenere risultati
dissimili, tant’è che il campo semantico farà sempre riferimento a un denominatore
comune che allude a una disonestà consistente nel fare qualcosa contraria al proprio
dovere per guadagno, tornaconto, o altro.
Anche un’indagine etimologica testimonia come la parola “corruzione” derivi dal
termine latino “corruptio”: non manca chi fa risalire il significato di questa parola
all’unione dei due termini “cor” e “ruptus”, la cui traduzione letterale è “cuore infranto,
rotto”.
L’immagine, così suggerita, richiama alla mente una crepa, una rottura rispetto
all'integrità richiesta da un ruolo, un cedimento all’avidità, un tradimento egoista che
infrange un patto di fiducia.
Senza voler sconfinare in un territorio assai vasto, che esulerebbe dai temi della
presente trattazione, nella cultura giuridica nostrana il fenomeno corruttivo è sempre
stato concepito e raffigurato prevalentemente, se non esclusivamente, nell’ambito dei
pubblici poteri, a maggior ragione dopo il caso “Tangentopoli”, assurto agli onori delle
cronache nel 1992. In tal senso, anche il codice penale disciplina i reati di corruzione
nel titolo dedicato ai reati contro la Pubblica Amministrazione. Ed infatti, per molti
risulta quasi automatico il collegamento tra la “corruzione” – intesa, stavolta, in senso
tecnico-normativo – e le figure del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico
servizio. Prova ne sia il fatto che il codice penale prevede, al momento, soltanto la
corruzione dei pubblici agenti.
Il presente lavoro, scevro tanto da aspirazioni di completezza, quanto da pretese
risolutorie, si ripromette di analizzare quella che costituisce “l’altra faccia della stessa
medaglia”: sempre di corruzione si tratterà, ma delle condotte poste in essere, stavolta,
non nell’ambito della Pubblica Amministrazione e non dai pubblici ufficiali e dagli
incaricati di pubblico servizio, bensì in ambito privato, dai soggetti operanti nel mondo
economico-imprenditoriale. Naturalmente, il perimetro d’indagine, così circoscritto,
sconta le peculiarità della materia cui afferisce (il diritto penale dell’economia) e molte
considerazioni in tema di corruzione c.d. pubblica (soprattutto quelle che includono
2
riflessioni più o meno profonde sui beni giuridici del “buon andamento” e
dell’“imparzialità” della Pubblica Amministrazione), non saranno trasponibili – sic et
simpliciter – nel settore privato senza pagare dazio a quello che sarebbe un “trapianto
con forte rischio di rigetto”.
E infatti, da diversi anni studiosi di diritto penale, economisti e politologi sostengono
che a fianco della corruzione del soggetto pubblico deve essere punita anche la
corruzione fra privati, al fine di reprimere il fenomeno tangentizio anche nella realtà
imprenditoriale.
Il presente lavoro prenderà le mosse proprio dalle istanze, provenienti “dal basso”, che
avveduta dottrina evidenziava già all’inizio degli anni ’70, stimolando un vivace
dibattito da cui potesse emergere la lacuna normativa dell’ordinamento italiano,
sprovvisto di una fattispecie idonea a contrastare un fenomeno dai numerosi effetti
nocivi. Istanze che, come si vedrà, sono state poi accolte a livello internazionale ed
europeo, determinando quella sorta di “spinta dall’alto” esercitata da strumenti come la
Convenzione OCSE del 1997, l’Azione Comune del 1998 e la Decisione quadro del
2003, che hanno chiamato il legislatore italiano ad adeguare l’apparato sanzionatorio
interno. Ed invero, le forme corruttive tra soggetti privati sono state, per la prima volta,
prese in considerazione dal legislatore nazionale in sede di riforma del diritto societario
con la riformulazione degli articoli 2634 e 2635 del codice civile (infedeltà
patrimoniale e infedeltà a seguito di dazione o promessa di utilità), figli proprio di
quella spinta dottrinale e delle sollecitazioni internazionali. Si esamineranno, quindi, sia
il background della norma che ha visto la luce nel 2002, dopo un travagliato iter
parlamentare, sia i lineamenti strutturali della suddetta fattispecie di cui all’art. 2635 del
codice civile. Al termine dell’esame dei connotati di struttura, poi, sarà possibile aprire
le porte a un ventaglio di rilievi critici e perplessità inerenti il funzionamento di una
fattispecie dalla discutibile fisionomia. Seguirà un approfondimento sull’oggettività
giuridica nei delitti di corruzione tra privati, dal momento che, come si vedrà, al variare
della fisionomia di questa, varieranno anche altri importanti elementi di fattispecie. Sarà
possibile verificare come ogni differente strutturazione, aderente a questo o quel
modello prospettato dalla dottrina, risponda a diverse esigenze politico-criminali
retrostanti, e influenzerà in modo peculiare il focus della tutela. Al termine delle
riflessioni inerenti l’oggettività giuridica, si proverà ad “entrare dentro l’azienda”, per
verificare, attraverso una breve analisi dei principali strumenti extrapenali, se, ed
3
eventualmente in che modo, tali rimedi siano in grado di contrastare, alternativamente o
congiuntamente, il fenomeno corruttivo nel settore privato.
Il lavoro proseguirà con alcune riflessioni riguardanti la delega al Governo contenuta
nella Legge comunitaria 2007, all’art. 29 della l. 34/2008: si tratterà, con un occhio
anche al parallelo “disegno di legge Kessler”, di verificare la rispondenza della suddetta
stesura ai dettami provenienti dalle sedi internazionali. Per concludere, verranno
analizzati i risultati cui il legislatore è addivenuto proprio di recente, con il decreto
anticorruzione di cui alla l. 190, convertita in legge il 6 novembre del 2012, dopo un
decennio esatto dalla riforma del 2002. Inserendosi nello scenario sopra brevemente
descritto, il decreto anticorruzione, proponendo una rivisitazione globale degli strumenti
di contrasto al fenomeno, sia nella Pubblica Amministrazione sia, per quel che qui
interessa (coerentemente con il tenore dell’impianto complessivo del lavoro svolto), in
ambito privatistico, sembra prefiggersi l’obiettivo di colmare le lacune che presenta il
nostro ordinamento. Naturalmente, allo stato attuale delle cose, non sarà possibile
adottare una definitiva presa di posizione. Tuttavia, sarà possibile un più modesto
giudizio prognostico circa la vitalità, il futuro e l’efficacia della nuova incriminazione,
in attesa dei necessari riscontri che proverranno – se proverranno – dalla prassi
applicativa.
4
CAPITOLO I
L’INCRIMINAZIONE DELLA CORRUZIONE NEL SETTORE
PRIVATO: SUGGERIMENTI DOTTRINALI E SPINTE
SOVRANAZIONALI.
1. UN “RUMOROSO SILENZIO” NORMATIVO: L’ASSENZA DI
UN’APPOSITA FATTISPECIE INCRIMINATRICE DELLE
CONDOTTE CORRUTTIVE NEL SETTORE PRIVATO.
Da tempo risalente si avvertiva in dottrina l’esigenza di un pronto intervento del
legislatore in materia di corruzione nel settore privato. I crescenti fenomeni di
privatizzazione, consistenti nel progressivo “spogliarsi”, da parte del potere pubblico, di
gran parte delle attività economiche e del loro contestuale trasferimento ad enti privati,
e l’evidenza del dato comparatistico
1
, che rileva come quasi tutti gli Stati europei
incriminino la corruzione nel settore privato, hanno reso non più differibile un
intervento del potere legislativo, chiamato a fronteggiare il fenomeno.
Il tema fu affrontato in un noto saggio inerente la criminalità d’impresa, nel quale
emerse la gravità con cui si avvertiva l’esigenza di introdurre, nell’ordinamento
giuridico italiano, una fattispecie che potesse riprodurre “sul piano repressivo, una
tipologia sociologica già abbondantemente delineata dall’esperienza, valorizzando
soprattutto il ruolo sempre più marcato che assume, anche nella patologia della vita
societaria, la figura dell’amministratore”.
2
Si trattava di fronteggiare un fenomeno,
quello corruttivo, originatosi nella realtà emipirico-fattuale, ispirandosi a serie esigenze
di cautela sostanziale, separando rigidamente gli interessi patrimoniali dell’ente da
quelli dell’amministratore, approntando, così, una efficace linea di tutela in vista del
pericolo di inquinamento del processo di motivazione degli atti di gestione, che avrebbe
comportato un sostanziale avvicinamento della figura dell’amministratore di società a
1
Per un raffronto con le fattispecie di altri ordinamenti J. VOGEL, La tutela penale contro la corruzione
nel settore privato: l’esperienza tedesca, in AA.VV., La corruzione tra privati: esperienze
comparatistiche e prospettive di riforma (atti del convegno, Jesi, 12-13 aprile 2002), a cura di R.
Acquaroli e L. Foffani, Giuffrè editore, Milano, 2003, p. 75 ss; M.P. LUCAS DE LEYSSAC, Il delitto di
corruzione dei dipendenti in Francia, ibidem, p. 101 ss; A.N. MARTIN, La corruzione nel settore
privato: riflessioni sull’ordinamento spagnolo alla luce del diritto comparato, ibidem, p. 111 ss; PETER
TAK, Il reato di corruzione privata in Olanda, ibidem, p. 143 ss; ROBERT SULLIVAN, La risposta
legislativa alla corruzione in Inghilterra, ibidem, p. 157ss.
2
MARINUCCI G. – ROMANO M., Tecniche normative nella repressione penale degli abusi degli
amministratori di società per azioni, in AA.VV., Il diritto penale delle società commerciali, a cura di P.
Nuvolone, Milano, 1971, p. 114.
5
quella del soggetto agente della fattispecie inserita nel codice penale, riguardante i
delitti contro la Pubblica Amministrazione
3
. Appare evidente come siffatto intervento
sia auspicato nell’alveo dell’infedeltà dell’amministratore, il cui processo motivazionale
verrebbe inquinato da un’ingerenza esterna che porterebbe inesorabilmente alla
divaricazione più o meno netta tra l’interesse suo proprio e quello del complesso
societario nel quale egli è chiamato ad operare, in ottemperanza agli obblighi previsti
dallo statuto della società. Tuttavia, “l’abuso di potere non dovrebbe rappresentare la
ratio dell’incriminazione, bensì solo il mezzo attraverso cui si realizza l’offesa al
patrimonio (…). Tale offesa patrimoniale, su cui si incentrerebbe la fattispecie,
dovrebbe tuttavia acquistare rilevanza soltanto con alcune limitazioni di ordine
soggettivo: ciò che, per il collegamento <<istituzionale>> dell’amministratore
all’ente, equivale a far affiorare in modo netto l’inconfondibile profilo dell’infedeltà”
4
.
E’ chiaro, allora, come intanto il comportamento dell’amministratore assuma rilevanza
penale, in quanto sia supportato da un “retrostante” dovere di fedeltà all’ente, che
l’amministratore infrange perseguendo un interesse suo proprio o di altri, comunque
estraneo alla logica delle operazioni societarie a cui egli risulta preposto. Lo strumento
non può che essere quello della penalizzazione, diretta a responsabilizzare queste
fondamentali figure dell’organigramma societario, garanti istituzionali degli enormi
interessi in gioco in seno alle società. Sembra, quindi, che modelli alternativi di
reazione al fenomeno possano affiancarsi, ma non sostituirsi allo strumento penale.
Altra parte della dottrina, più recente, origina la propria riflessione dall’osservazione
dell’analogo fenomeno nel campo dei delitti contro la Pubblica Amministrazione, dal
quale non dovrebbe potersi prescindere per realizzare un’esaustiva analisi della
corruzione in ambito privato. Ci si chiede se le medesime istanze di tutela possano darsi
in altri differenti contesti da quelli già noti al nostro legislatore. Se, più precisamente, “i
reati di corruzione costituiscano realmente una nota specifica della tutela della
Pubblica Amministrazione o se, al contrario, essi siano trasponibili in diversi ambiti”
5
.
In molti casi si è tentato, con discutibili operazioni di “ortopedia giuridica”, di realizzare
una dilatazione delle definizioni stipulative di “pubblico ufficiale” e di “incaricato di
pubblico servizio”, al fine di rendere applicabili gli articoli del codice penale a soggetti
sprovvisti di tali qualifiche, con conseguenti perplessità riguardanti il rispetto del
3
Per un’analisi in parallelo delle due forme di corruzione vedi VINCIGUERRA G., Infedeltà a seguito di
dazione o promessa di utilità, in AA.VV., Reati societari, a cura di A. Rossi, Torino, 2005, p. 447 ss.
4
MARINUCCI G. – ROMANO M., Ivi, p. 117.
5
SEMINARA S., Gli interessi tutelati nei reati di corruzione, in Rivista italiana di diritto e procedura
penale, 1993, p. 988.
6
principio di legalità, minato da così disinvolte estensioni. Si tratta di episodi che
constano di un allargamento in via interpretativa dell’ambito di operatività dello statuto
penale della Pubblica Amministrazione, attraverso una lettura estensiva delle norme
attributive delle suddette qualifiche
6
.
Parallelamente alla constatazione dell’assenza di penetrante controllo da parte degli
azionisti sulla gestione dell’impresa da parte degli amministratori, si rimarcava
l’improcrastinabile esigenza di introdurre nel nostro ordinamento una tutela adeguata:
“Si potrebbe dunque pensare all’opportunità di introdurre anche nel nostro
ordinamento una fattispecie di infedeltà patrimoniale; tuttavia, solo che si guardi alle
sue prospettazioni nelle diverse legislazioni europee, essa richiederebbe comunque la
dimostrazione del danno (o della dolosa esposizione a pericolo) nei confronti del
patrimonio del soggetto passivo. Donde la sua inadeguatezza ad evitare i pregiudizi
economici conseguenti alla corruzione, essendo il più delle volte impossibile stabilire se
la condotta tenuta dal soggetto <<corrotto>> sia produttiva di un reale nocumento
patrimoniale per la società”
7
.
Siffatta ricostruzione presentava l’indiscutibile pregio di evidenziare la contiguità tra
una fattispecie di “infedeltà patrimoniale” e una di cosiddetta “infedeltà personale”,
laddove la prima sarebbe volta a reprimere le condotte oggettivamente dannose o
pericolose per il patrimonio del soggetto passivo, e la seconda, fondata sull’accettazione
di indebite utilità per il compimento di atti conformi o contrari ai doveri dell’ufficio,
nonché indifferente alla produzione di qualsivoglia danno o messa in pericolo di beni
giuridici, orientata a reprimere il pericolo di pregiudizi economici per la società,
colpendo ab origine la violazione del dovere comportamentale del soggetto agente, che
accetti un indebito compenso. Entrambe entrerebbero a far parte di una tutela approntata
a 360 gradi, nell’ottica di un medesimo continuum punitivo: anticipando l’una la
punibilità al momento dello scambio corruttivo tra atto d’ufficio e utilità, e
prescindendo da un evento dannoso o pericoloso, e differendola all’effettiva
verificazione di un nocumento l’altra.
Tale dottrina impostava con netto anticipo i termini di un dibattito, quello sulla
progressione criminosa tra le due fattispecie, che circa dieci anni dopo, si sarebbe
riproposto essenzialmente negli stessi termini.
6
R. ACQUAROLI, L. FOFFANI, La corruzione tra privati: note introduttive sull’esperienza italiana, in
AA.VV., La corruzione tra privati: esperienze comparatistiche e prospettive di riforma (atti del
convegno, Jesi, 12-13 aprile 2002), a cura di R. Acquaroli e L. Foffani, Giuffrè editore, Milano, 2003.
7
SEMINARA S., Op. Cit., p. 990.
7
Da quanto emerso, risulta che la corruzione può presentarsi solo come violazione di un
dovere di fedeltà, inteso come “dovere principale di un rapporto in nome del quale il
titolare è obbligato a curare l’interesse (o anche l’interesse) di altri, che viene a lui
affidato, a preferenza del suo stesso interesse e quindi eventualmente anche con
pregiudizio di questo
8
”.
L’accettazione di indebite utilità per il compimento di atti può assumere, quindi,
rilevanza penale o in funzione del pericolo che si concreta nell’abuso di fiducia, oppure
avuto riguardo al danno cagionato alla credibilità dell’ente e al suo corretto
funzionamento.
Un ultimo contributo al dibattito concernente le risposte sanzionatorie al fenomeno della
corruzione nel settore privato, si occupava del problema da una duplice angolazione,
che tiene conto delle intersezioni tra il fenomeno dell’infedeltà gestoria e quello della
corruzione: da un lato, infatti, si trattava di stabilire se, ed entro quali limiti, potesse
qualificarsi condotta di amministrazione infedele la corresponsione di “tangenti”
destinate a scopi di corruzione di pubblici funzionari. Dall’altro lato, però, andava presa
in considerazione anche l’ipotesi inversa, ossia quella nella quale fosse un soggetto
interno all’organizzazione d’impresa a figurare questa volta come precettore, anziché
come datore, di una “tangente”
9
.
Riguardo al primo profilo, il fenomeno confluirà nell’ambito dell’amministrazione
infedele solo quando promani soggettivamente dall’interno di una struttura
imprenditoriale societaria e coinvolga oggettivamente il patrimonio sociale. Resta
escluso o, meglio, sussumibile nella sfera dello statuto penale della Pubblica
Amministrazione, il caso in cui un amministratore corrisponda la “tangente” attingendo
al suo patrimonio personale e per scopi avulsi dal perseguimento dell’oggetto sociale.
Nel diverso caso in cui, invece, l’illecita corresponsione si inserisca effettivamente nel
quadro dell’attività di gestione sociale, si dovranno distinguere le ipotesi che rivelino
una conflittualità sostanziale di interessi fra il soggetto e l’ente, con pregiudizio per il
patrimonio di quest’ultimo, da quelle ipotesi nelle quali, invece, si sia agito
esclusivamente nell’interesse della società.
La fedeltà dovrebbe ritenersi non intaccata tutte le volte in cui la corresponsione della
tangente appaia ex ante come un’operazione inquadrabile all’interno di una logica
strettamente imprenditoriale (benché viziata da una patologia criminosa), come un
8
Definizione di ZUCCALA’ G., L’infedeltà nel diritto penale, Padova, 1961, p.144.
9
FOFFANI L., Infedeltà patrimoniale e conflitto d’interessi nella gestione d’impresa (profili penalistici),
Giuffrè editore, Milano, 1997, p. 576.
8
mezzo effettivamente funzionale ed adeguato al conseguimento di un obiettivo
pertinente all’oggetto sociale.
Ad ogni modo, la soglia dell’infedeltà gestoria dovrà ritenersi varcata ogni volta in cui
una determinata operazione tradisca l’incidenza di interessi estranei e configgenti con
una logica d’impresa, dando luogo ad un impiego lesivo del patrimonio sociale.
Il fenomeno, come accennato, può atteggiarsi anche sotto una diversa prospettiva:
quella della percezione, anziché della corresponsione, di utilità indebite.
E’ qui che emerge, in tutta la sua impellenza, l’esigenza di un intervento legislativo. Si
sottolinea soprattutto come il bisogno di un intervento normativo ad hoc sia stato
avvertito con grande intensità anche nell’ambito di sistemi penali nel panorama europeo
che pure conoscono da tempo una fattispecie incriminatrice generale dell’infedeltà
patrimoniale o dell’abuso dei poteri sociali.
Proprio dall’osservazione del modello suggerito dal legislatore austriaco, tale dottrina
propone l’introduzione nell’ordinamento italiano di una cosiddetta fattispecie
avamposto dell’infedeltà patrimoniale: si tratterebbe di “orientare la fattispecie in senso
chiaramente anticipatorio di una fattispecie base repressiva dell’amministrazione
infedele”
10
.
La coerenza di una simile impostazione andrebbe apprezzata anche sul piano del
trattamento sanzionatorio delegato alle due fattispecie: più blando il trattamento
previsto dalla prima (alla luce del fatto che si prescinde dalla causazione di un danno),
più grave quello previsto dalla seconda.
Ciò che, unitamente alla considerazioni sopra svolte, rende ancora più indifferibile
l’introduzione di un’apposita fattispecie, è lo studio del nuovo quadro istituzionale che
si va sempre più definendo, perché è evidente che con l’accelerazione impressa al
processo di privatizzazione delle attività economiche, siano esse imprese o attività
pubbliche di erogazione, si va, in prospettiva, verso una imponente dislocazione di
interessi da tutelare (e quindi di strumenti di tutela, anche penale) dalla sfera propria
della disciplina della Pubblica Amministrazione a quella della disciplina dell’economia.
Emerge nettamente, così, l’impossibilità di fronteggiare adeguatamente il fenomeno
finchè la lacuna normativa non risulterà colmata, senza, peraltro, poter prescindere da
un ricorso allo strumento penale. Un ricorso eventualmente non esclusivo, armonizzato
dalla contemporanea presenza di strumenti alternativi alla pena, e che non tradisca i
principi di sussidiarietà e frammentarietà dell’intervento penale.
10
FOFFANI L., Ivi, p. 587.
9
Non bisogna dimenticare, per concludere, che “il diritto penale, al di fuori di ogni
illusione, interviene a consolidare assetti già precostituiti da altri strumenti normativi
ed a reprimere singoli atti della gestione d’impresa: non a garantire di per sé il
raggiungimento dei fini dell’impresa o a produrre trasformazioni sul terreno
dell’economia”
11
.
2. LE PRESSIONI INTERNAZIONALI
Nel paragrafo precedente si è evidenziato come il fenomeno corruttivo, originatosi nella
realtà dei fatti, abbia creato delle spinte “dal basso” verso una sua cristallizzazione
all’interno di strumenti normativi di diritto positivo, segnatamente penali, veicolate
dagli articolati suggerimenti di un’avveduta dottrina.
Bisogna, però, fare i conti anche con un diverso fenomeno, di più ampio respiro,
consistente nella pressione degli organi internazionali che, con una cogenza che la
dottrina non può vantare, pongono in capo agli Stati veri e propri obblighi di
penalizzazione, spingendo “dall’alto” il legislatore italiano a rispondere adeguatamente
al manifestarsi del fenomeno.
La collaborazione internazionale viene ormai considerata come irrinunciabile per poter
combattere la corruzione e per poter promuovere senso di responsabilità, trasparenza e
legalità, soprattutto allorchè si tenga conto che “la dimensione transfrontaliera del
fenomeno comporta diversi problemi, che rendono necessario un diritto penale della
corruzione, per stabilire una comune soglia di punibilità a livello internazionale ed un
procedere in maniera coordinata dell’intera comunità internazionale”
12
.
In tale direzione, sono state numerose le sollecitazioni indirizzate ai legislatori nazionali
per introdurre misure sanzionatorie sufficientemente dissuasive delle condotte di
corruzione nel settore economico, in aggiunta a quelle già presenti nel tradizionale
contesto dei pubblici agenti
13
.
Si tratta, in particolare, dell’Azione comune del 22 dicembre 1998, adottata dal
Consiglio d’Europa sulla base dell’art. K.3 (attuale articolo 31) del Trattato sull’ Unione
11
BRICOLA F., Lo statuto penale dell’impresa: profili costituzionali, in Trattato di diritto penale
dell’impresa, a cura di A. Di Amato, Vol. I, Padova, 1990, p. 153.
12
HUBER B., La lotta alla corruzione in prospettiva sovranazionale, in Riv. trim. dir. pen. econ., 2001,
p. 469.
13
Così BELLACOSA M., Obblighi di fedeltà dell’amministratore di società e responsabilità penali,
Giuffrè editore, Milano, 2006. Nella stessa scia MACCARI A.L., Art. 2635 c.c., in AA.VV., I nuovi
illeciti penali ed amministrativi riguardanti le società commerciali, a cura di F. Giunta, Giappichelli,
Torino, 2002.