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Introduzione
La commission estime que loin de clore le débat, son
rapport ne fait que l’ouvrir
J. Stiglitz, A. Sen, J. P. Fitoussi, Rapport de la
Commission sur la mesure des performances
économiques et du progress social, 2009.
Occuparsi di “misurazione della felicità” richiede, ancor prima di presentare
numeri e dati, la premessa di una serie di punti fermi e di non poche opinioni
contrastanti. Obbliga, inoltre, a tener conto della natura in corso d’opera di questa
operazione che coinvolge statistica, ricerca sociale, economia e politica.
L’espressione stessa, se vogliamo, per quanto comoda a esperti e giornalisti, è in
realtà a rischio di fraintendimento sul reale oggetto della ricerca. Non solo:
sembra quasi facilitare l’ulteriore equivoco per il quale si teme che negli anni a
venire il Pil sarà interamente sostituito da nuovi indici che riferiranno il benessere
anziché la ricchezza.
Non è così, è bene chiarirlo già in partenza: anche a prescindere dalle difficoltà
economiche dell’Occidente, alle quali si tende a reagire chiedendo di “fare più
Pil”, un indice relativo alla ricchezza tout court, alle risorse economiche di un
Paese, costituisce un punto di riferimento imprescindibile. Anzi, a partire dai
Forum dell’Ocse (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico)
e dal rapporto della commissione degli economisti Stiglitz, Fitoussi e Sen –
rapporto che, come si vedrà, costituisce la pietra miliare delle ricerche in tema di
benessere – il ruolo del Pil è stato riconfermato e accresciuto in termini di
importanza e responsabilità. Ciononostante, sono sempre più numerose le voci
fuori dal coro che evidenziano i limiti di questo indice e richiedono piuttosto
maggiore attenzione alle disparità di reddito, alle forme di lavoro non misurabili, a
grandezze non necessariamente economiche ma tuttavia indicative della ricchezza
in senso lato di un Paese. Benessere, qualità della vita, progresso, sostenibilità,
felicità: sono tutti termini fra loro assai differenti, ma spesso e volentieri
raggruppati in espressioni ad effetto con lo scopo di proporre una visione al di là
del Pil. Basti, per ora, considerare che la parola inglese ‘happiness’ si riferisce e
5
accorpa i concetti di felicità e benessere nella stessa sfera semantica, come a dire
che i due termini si equivalgono e concorrono a misurare un valore che li somma.
Lo stesso non accade in altre lingue, ciò che richiede una precisazione di caso in
caso, mentre capita talvolta di ritrovare un uso inconsapevolmente indistinto dei
termini, sintomo di confusione fra i divulgatori.
Cosa significa, dunque, misurare il benessere? Una risposta concreta ed
esaustiva sarà forse possibile nel futuro prossimo, al termine dei numerosi
laboratori che, a livello mondiale, si occupano per ora di delineare gli indicatori
relativi alla qualità della vita di una popolazione: benessere oggettivo?
Soggettivo? Espresso? Percepito? Economico? Generale? Sostenibile? Ė evidente
che la difficoltà alla base di tale ricerca risiede proprio nella definizione stessa del
suo oggetto: i primi due capitoli di questo lavoro sono dedicati dunque alla
definizione di un punto di partenza. Negli ultimi dieci anni, infatti, un interessante
susseguirsi di conferenze mondiali, convegni di esperti ed eventi di vario genere
ha fatto emergere l’urgenza di misurazioni “oltre-il-Pil”, per permettere ai governi
di conoscere l’opinione dei cittadini sulle condizioni di vita delle comunità alle
quali appartengono. Si tratta, per di più, di un bisogno relativo non solo ai Paesi in
via di sviluppo, ma anzi maggiormente manifesto in quelli industrializzati.
Economisti ed esperti della psicologia cosiddetta ‘edonica’ sono dunque scesi in
campo unendo teorie e formule per ripensare un concetto alternativo e
quantificabile di qualità della vita, in grado di rispondere alle necessità dei
politici. In sintesi, per quanto assodato che il benessere comprende anche un
aspetto soggettivo, la sfida consiste nell’elaborare indicatori che ne diano una
traduzione oggettiva, misurabile e il più possibile “democratica”. La felicità, in
questo contesto, si presenta dunque come “benessere psicologico”, una delle
dimensioni della qualità della vita, insieme a benessere materiale, occupazione,
Educazione, Ambiente, Governance, Salute, Tempo libero e vitalità della
comunità.
Perché uno Stato dovrebbe preoccuparsi di misurare il benessere e la felicità
dei cittadini? Nel terzo capitolo un excursus sul significato del termine ‘felicità’ -
su quanto sia cambiato nel tempo e, nel tempo, abbia saputo inserirsi nelle
Costituzioni – mostra che si è sempre trattato di una questione politica. Da
Epicuro ad Aristotele, da Bentham agli Illuministi, è indubbia la relazione tra
felicità, benessere e, in particolare, democrazia. Alla base troviamo il dilemma se
6
si tratti di un diritto, nel rispetto del quale debba intervenire la democrazia, o se il
diritto non risieda piuttosto nel garantire la ricerca della felicità.
Ma come avvengono, nello specifico, le “misurazioni”? Passare in rassegna
tutte le iniziative che, quotidianamente e concretamente, rilevano gli indicatori di
benessere stabiliti da ciascun Paese è un’analisi che rischia di deludere chi confida
nella possibilità di arrivare a un indice universale. Possibilità che, tuttavia, è
perfettamente in linea con l’obiettivo della condivisione tra Paesi, ossia una delle
leve di queste ricerche. La vita è però troppo complicata e gli interrogativi cui
deve rispondere il reporting statistico sono troppo diversi per consentire di
condensare la situazione corrente in un unico indicatore onnicomprensivo.
L’esempio del Bhutan, come vedremo, insegna piuttosto che un buon laboratorio
di “misurazione” può motivare molte iniziative analoghe, ma risulta di per sé
difficilmente esportabile. Meglio, pertanto, limitarsi alla selezione di una batteria
di indicatori il più possibile universali, e procedere cautamente per confronti,
prestando semmai attenzione a quei Paesi con una case-history rilevante e
spendibile per rilevazioni particolarmente riuscite. Ė quanto viene affrontato nel
quarto e nel quinto capitolo. Mentre, infatti, Onu e Ocse propongono ambiziosi
obiettivi internazionali e relativi indici di confronto, la Comunità Europea sembra
aver ispirato più Paesi membri a interrogarsi in maniera “glocal” sul benessere
interno, e molti dei progetti nati, per quanto giovani, mostrano già un
orientamento alla condivisione e alla collaborazione. Un caso del Consiglio
d’Europa, inoltre, è di particolare interesse per il lavoro di un progetto itinerante
che tenta un’analisi “partecipata” della felicità. Sono però Australia e Canada,
infine, a proporre due esempi di misurazione semplice, efficace e ripetibile, in
attesa che l'Italia dimostri se l'attuale laboratorio sull'indice Bes sarà all'altezza
delle ottime premesse.
Non è possibile, naturalmente, ignorare le posizioni polemiche nei confronti di
tali progetti, voci che sono anzi da considerare un richiamo all’ordine da eventuali
derive troppo idealistiche e analisi che rischiano di mettere in relazione fattori
troppo distanti fra loro. Le perplessità nascono spesso dalla pubblicazione dei
risultati, specie quando Paesi in via di sviluppo e con un Pil decisamente modesto
risultano in cima alle “classifiche del benessere”, oppure quando Paesi con
un’elevata qualità della vita presentano problemi a metà strada fra il falso mito e
l’emergenza sociale (è l’esempio della Danimarca, prima in molte delle
7
rilevazioni internazionali sui Paesi più felici, che tuttavia presenta un’importante
percentuale nel numero di suicidi). Spesso, inoltre, i pareri discordanti nascono
dal timore che, nonostante le premesse, il Pil venga di fatto rottamato, allorché
occorrerebbe, più sensatamente, ridimensionarne l’influenza sulle priorità
politiche. Si tratta di pareri che, una volta effettuate (o ribadite) le opportune
precisazioni, contribuiscono a non abbassare la guardia sulla scientificità di queste
ricerche.
Resta, infine, da considerare un ultimo elemento che accompagna i laboratori
sul benessere, ossia l’inquietudine legata all’idea che un governo, nel decidere
‘cosa’ misurare, arrivi a stabilire – più o meno sottilmente – anche ‘come’ essere
felici, imponendo dall’alto una serie di parametri e valori non necessariamente
condivisi. E’ ovviamente un’estremizzazione di scenari paradossali e post-
moderni in cui un’amministrazione decide cosa determina benessere e cosa no –
proprio come Aldous Huxley ha descritto nel suo Mondo Nuovo, romanzo che
puntualmente ritorna nelle premesse di chi si occupa di felicità e politica. Può
però incoraggiare, ci sembra, e mantenere attuale lo studio di felicità e benessere
in una prospettiva più completa, vigile e aperta anche a nuovi valori ed elementi,
quali, ad esempio, i beni relazionali.
8
1. Oltre il Pil
Hai mai pensato di prestare la tua macchina a qualcuno
che sa come funziona soltanto l'acceleratore?
Leonardo Becchetti (2010, 9).
Il Pil non misura né la nostra arguzia né il nostro
coraggio, né la nostra saggezza né la nostra
conoscenza, né la nostra compassione né la devozione
al nostro paese. Misura tutto, in breve, eccetto ciò che
rende la vita veramente degna di essere vissuta.
Robert Kennedy, 18 marzo 1968, discorso all'Università
del Kansas
Se il progresso di una società dipende dal suo benessere e dalla sua
sostenibilità, non sorprende che proprio tale benessere sia oggi obiettivo primario
– o tra i primari – dell'azione politica e, di conseguenza, elemento di grande
interesse nella comunicazione pubblica e sociale. Nell'arco del XX secolo è stato
spesso considerato sinonimo di sviluppo economico, al punto che la contabilità
nazionale e soprattutto il Prodotto interno lordo (Pil) sono progressivamente
divenuti lo strumento principale di misurazione dello sviluppo tout court.
Certamente misurare la crescita economica fornisce una buona indicazione della
capacità di un Paese nell'affrontare i bisogni materiali dei suoi abitanti, ma la sua
relazione con le altre dimensioni del progresso sociale mostra notevoli difficoltà e
contraddizioni: la promessa stessa della crescita ininterrotta ha perso
notevolmente in credibilità, al punto che i benefici sono sempre più spesso messi a
confronto con una serie di effetti negativi. Di fatto, l’obiettivo della crescita
economica non è più incontestato e si comincia a sospettare che conduca piuttosto
a un inesorabile peggioramento delle condizioni di vita. La conseguenza più
lampante, in termini statistici, è che oggi, dopo oltre sessant'anni, il Pil non è più
ritenuto strumento sufficiente per valutare l'evoluzione della comunità umana.
Vedremo ora le ragioni di questa non del tutto nuova posizione e le attività a
sostegno di misurazioni “oltre il Pil” da parte dei principali protagonisti negli
ultimi anni.
Già a partire dal 1990, in realtà, alcune iniziative dedicate allo sviluppo
sostenibile e alla misurazione della cosiddetta “qualità della vita” – quali l'Indice
9
di sviluppo umano del Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (Undp) o
gli Obiettivi di Sviluppo del Millennio
1
– hanno iniziato a catturare l'attenzione dei
media e a giocare un ruolo di crescente considerazione nel dibattito politico. Si
potrebbe quasi parlare di un movimento per lo sviluppo degli indicatori sociali,
che ha posto l'accento su dati non economici: qualità del lavoro, impatto sul
quotidiano dell'inflazione, uguaglianza sociale ed economica, tempo per le
relazioni umane, salute, istruzione, relazioni con gli altri cittadini e con le
istituzioni, condizioni abitative eccetera. Tutti parametri che, nell'insieme,
concorrono a un'identificazione più o meno condivisa del concetto di benessere e,
in particolare, di una sua sotto-categoria, ovvero la felicità, intesa non come
momentaneo stato d'animo (ciò che rimane questione privata) quanto piuttosto
come personale soddisfazione in merito alla propria qualità della vita
2
.
1.1 Un indice da integrare
Di fatto, però, gli indicatori in grado di influenzare le decisioni e di orientare
concretamente le politiche pubbliche sono stati, fino a tempi recenti,
esclusivamente di natura economica: su tutti il Pil, ovviamente, ma anche il tasso
di inflazione, il tasso di cambio, la produttività o la disoccupazione. In passato,
infatti, lo sviluppo del sistema economico nell’ottica di una crescita in produzione
e ricchezza ha dimostrato di poter migliorare il tenore di vita di centinaia di
milioni di cittadini dei Paesi industrializzati. In tali aree, misurando l'attività
economica si è reso possibile un aumento di benessere materiale non indifferente,
si è allungata la vita media, è cresciuto il volume di conoscenza, si è sensibilmente
ridimensionata la mortalità infantile e sono migliorate le condizioni igieniche.
Ė durante gli anni del secondo conflitto mondiale che i Paesi coinvolti
avvertono l’esigenza di conoscere l’effettiva capacità produttiva del proprio
sistema economico e, contemporaneamente, in quale percentuale può essere
riconvertita in sforzo bellico. Esigenza che si manifesta concretamente già dopo la
crisi del ’29, per via del rischio di inflazione in cui si incorre nello stampare
1 Cfr. 4.3
2 Rimandiamo al paragrafo 2.1 per tutti i chiarimenti in merito ai termini ‘felicità’, ‘benessere’,
eccetera.
10
moneta liberamente quando rimane limitata la capacità di accrescere la
produzione. Ė pertanto il padre della macroeconomia, John Maynard Keynes, il
primo a interrogarsi sulle modalità per conoscere il massimo prodotto corrente che
ogni Paese è in grado di ottenere con le proprie risorse. I suoi studi, uniti a quelli
di Wassili Leontief
3
sulle interazioni tra i diversi settori dell’economia,
costituiscono l’embrione del concetto di Pil
4
che, ammoniva già lo stesso Keynes,
non può essere ritenuto misura esaustiva del benessere di un Paese.
Oggi il calcolo del Pil – inizialmente elaborato annualmente, poi ogni tre mesi
pressoché in tutti i paesi – è affidato alla statistica economica, in particolare al
ramo della contabilità nazionale
5
. I dati raccolti relativi a produzione, import-
export e consumi di un Paese vengono riportati in una serie di tavole riassuntive
che permettono un confronto sulla coerenza delle varie fonti. La tavola più
importante è il Conto economico delle risorse e degli impieghi, che riporta un
bilancio su come vengono prodotte e impiegate le risorse. Semplificando:
all’attivo, le voci relative a ‘Prodotto interno lordo’ e ‘Importazioni di beni e
servizi’ riportano, nell’insieme, le risorse che nell’ultimo trimestre (o anno) sono
state a disposizione dei cittadini. Al passivo, i ‘Consumi finali’, gli ‘Investimenti
lordi’ e le ‘Esportazioni di beni e servizi’ mostrano a loro volta che tipo di
impiego si è fatto di queste risorse. Si è sintetizzato in quanto ciò è interessante
osservare è il carattere ‘lordo’ del Pil, poiché non include gli ammortamenti, ossia
il consumo di capitale che è stato necessario per produrlo: ciò significa che non è
dato sapere quanto, per una determinata ricchezza, stiamo investendo in termini di
risorse (se vogliamo, anche in prospettiva delle generazioni future). Un chiaro
esempio ce lo offre Baudet (2009, 14): “il Pil aumenta in caso di catastrofe
naturale grazie alle spese per la ricostruzione, mentre il costo della catastrofe non
viene contemplato”. Si suppone un’illimitata disponibilità di risorse, mentre non si
considera il depauperamento di aria, terre, boschi, fiumi, mari, acqua e materie
prime: sono beni naturali che non hanno prezzo poiché non sono scambiati sul
mercato. Il loro sfruttamento, pertanto, non rientra tra i costi di produzione e non è
3 Premio Nobel per l’economia nel 1973 per il sistema input-output, ossia una suddivisione del
sistema economico in settori, in ognuno dei quali è possibile mettere in evidenza ciò che ciascun
settore prende (input) e fornisce agli altri (output).
4 È di Keynes l’equazione Y = C + G + I + (X − M), dove Y è il Pil, C sono i consumi finali, G è la
spesa dello stato, I gli investimenti, X le esportazioni e M le importazioni.
5 “La contabilità nazionale si riferisce all’intero sistema economico, pubblico e privato. Non va
confusa con la ‘contabilità di Stato’, materia giuridica che studia invece regole e modalità di
elaborazione dei conti delle pubbliche amministrazioni” (Speroni 2010a, 161)
11
rilevato ai fini economici.
Altri aspetti, inoltre, concorrono a evidenziare l’incompletezza del Pil, nel
momento in cui prende in esame anche ciò che non è misurabile con precisione,
ma soltanto stimabile. Ė il caso del valore dei servizi pubblici, ossia tutto ciò che è
fornito da scuole, ospedali, tribunali, forze dell'ordine, ecc. Per convenzione si
riconosce a questi servizi un valore pari al loro costo, ovvero quanto lo Stato
spende per la loro produzione. Occorre poi considerare la cosiddetta “economia
sommersa” o non osservata, che riguarda le attività economiche non registrate o
tassate (come il lavoro nero), ma solo ipotizzate nel calcolo con una stima –
l’Istat, ad esempio, attribuisce a questo sommerso circa il 18% dell’economia
nazionale. L’Italia, peraltro, fu tra i primi paesi a inserire, nel 1987, l’economia
sommersa nel proprio Pil; oggi è un calcolo adottato a livello internazionale. Vi
sono tuttavia fenomeni che, per l’elevata complessità, non sono contemplati – o
per meglio dire integrati – nel sistema di conti nazionali: si tratta dell’economia
criminale, della prostituzione, del commercio di droga e così via.
Non solo: lo storico paradosso della cuoca – celebre presso gli statistici i quali,
oggi, ironizzano sul cambiamento dei tempi proponendo in alternativa il
“paradosso della badante” – ci pone innanzi alla realtà del lavoro domestico: “se
assumo una cuoca e le verso un regolare stipendio, contribuisco al Pil. Se la
sposo, anche se continua a fare lo stesso lavoro, il Pil diminuirà perché la sua
‘produzione’ non verrà più conteggiata” (Speroni 2010a, 78). Ė una
considerazione che, per esteso, coinvolge tutte le attività che non transitano per il
mercato, quindi anche il volontariato, l'accudimento dei figli da parte dei genitori
e viceversa, fino al recente fenomeno delle banche del tempo
6
. E ancora, che
posizione assumere nei confronti di chi produce non per vendere ma per mettere
gratuitamente a disposizione degli altri, ad esempio con la pubblicazione online di
un testo o con la condivisione di un software open source? Ha così sintetizzato
Luca De Biase:
Peccato che il Pil misuri solo ciò che ha un prezzo. Gli economisti sono i
primi a diffidarne. La loro classica battuta secondo la quale “se sposi la tua
donna di servizio fai scendere il Pil” resta indicativa. Si può vedere un
collegamento diretto, senza troppo paradosso, tra le relazioni umane di
qualità – che non sono regolate da uno scambio di moneta e la contabilità
nazionale. Meno si nutre fiducia negli altri, più ci si affida agli avvocati per
qualunque trattativa e più si fa crescere il Pil: ma non per questo si sta
meglio. Più tempo si dedica a lavorare, più si guadagna e più si aumenta il
6 Cfr. http://www.tempomat.it/ (al 15/12/2011)
12
Pil, anche a costo di avere meno tempo per gli amici: il bilancio della felicità
non è necessariamente in attivo, anche se quello della moneta è in nero. La
crescita del Pil, una volta superata la prima fase che porta a un benessere
diffuso, innesca una sorta di spirale. Solo una retorica della crescita ben
congegnata può far pensare che quella spirale vada giudicata
complessivamente positiva (2007, 35).
Dunque, misurando esclusivamente gli scambi all’interno dell’economia di
mercato, il Pil ignora altri elementi facenti parte del capitale umano, sociale e
naturale. Oltretutto, è in nome della crescita economica che si sono prodotti danni
irreparabili sull'ambiente, constatando anche l’incapacità di assicurare una vita
dignitosa a una parte consistente della popolazione mondiale. Non solo la crescita
non produce più occupazione, ma tende ad accentuare le disuguaglianze e quindi
la frammentazione sociale. In base al Pil, ad esempio, l'Italia si colloca al 29°
posto internazionale, ma contemporaneamente l'Unicef, in base agli ultimi
rilevamenti, assegna al nostro paese ben il 5° posto per le disuguaglianze nel
benessere materiale. Il Pil, effettivamente, non tiene conto della distribuzione del
reddito e, come possiamo vedere, l’82,7% del reddito mondiale fa capo al quinto
della popolazione considerato più ricco.
Fig. 1.1 – Distribuzione del reddito mondiale sulle fasce di ricchezza della popolazione.
Fonte: UNDP, Human Development Report 1992 (New York: Oxford University Press,
1992)
Eppure, quella che l’Ocse (l'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo
13
economico) ha definito “our obsession with more” (2011, 7), porta a considerare
la crescita economica un fattore determinante, per non dire unico, per il
monitoraggio e l’informazione della politica in un Paese. Il Pil ha grande impatto
sui media e sui mercati finanziari e, sempre più, è interpretato non solo come
indicatore della capacità di un Paese di produrre ricchezza, ma anche come
specchio del benessere economico medio dei cittadini. Inoltre, è indubbio, la sua
relativa facilità di calcolo e adattabilità consente un confronto internazionale
immediato e influenza, successivamente, gli interventi di politica economica. Si
tratta, insomma, di una misura imperfetta, incompleta, ma ben consolidata,
longeva e confrontabile, poiché disponibile per la quasi totalità dei Paesi.
Ė a partire da questa considerazione che, si vedrà, diversi laboratori,
conferenze e commissioni hanno suggerito una serie di integrazioni a
completamento del Pil, nella consapevolezza che ciò che si misura ha
un’incidenza importante sul modo di agire e, di conseguenza, indicatori inadeguati
comportano scelte inopportune. Si tratta, sostanzialmente, di posizioni a favore di
indicatori sociali e ambientali che, uniti al fattore economico, possano restituire
l’idea di un benessere globale, oggettivo e misurabile, relativo alla qualità della
vita. Ė nel rispetto di tale linea di pensiero che anche la “felicità” ritorna, da un
passato in gran parte dimenticato ma ricco, non certo per prendere il posto del Pil,
ma per colmarne un’importante lacuna.
Le obiezioni, ça va sans dire, non mancano. La ragione è dovuta spesso a titoli
di redazionali troppo sensazionalistici, che parlano di “rottamare” il Pil per
sostituirlo con fattori riguardanti il benessere o, ancor più erroneamente, la felicità
individuale, anziché rimarcare la precisa volontà di integrare, completare e non
certo sostituire. Ė il caso un intervento di Tito Boeri (2010) su “la Repubblica”:
Ma la storia si ripete con triste monotonia: ogni volta che l'economia va male,
c'è qualcuno al governo cui viene mente di cercare un altro indicatore da
sostituire ai Pil. In Brasile, in Cina o in India non ci risulta che siano state
insediate commissioni governative che hanno il compito di scovare nuovi
parametri che ci sottraggano alla schiavitù dei Pil.
Effettivamente, anche una volta precisato l’equivoco sulle sorti del Pil, può essere
condivisibile la perplessità riguardo a tali ricerche proprio in momenti di difficoltà
economiche. Prendendo come esempio il sondaggio sulla felicità fortemente
voluto dal primo ministro David Cameron in seguito alle raccomandazioni della
14
Commissione Stiglitz
7
, Enrico Franceschini (2011) – di nuovo su “la Repubblica”
– ha così sintetizzato il clima con cui tale operazione rischia di essere accolta:
Il problema è che le "dieci domande sulla felicità" sono state pubblicate
proprio nel giorno in cui escono nuove cifre sull'andamento ancora poco
incoraggiante dell'economia. I maligni dicono che il premier spera di
nascondere la stagnazione e quasi recessione economica con tanti bei discorsi
sulla futura felicità e sul necessario ottimismo per raggiungerla. Gli scettici
commentano che, per quanto Cameron sia bene intenzionato, le risposte degli
inglesi al sondaggio potrebbero fargli passare la voglia di farne un altro.
Un’ultima citazione, dunque, è in risposta ai legittimi dubbi dovuti alle difficoltà
del tempo. Angel Gurria, segretario generale dell’Ocse, commentando il rapporto
How’ s Life? Measuring Well-Being – sintesi di una serie di rilevamenti finalizzati
ad andare “oltre il Pil” – ha riconosciuto che (citato in Stentella 2011,1):
Alcuni potrebbero chiedersi se oggi sia ancora opportuno parlare di
benessere, piuttosto che concentrarsi solo sulla crescita economica necessaria
per far uscire i nostri paesi dall’attuale crisi. Ma è proprio in momenti di crisi
come questo che i governi devono adottare un nuovo approccio e definire
degli obiettivi che vadano oltre l’aumento del reddito, per coinvolgere la
dimensione del benessere dei cittadini, combattere l'ineguaglianza e la
povertà, garantire l’accesso alle opportunità e preservare l’ambiente sociale e
naturale.
Se, come si ritiene, un tale intervento può per certi aspetti ridimensionare
l’incertezza, è pur vero che esiste un’ulteriore perplessità. Nel passare, infatti, a
nuove e diverse misure (certamente più opinabili e difficoltose da rilevare), come
arginare la tendenza a “farsi in casa” gli indicatori che fanno risultare meglio il
proprio Paese, pur rendendo difficoltoso il confronto? Ė una questione destinata a
rimanere aperta almeno fino a quando i principali indici di benessere attualmente
in cantiere o in fase di ridefinizione non saranno ultimati e resi disponibili per i
primi confronti internazionali.
1.2 Conferenze e commissioni al lavoro sul benessere: prima e dopo la
Commissione Stiglitz
A dimostrazione che le incertezze sull’utilizzo e l’adeguatezza della crescita
economica come paradigma del progresso non provengono unicamente da
ricercatori e idealisti, ma sono anzi conseguenza di preoccupazioni della politica
internazionale, è bene ripercorrere almeno le ultime tappe di un iter istituzionale
7 Cfr. I.2
15
che, in oltre quarant’anni di movimenti, convegni e ricerche, ha legittimato
l’esigenza di nuovi dati a integrazione del Pil e ha altresì indebolito l’accusa di chi
sostiene si tratti di mero esercizio statistico.
Negli anni recenti, grande protagonista nella sensibilizzazione agli indicatori
sociali è stata e continua a essere l’Ocse,organizzazione nata nel 1961, con 34
Paesi membri e il 72% del reddito nazionale lordo (Rnl) del mondo. Enrico
Giovannini, oggi Presidente dell’Istat, è stato responsabile dell’ufficio statistico
dell’Organizzazione dal 2001 al 2009, contribuendo in misura fondamentale al
coinvolgimento dei portatori di interesse in tema di benessere e all’organizzazione
di tre importanti Forum mondiali. Il primo, a Palermo nel 2004, presenta il
rapporto Statistics, Knowledge and Policy e affronta i problemi chiave per lo
sviluppo di una società moderna. Ė l'occasione per evidenziare i limiti del
paradigma della crescita economica. Ma non è tutto: a raccogliere consensi è
anche un’altra traccia di sviluppo, ossia la crescente capacità – nelle persone – di
capire le caratteristiche della società in cui vivono. Vale a dire che, da subito, si
riconosce grande importanza alla percezione che i cittadini stessi hanno del
benessere, inteso sia in chiave soggettiva che, in termini più confrontabili, come
insieme di vari fattori che determinano la qualità della vita.
Il secondo Forum mondiale, a Istanbul nel 2007, porta alla Dichiarazione
8
Measuring and Fostering the Progress of Societies, che coinvolge tutti i soggetti
nello scambio di esperienze e laboratori sull’elaborazione di nuovi indicatori. I
punti evidenziati sono:
incoraggiare le comunità a considerare da sole che cosa significhi ‘progresso’
nel XXI secolo;
accordarsi sul modo migliore di misurare il progresso delle società e
aumentare la consapevolezza della necessità di indici validi e credibili;
stimolare un dibattito internazionale, partendo da dati e indici statistici sul
progresso delle società e termini di paragone;
promuovere investimenti appropriati per costruire una capacità statistica, ossia
migliorare la disponibilità di dati e indici necessari per guidare i programmi di
sviluppo.
8
Disponibile in italiano alla pagina http://www.oecd.org/dataoecd/44/21/40306640.pdf (al
13/11/2011)