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Introduzione
Oggi, quando pensiamo alla parola “ariano”, subito colleghiamo quest’aggettivo al sostantivo
”razza” e il concetto che ne deriva dal semplice accostamento, “razza ariana”, ci porta
immediatamente col pensiero al nefasto movimento politico del nazionalsocialismo e al suo
capo carismatico, Adolf Hitler. In realtà questo concetto ha una storia molto più lunga che
vede nel nazismo soltanto la sua tragica conclusione. Diversamente da quello che si crede, la
costruzione dell’uomo ariano ha le sue radici nella filologia e non nelle scienze naturali. A
cavallo tra il XVIII e il XIX secolo, in pieno romanticismo, il meglio dell’intellighenzia
tedesca concentrò i suoi sforzi sullo studio della famiglia linguistica che abbraccia quasi tutte
le lingue europee, alcune del Medio Oriente e del Caucaso fino ad arrivare all’India: la
famiglia linguistica indoeuropea.
Qual è il nesso tra lingue indoeuropee e razza ariana? Studiosi come Franz Bopp,
Wilhelm von Humboldt, Friedrich e August Schlegel, Jakob e Wilhelm Grimm, grazie alla
linguistica comparativa che in quegli anni vedeva la luce, intuirono che dietro questa
parentela genetica fra le lingue più disparate doveva esserci stata una lingua comune parlata
da un popolo di cui si sono perse le tracce. Secondo questi luminari, gli indoeuropei erano
questo popolo. Essi portarono la loro lingua nel Vecchio Continente durante le loro ondate
migratorie fondendosi con le civiltà preistoriche ivi stabilitesi in tempi immemori.
Ripercorrendo il cammino della storia a ritroso per mezzo della ricostruzione della lingua
comune, si credette di poter stabilire come questo popolo di conquistatori chiamava se stesso:
arii o ariani. Le ricerche linguistiche del tempo fecero in fretta a vedere negli ariani i
progenitori di tutti i popoli europei, i quali adesso condividevano un’origine comune, se non
lo stesso spirito, lo stesso sangue.
Il romanticismo, quindi, assistette alla creazione di un mito che avrebbe stimolato
speculazioni di ogni tipo da parte di tutte le discipline che avevano a che fare con l’uomo. Il
pensiero dominante che ne venne fuori era il seguente: tutte le lingue europee, salvo qualche
eccezione (basco, ungherese, finlandese, lappone, samoiedo), derivano da una lingua comune
parlata da un unico popolo il quale non solo imponeva la sua lingua alle popolazioni che
sottometteva, ma trasferiva anche istituzioni familiari, leggi, culti e riti religiosi. Le scoperte
scientifiche in campo biologico (leggi dell’ereditarietà dei caratteri, teoria dell’evoluzione
della specie), completarono il quadro: essendo gli europei bianchi, devono esserlo stati anche
i progenitori ariani. Da mere ricerche filologiche si arrivò alla teorizzazione di una razza che
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diede un terreno pseudo-scientifico alle pretese di superiorità degli europei su tutti i popoli del
mondo incontrati e sottomessi durante le grandi esplorazioni dei secoli precedenti e il
colonialismo che ne derivò.
Indagare sul mito della razza ariana significa, quindi, indagare sulla storia della nostra
stessa cultura a partire dalla filologia linguistica che diede impulso alle speculazioni razziste e
nazionaliste per arrivare fino all’ideologia che stava alla base dello sterminio programmato
degli ebrei durante il nazismo. Con il presente lavoro, vedremo come Hitler non creò niente
che non fosse già stato detto e teorizzato da personalità di nazionalità “insospettabili” che si
sono avvicendate nel dibattito intorno alla questione razziale e come la linguistica abbia
giocato un ruolo teoretico fondamentale nel dare adito a convinzioni profondamente razziste
radicate nel pensiero di tutto il Vecchio Continente.
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Capitolo I
Il contributo linguistico.
1.1 La scoperta della famiglia linguistica indoeuropea.
Due conferenze, tenute l’una a Parigi da G. L. Coeurdoux e l’altra nel Bengala da sir William
Jones nello stesso anno, il 1786, richiamarono l’attenzione del grande pubblico sulla parentela
comune delle lingue europee con l’antico persiano e il sanscrito. Fu però la seconda quella
che diede un impulso più deciso alle ricerche su una famiglia linguistica, la cui intuizione
aveva inquietato più di uno studioso qualche secolo prima.
Diversi fattori contribuirono a questa epocale scoperta e alcuni di essi scaturirono sul
finire del medioevo e con l’ingresso nell’età moderna. Fra questi vi fu proprio la scoperta di
nuovi continenti e popoli con i grandi viaggi esplorativi condotti dal XV secolo in poi, i quali
fecero traballare le antiche credenze sull’origine del linguaggio e sulla diversità delle lingue,
fondate sul racconto biblico che non incentivava ricerche scientifiche rigorose sulla questione.
Solo tre lingue erano considerate degne di rispetto: l’ebraico delle sacre scritture, il latino
come lingua ufficiale della Chiesa cattolica e della scienza, il greco per il suo contributo in
termini storico-filosofici. Le restanti “parlate” erano considerate volgari, perché usate dal
popolo incolto, e diverse per via della maledizione della torre di Babele scagliata da Dio per
punire la superbia dell’uomo.
Questo clima di cambiamento culturale portò alcuni studiosi a interrogarsi sull’origine
della propria lingua e fu in quell’epoca che nacque il concetto di nazione come entità
raggruppante un popolo con un comune sentire e unito da usi e costumi propri e caratteristici:
L’olandese Goropius Becanus (J. Van Gorp) nel XVI secolo scrisse le Origines Adwerpianae
(Adwerp,1569), nelle quali ci s’interroga sulle origini e sulla storia della lingua olandese; nel
XVII secolo A. R. Scrieckius effettua ricerche sull’origine dei primi popoli d’Europa e sulla
nascita dell’olandese, J. G. Schottel si occupa della lingua tedesca e G. Stierhielm conduce
studi sullo svedese e sul gotico
1
.
1
Cfr. Villar F., Gli indoeuropei e le origini dell’Europa, Il Mulino, Bologna 1997, pag. 24.
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Tutti questi sforzi non portarono, però, a un confronto fra le lingue europee che
destasse un qualche sospetto su un’origine comune delle stesse. Mancavano ancora alcune
tessere fondamentali del mosaico linguistico che si sarebbe dipanato di lì a poco tempo con i
viaggi in India condotti da missionari e mercanti che avrebbero appreso qualche rudimento
del sanscrito, riscontrando un’incredibile somiglianza tra questa lingua e quelle europee
antiche e moderne. Il mercante fiorentino Filippo Sassetti, durante un suo soggiorno in India
negli anni ’80 del XVI secolo, notò che i numerali italiani e quelli del sanscrito si
somigliavano e con lui anche i due missionari Bonaventura Vulcanio e Thomas Stephens
appurarono delle somiglianze nel lessico e nelle strutture grammaticali
2
.
Questi riscontri non colpirono particolarmente la comunità scientifica europea, perché
semplici somiglianze lessicali potevano essere spiegate come il risultato dei contatti fra popoli
diversi che condividevano la stessa area geografica. Nel 1686, però, fu pubblicato a
Wittenberg un libro intitolato De lingua vetustissima Europae, il cui autore, lo svedese
Andreas Jäger, metteva a confronto celtico, lingue germaniche, latino, greco e antico persiano
per dimostrare il loro legame con una lingua parlata nel Caucaso in tempi remoti e che non ha
lasciato testimonianza se non nelle lingue in esame. Le intuizioni di Jäger, come qualsiasi
nuova scoperta scientifica, non superarono l’ambito delle cerchie degli specialisti ed erano
troppo avanzate per le concezioni vigenti in quel periodo. Jäger padroneggiava solo il
persiano come lingua orientale, idioma ufficiale della dinastia achemenide che più volte si
scontrò con il mondo ellenico per la supremazia nel mediterraneo.
L’evento che costrinse definitivamente i linguisti a non ignorare più tali coincidenze e
a creare strumenti di ricerca atti a spiegarle fu la colonizzazione dell’India da parte della
corona d’Inghilterra. Il contatto con la cultura indiana tramandata dai brahmani diede ai dotti
inglesi l’accesso alle sacre scritture dei Veda e quindi alla loro lingua, il sanscrito. In Europa
iniziarono a circolare due grammatiche, divenute indispensabili per apprendere l’idioma
indiano: la prima risale al 1790, pubblicata a Roma dal missionario carmelitano Paulinus a
Sancto Bartholomeo, il quale pubblicò successivamente a Padova nel 1798 la Dissertatio de
antiquitate et affinitate linguae Zendicae, Samscridamicae et Germanicae, opera che il
carmelitano scrisse dopo aver notato durante i suoi studi del sanscrito e dell’iranico le
incredibili somiglianze con le lingue germaniche, ma che non dava la sicurezza scientifica
della parentela; la seconda grammatica fu quella di Henry Thomas Colebrooke, pubblicata a
Calcutta nel 1805, A Grammar of the Sanscrit Language, e patrocinata dallo stesso William
2
Cfr. Römer R., Sprachwissenschaft und Rassenideologie in Deutschland, Wilhelm Fink Verlag, München 1989,
pag. 49.
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Jones. Quest’ultima fu la più utilizzata dagli studiosi per apprendere il sanscrito e per poterlo
paragonare con le restanti lingue europee.
I filologi e i linguisti dell’epoca consideravano il sanscrito una lingua, la cui analisi
avrebbe potuto fornire le prove certe di questa supposta parentela linguistica. Ma un metodo
d’indagine scientifico che potesse essere utilizzato per dare una validità a tali idee tardava ad
arrivare, per cui queste ipotesi restavano confinate fra le cerchie degli studiosi di settore. La
già citata conferenza del 1786, tenuta da William Jones, giudice del Tribunale Supremo di
Calcutta e affermato traduttore di testi antichi, davanti al pubblico della Royal Asiatic Society
of Bengala, da lui fondata, contribuì alla diffusione dell’intuizione di una possibile famiglia
linguistica indoeuropea e aprì la strada alla ricerca di prove che lo confermassero, le quali
sarebbero state trovate, per la maggior parte, dai linguisti tedeschi di lì a poco. Le sue parole
furono un chiaro segno della nascita dell’indoeuropeistica:
The Sanscrit language, whatever be its antiquity, is of a wonderful structure; more perfect than the
Greek, more copious than the Latin, and more exquisitely refined than either, yet bearing to both of them a
stronger affinity, both in the roots of verbs and the forms of grammar, than could possibly have been produced
by accident; so strong indeed, that no philologer could examine them all three, without believing them to have
sprung from some common source, which, perhaps, no longer exists; there is a similar reason, though not quite
so forcible, for supposing that both the Gothic and the Celtic, though blended with a very different idiom, had
the same origin with the Sanscrit; and the old Persian might be added to the same family
3
.
Questa lingua aveva spostato più a oriente il raggio di conoscenza linguistica utile alla
dimostrazione scientifica della famiglia di lingue indoeuropee.
Prima dei Veda, infatti, I testi sacri dell’Avestā, base teologica dei seguaci di
Zoroastro, avevano permesso lo studio della lingua persiana antica e quindi delle concezioni
filosofiche orientali del tempo. A tal proposito sono degne di nota le traduzioni del francese
Abraham-Hyacinthe Anquetil Duperron (1731 – 1805). Costui decise di arruolarsi come
soldato nelle Indie orientali per studiare l’avestico e il pahlavi, dopo che nel 1754 gli
capitarono fra le mani dei frammenti dell’Avestā che lo affascinarono e lo spinsero a
conoscere meglio le origini di questa lingua. Ritornato a Parigi nel 1762, offrì i suoi servigi
come interprete e nel 1771 pubblicò le sue prime traduzioni in francese dei testi avestici con il
titolo di Zend-Avesta. Ouvrage de Zoroastre. Sempre a Parigi pubblicò successivamente tra il
1801 e il 1802 l’Oupnek’hat, una raccolta di cinquanta Upaniṣad, commentari dottrinali e
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Jones, Sir William, Discourses delivered before the Asiatic Society: and miscellaneous papers, on the religion,
poetry, literature, etc., of the nations of India, W.H. Carpenter, London 1824, pag. 28.