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INTRODUZIONE
In questa tesi, che rappresenta la conclusione del mio ciclo di studi universitario, ho deciso di
affrontare un argomento che risulta essere di estrema attualità, considerata la recente assegnazione
dell’Expo 2015 alla città di Milano.
Il titolo introduce immediatamente la tematica che verrà analizzata nel corso della trattazione, ossia
“I megaeventi come strumenti di marketing urbano: il caso della riqualificazione di Valencia”.
Premetto che il marketing territoriale ha da sempre suscitato il mio interesse, sin da quando ho
deciso di iscrivermi a questo corso di laurea. Ritengo che esso sia uno strumento fondamentale a
disposizione delle città per rilanciare la propria immagine e per valorizzare le proprie eccellenze,
cioè i fattori potenziali per lo sviluppo turistico nel panorama internazionale. In questo senso i mega
eventi rappresentano un’occasione importante per le realtà urbane che desiderano migliorare la
propria attrattività e rendersi visibili agli occhi di visitatori, turisti e investitori.
L’Expo che la città di Milano ospiterà nel prossimo 2015 rappresenta per il territorio milanese, per
la regione Lombardia e, più in generale, per l’Italia un’occasione per rinnovarsi, per dotarsi di
infrastrutture competitive e all’avanguardia ma soprattutto per rilanciare la propria immagine
urbana che mira a distaccarsi dallo stereotipo e dalla riduttività della business city.
Milano sceglie di puntare sulla valorizzazione della cultura, su quella del prodotto made in italy e
soprattutto sull’esportazione dell’italian style. Ovviamente, considerando tutti i megaeventi che le
varie città hanno ospitato nel corso degli anni (Olimpiadi, Expo, Capitali europee della Cultura,
ecc.), tutto questo non genera solamente effetti positivi in termini di rilancio economico, ma può
rappresentare un’arma a doppio taglio; infatti un evento di tali dimensioni contempla anche una
serie di esternalità negative che verranno esposte nel terzo capitolo di questa tesi. In particolare
bisogna considerare gli impatti, gli squilibri e i costi ingenti di tutti i progetti che dovranno essere
realizzati: dallo sviluppo del sistema di trasporto pubblico su ferro, al miglioramento della
connessioni con gli aeroporti, porte principali di accesso alla città; dalla creazione di spazi culturali
ed espositivi alla predisposizione di aree verdi e percorsi ciclopedonali; per non parlare poi, della
gestione post evento, ossia di quella fase critica che segue la fine dell’evento, nella quale sorge il
problema del riutilizzo dell’eredità, in termini di infrastrutture, una volta terminata la
manifestazione. In questa tesi, però non ho voluto soffermarmi a lungo sugli aspetti negativi, ma ho
preferito concentrarmi sui benefici che porta il mega evento, nell’ambito dei processi di
riqualificazione ambientale.
Per quanto riguarda la scelta della città di Valencia come caso studio mi sono basata innanzitutto su
una preferenza personale, direi quasi istintiva. In secondo luogo ritengo che Valencia sia un
esempio indicativo di come un evento sportivo (l’America’s Cup) possa costituire il motore di un
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processo di rigenerazione urbana già intrapreso dalla città all’inizio degli anni Novanta del XX
secolo. In passato, infatti, essa non ha mai posseduto una grande rilevanza dal punto di vista storico
e culturale all’interno del proprio contesto nazionale e questa carenza era tradizionalmente
riscontrabile nella scarsa proiezione internazionale della sua immagine e nella sua limitata capacità
di attrazione dei flussi turistici; ma questa condizione negli ultimi quindici anni ha subito un
radicale mutamento.
Valencia è una città che mi ha sempre affascinata, tanto da indurmi a scrivere una tesi sulle strategie
di marketing territoriale da essa adottate per l’attuazione di un processo di riqualificazione urbana
estremamente efficace. Lo sviluppo di questo elaborato è stato l’occasione ideale per riuscire a
visitarla, a conoscerla e ad apprezzarne i singoli aspetti; questo anche grazie al contributo del
Professore Josep Vicent Boira i Maiques del Dipartimento di Geografia dell’Università di Valencia
che si è reso disponibile ad incontrarmi e a fornirmi materiale di vario tipo e tutte le informazioni
che necessitavo per la stesura della seconda parte della tesi.
Nella fase di redazione dell’indice, ho deciso di dividere l’elaborato in due parti: la prima, più
generale, comprende il primo, il secondo e il terzo capitolo e analizza i cambiamenti strutturali e
simbolici della città postmoderna ma anche i molteplici significati assunti dai mega eventi nei
processi di riqualificazione urbana; mentre la seconda che comprende il quarto, il quinto e il sesto
capitolo, è incentrata sul case study di Valencia, fulcro dell’intera trattazione.
La tesi risulta composta da sei capitoli: nel primo, intitolato “La città postmoderna: le nuove
dimensioni geografiche”, viene proposta un’analisi del processo evolutivo della città postfordista
dal punto di vista urbanistico; viene poi posta particolare attenzione alle nuove dimensioni
territoriali che si concretizzano nella comparsa delle edge cities e nella nascita dei “non luoghi
urbani” che assumono anche una dimensione sociologica oltre che strutturale e geografica. Infine
viene sottolineato il ruolo fondamentale che la globalizzazione socio economica, l’industria
culturale e quella creativa hanno rivestito nella creazione della nuova immagine della città
postmoderna.
Il secondo capitolo introduce il lettore nelle tematiche strettamente connesse al marketing
territoriale e, più precisamente analizza le strategie di city marketing e branding urbano per una
rigenerazione e una rifunzionalizzazione della città. In questo caso ho scelto di esaminare
l’argomento partendo da una visione più ampia che contempla l’analisi degli attori sociali e delle
politiche urbane attuate nelle città europee nei processi di riqualificazione urbana. In seguito mi
sono soffermata sul problema del recupero dei vuoti urbani e delle aree dismesse, che risulta di
estrema attualità anche nel nostro paese, e sui provvedimenti normativi che lo Stato decide di
attuare per riqualificare queste ultime.
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Il terzo capitolo è interamente dedicato ai mega eventi e al ruolo sociologico, politico e culturale da
loro assunto nei processi di trasformazione urbana. Viene fornita una metodologia di classificazione
in base a diversi aspetti e vengono considerate tutte le possibili esternalità positive e negative ad
essi correlate. Infine viene dedicato un sottocapitolo alle opere connesse ai megaeventi e in
particolare al contributo delle archistar che hanno un ruolo fondamentale nella loro progettazione.
Valencia, infatti, negli ultimi anni risulta immediatamente identificabile, nell’immaginario turistico
internazionale, attraverso la Ciudad de las Artes y las Ciencias di Santiago Calatrava che ha avuto
un ruolo primario nel processo di rinnovazione urbana della città; per tanto mi è sembrato doveroso
contestualizzare la sua opera in termini generali, per consentire al lettore di comprendere appieno i
suoi progetti di cui, per altro si parlerà nei capitolo successivi.
Il quarto capitolo apre la seconda parte della tesi dedicata al caso studio di Valencia. In esso ho
voluto fornire un’introduzione generale della città per consentire al lettore di inquadrare la realtà dal
punto di vista storico-geografico ma anche per analizzare, seppur sommariamente il contesto
politico e i progetti urbanistici che hanno contribuito a trasformare il paesaggio locale valenciano
in un paesaggio globale a tutti gli effetti.
Con il quinto capitolo si entra nel vivo delle trasformazioni urbanistiche e paesaggistiche realizzate
a Valencia a partire dagli anni Novanta del secolo scorso. Viene proposta una visione generale dei
processi evolutivi che hanno conferito alla capitale della Comunidad Valenciana il volto odierno.
Accanto a tutti gli aspetti innovativi mi è sembrato corretto non trascurare l’aspetto storico che
testimonia il glorioso passato della città: a questo proposito mi sono soffermata sulla riscoperta e
sulla valorizzazione del centro storico valenciano, resa possibile anche grazie al Plan RIVA. In
seguito ho deciso di dedicare molto spazio a un progetto che ha modificato profondamente l’assetto
strutturale di Valencia: il progetto del Jardin del Turia.
Il sesto e ultimo capitolo verte sul particolare legame che la città di Valencia ha instaurato con il
mare nel corso degli anni. Viene posta particolare attenzione a quello che viene definito come il
motore della rigenerazione urbana di Valencia: il mega evento sportivo dell’America’s Cup. In
relazione a questo vengono descritti gli aspetti organizzativi e tecnici legati alla competizione velica
e vengono delineati dettagliatamente gli interventi attuati per la trasformazione del Porto, con una
premessa storica e una prospettiva futura della darsena. Infine viene fornita una descrizione degli
edifici simbolo del rinnovato Port America’s Cup.
Il capitolo si chiude con un’analisi dell’impatto, sia a lungo termine che a breve termine, degli
eventi sul sistema sociale e ambientale locale.
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CAPITOLO 1
LA CITTA’ POSTMODERNA: LE NUOVE DIMENSIONI GEOGRAFICHE
1.1 La crisi del modello economico fordista e l’evoluzione urbanistica della città post-moderna
La città, nei paesi più sviluppati, è diventata, dopo la prima rivoluzione industriale, il parametro di
riferimento per l’analisi dello sviluppo economico e sociale di una determinata area geografica. La
sua struttura, i suoi servizi, l’offerta culturale e ricreativa, se correttamente organizzati e integrati
fra loro permettono di conferire prestigio alla città stessa ma anche all’intero territorio circostante;
se, al contrario, questi elementi sono strutturati in maniera poco efficace essi rischiano di relegare la
città e tutto il suo contesto urbano in una posizione inferiore rispetto alle altre realtà concorrenti.
Per questo motivo si è deciso di esaminare, nel presente elaborato, il percorso evolutivo compiuto
dalla città nel corso degli anni. Tale percorso ha permesso alla città di diventare quella che noi oggi
vediamo e viviamo quotidianamente, nei suoi molteplici aspetti che ci consentono di svolgere il
nostro lavoro ma anche di dedicarci ai nostri hobbies e alle nostre passioni.
La città odierna, viene definita “postmoderna” poiché è il risultato di una serie di cambiamenti
complessi e articolati che l’hanno portata, negli ultimi decenni, a stravolgere completamente il suo
assetto storico e urbanistico e questo ha avuto numerose conseguenze anche in ambito socio-
economico e paesaggistico.
Alla base della città nuova, come viene definita da Amendola (1997) c’è un cambiamento che non
riguarda solo il territorio urbanizzato ma la forma e l’identità stessa della città tradizionale.
L’aspetto principale sul quale è necessario focalizzarsi è quello del mutamento dell’organizzazione
degli spazi. All’inizio del XX secolo la città assume una fisionomia ben definita, che risulta
strettamente connessa con il modello economico e produttivo fordista. Quest’ultimo prevede la
presenza di aziende di grandi dimensioni, che includono tutte le fasi produttive di massa, e che
contemplano un’organizzazione del lavoro fortemente parcellizzata, con l’impiego di manodopera
poco qualificata (VICARI HADDOCK 2004). Tutto questo ha portato a un’organizzazione spaziale
della città piuttosto unificata e incentrata sul proprio grado di sviluppo industriale. Gli elementi
visibili che identificano immediatamente un contesto urbano simile sono costituiti dalle fabbriche,
vero e proprio centro propulsivo della città, ma anche da un’urbanistica estremamente razionale. La
città fordista è, infatti, attraversata da un ordinamento spaziale rigoroso, senza fronzoli, che riflette
la necessità di disporre di una zonizzazione funzionale, di un controllo dei tempi di lavoro e di
impiego del tempo libero delle estese masse di abitanti, lavoratori e utenti urbani (SGROI 2001).
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Per l’urbanistica razionalista la città moderna è quella a pianta ortogonale, percorsa da strade dritte
con viali alberati, ed è caratterizzata dalla presenza di servizi accessibili. Lo sforzo dei progettisti è
quello di individuare fabbisogni espressi in termini di scuole, parcheggi, aree verdi. La visione è
“totalizzante”, nel senso che individua un’immagine della città che prescinde dalle particolari
preferenze individuali.
Alla fine degli anni ’70 però il modello fordista entrava in crisi per diverse ragioni:
iniziò una fase di ristagno economico causata dalla crescita del prezzo del petrolio e si
verificò una saturazione dei mercati interni per ciò che riguardava i beni standardizzati
per il consumo di massa;
si presentò un’agguerrita concorrenza da parte dei NIC (paesi di nuova
industrializzazione) come l’Estremo Oriente (Taiwan, Singapore, Hong Kong, ecc)
si ridusse la produzione industriale e la si trasferì nei paesi con una manodopera a costi
più bassi;
comparirono nuove tecnologie come l’automazione e la robotizzazione che portarono
l’industria verso una dimensione multinazionale.
Oltre a questi fattori il modello fordista presentava le sue debolezze soprattutto in relazione al suo
modo di produrre che risultava estremamente alienante per il lavoratore. Quest’ultimo non riusciva
più a mantenere il controllo sui tempi e sui modi di produzione: si rendeva così necessario un
intervento dello stato nell’economia che garantisse l’istituzionalizzazione delle relazioni industriali
e riconoscesse le organizzazioni dei lavoratori come interlocutori nella politica economica. Lo stato
svolgeva un ruolo di mediazione che da un lato legittimava e rafforzava la parte riformista del
movimento operaio, mentre dall’altro contribuiva ad attenuare i conflitti e ad assicurare la
collaborazione di quella estesa classe operaia su cui si basava la produzione fordista (VICARI
HADDOCK 2004).
Nel XX secolo, quindi, si rivela pienamente la crisi della città industriale, risultato di un rapporto
conflittuale tra struttura produttiva, organizzazione sociale, qualità dell’ambiente costruito e
allocazione delle risorse naturali. La città razionalista si propone come una sorta di specchio che
riflette il raggiungimento della perfezione dell’esistenza umana (SGROI 2001). Il razionalismo
presuppone che la scienza, la tecnologia e l’attività normativa e pianificatrice delle istituzioni
pubbliche possano essere strumenti in grado di risolvere le condizioni di disordine proprie della
crescita urbana.
L’urbanistica razionalista, però, entrò in crisi a partire dagli anni Settanta poiché il progetto di
modernizzazione fordista a cui essa era ancora implicitamente ispirata si rivela progressivamente
inefficace. La grande industria manifatturiera usciva dalla città e da gran parte del territorio urbano,
disgregandosi su più territori e avviando processi di periurbanizzazione e riurbanizzazione;
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l’economia, almeno nei paesi sviluppati si terziarizzava sempre di più, spostando il suo asse centrale
verso i servizi, l’informazione, la ricerca, la promozione, la diffusione delle innovazioni
tecnologiche, il turismo e la valorizzazione del tempo libero.
Un altro elemento che concorre alla fine dell’urbanistica razionalista è il generalizzato clima di
sfiducia sulla razionalità scientifica che comincia a permeare il mondo occidentale, principalmente
con la crisi dei regimi socialisti e con l’esplosione della questione ambientale.
Alla fine del XX secolo si afferma così un nuovo movimento di idee e realizzazioni concrete,
destinato a mutare la realtà e l’immagine della città; tale movimento è definito “postmoderno”
poiché si propone come un superamento dell’esperienza urbana moderna ma non come una
negazione di quest’ultima. Il concetto chiave è la sostituzione del principio dell’utilità con quello
del piacere che però a sua volta produce nuova “utilità”e, conseguentemente, nuova competizione e
nuovi conflitti (SGROI 2001).
Tra gli elementi dominanti della postmodernità c’è un senso di frammentazione del presente e di
rottura con il passato, la mancanza di profondità di valori, la perdita di riferimenti stabili, la vittoria
dell’immagine e un’indifferenza euforica dei suoi protagonisti (MINCA 2006).
1.2 Le nuove dimensioni territoriali: l’origine delle edge cities
La città postmoderna rompe, dunque gli schemi tradizionali e sconvolge le centralità spaziali: i
punti di riferimento non sono più costituiti dalle piazze e l’architettura tradizionale non è più quella
delle grandi istituzioni civili e religiose, della finanza e del commercio. Le nuove “attrazioni” sono i
centri commerciali, i musei, i centri direzionali, gli aeroporti, gli stadi sportivi, le grandi strutture
alberghiere e tutto si distingue per dimensioni, originalità e innovazione; nascono quelle che Ritzer
definisce le “cattedrali del consumo”, per il loro carattere magico, quasi religioso o sacro
nell’immaginario di molte persone. Queste cattedrali del consumo (cinema multisala, parchi
tematici, catene di ristorazione, grandi librerie, ecc) per attrarre masse di consumatori sempre più
ampie hanno l’esigenza di offrire, o almeno danno l’impressione di offrire un numero crescente di
scenari magici, fantastici e incantati dove fare gli acquisti, a volte provocando intenzionalmente
questa magia, mentre in altri casi essa è il risultato di una serie di sviluppi in gran parte
imprevedibili (RITZER 2000).
Questi elementi si inseriscono nella prospettiva più ampia di direttive appartenenti a un marketing
urbano che mira a costruire e ad attuare strategie comunicative e operative efficaci per rendere
sempre più appetibile o fruibile ogni aspetto della città.
7
L’architettura postmoderna conserva gli stili del passato reinventandoli in una proposta a volte
innovativa oppure neoconservativa che sia però in grado di coinvolgere gli abitanti e i visitatori
perché consegna loro un’esperienza multisensoriale. Questa nuova impostazione architettonica,
però, ostenta la propria fragilità e la propria precarietà poiché fa parte di un consumo urbano sempre
più sfuggente e privo di qualsiasi logica organizzativa e persino estetica.
La città postmoderna modifica anche la sua configurazione territoriale espandendo i propri confini
attraverso un processo di suburbanizzazione
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che porta alla perdita della sua compattezza, ma
anche con la nascita dei nuovi quartieri operai in aggiunta a quelli esistenti e già densamente
popolati. Si creano così sobborghi e quartieri satellite che compongono un’unica entità territoriale,
una conurbazione, che a sua volta viene circondata da poli suburbani, costituendo un’unica e vasta
area metropolitana (VICARI HADDOCK 2004). In realtà si può parlare addirittura di
deurbanizzazione e delocalizzazione poiché si verifica un’estensione del tessuto urbano, che ingloba
città grandi e piccole, villaggi, pezzi di campagna e metropoli in una logica di assoluta
deregulation. All’interno di questo continuum urbano definibile con la perifrasi di “territorio
urbano” o “città regionale”, la città mantiene comunque la sua centralità in una sistema territoriale
nuovo governato da principi organizzativi inediti ma che consentono di assumere nuove forme e
nuove significati (GAVINELLI, MORAZZONI 2012).
In questo scenario fanno la loro comparsa anche le cosiddette edge cities (città di margine), così
denominate per la posizione che occupano, ai margini della città tradizionale. Esse si
contraddistinguono per la loro organizzazione strutturale innovativa perchè cadono i limiti fisici, i
confini definiti, e anche il tradizionale concetto di sobborgo, che prevedeva un centro urbano
allocato nella vecchia città nucleare.
Il rapporto della città e delle sue funzioni con lo spazio è nelle edge cities completamente ridefinito
grazie al suo legame con la tecnologia; le distanze vengono eliminate grazie alle reti telematiche e
alle autostrade elettroniche o compresse per mezzo dei trasporti tradizionali ad alta velocità
(AMENDOLA 1997). L’annullamento delle distanze porta alla creazione di un’ “iperspazio
postmoderno” nel quale non esistono più le categorie spazio-temporali sulle quali avevamo basato i
nostri tradizionali criteri conoscitivi; lo spazio telematico, deterritorializzato è qualcosa di nuovo e
non ci permette più di distinguere un qui e un altrove rispetto al quale misurare la nostra presenza.
L’implosione del lontano nelle nostre vite e la miriade di informazione che ci arriva
quotidianamente, in ogni momento ci hanno privato del filtro selettivo della lontananza. La caduta
della distanza ha provocato inevitabilmente quella dell’alterità: ora essa ci perviene solo attraverso
1
Per suburbanizzazione si intende lo sviluppo delle aree collocate in prossimità di un agglomerato urbano; si
differenzia dalla periurbanizzazione che rappresenta invece l’urbanizzazione delle aree ad esso più esterne e
periferiche.
8
organi artificiali e a- spaziali, scollegati dal contesto territoriale in cui si collocano; allora avremo
sempre più un sapere geografico spettacolare ma frammentario e colmo di stereotipi e luoghi
comuni; le pubblicità, le riviste patinate ci sottoporranno immagini di spazi effimeri,
decontestualizzati, lontani dalla realtà ma in grado di colpire emotivamente (MINCA 2006).
In questo nuovo contesto urbano superficiale, spettacolare e frammentario, dove lo spazio ha
cambiato i suoi connotati, le edge cities si espandono considerevolmente anche perché
rappresentano una piacevole alternativa alla metropoli. Sorte come sue appendici, infatti esse
riescono a offrire ai cittadini una qualità di vita nettamente superiore rispetto alle grandi città: aria
pulita, ampi spazi verdi, accessibilità ai servizi, valorizzazione delle iniziative culturali e sicurezza
sono solo alcuni degli elementi che favoriscono l’insediamento di nuovi cittadini all’interno di
queste realtà.
La città diffusa
2
non rimane però isolata dai grandi centri urbani, al contrario è sempre più
collegata attraverso imponenti sistemi di comunicazione che favoriscono la mobilità e il
pendolarismo, cioè quel fenomeno che vede come protagonista lo spostamento dei cittadini dalla
periferia alla città principalmente per motivi di lavoro ma anche di svago e di divertimento.
La complessa rete infrastrutturale di trasporti che circonda i nuclei urbani è sempre più tecnologica
e con il passare degli anni, sta invadendo sempre più lo spazio agricolo che caratterizzava le aree al
di fuori della città. La campagna coltivata si sta riducendo progressivamente e là dove riesce a
mantenere un barlume di identità rurale è comunque invasa da forme spaziali organizzate, comprese
nel sistema urbano-metropolitano: le cascine e le fattorie quando non sono riconvertite in complessi
residenziali diventano così centri agrituristici; i castelli e i conventi diventano alberghi di lusso o
sedi prestigiose per matrimoni e convegni manageriali; interi paesi diventano “albergo diffuso”,
ambienti di particolare valore naturalistico e paesaggistico vengono convertiti in parchi nazionali o
regionali, artificializzandosi. Si verifica, dunque, un processo di esportazione dell’urbano verso il
non urbano (SGROI 2001).
Le edge cities sono nate dapprima negli USA grazie all’abbandono delle metropoli da parte di molti
dei suoi abitanti , a partire dagli anni ’70 quando iniziò la trasformazione dello spazio fisico delle
città esistenti. In quel periodo si verifica una perdita del ruolo di settore trainante dell’economia da
parte dell’industria pesante a favore della finanza e del terziario avanzato; l’economia dei servizi
2
Per “città diffusa” si intende la rapida e disordinata crescita di una città verso l’esterno non urbano. Questo fenomeno
si manifesta nelle zone periferiche,quelle di più recente espansione e sottoposte a continui mutamenti. Il segno
caratteristico della dispersione urbana è dato dalla bassa densità abitativa; gli effetti includono la riduzione degli spazi
verdi, il consumo del suolo, la dipendenza dalle autovetture a causa della maggiore distanza dai servizi, dal posto di
lavoro, e in generale per la mancanza di infrastrutture per la mobilità alternativa (piste ciclabili, marciapiedi o
attraversameni pedonali adeguatamente connessi). Cfr Bonomi A., Abruzzese A., La città infinita, Mondadori,
Milano, 2004.
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mutava profondamente il mercato del lavoro metropolitano e il cityscape e ingenti quote di
popolazione venivano espulse dai processi produttivi e dalle aree centrali urbane. In questo modo si
crearono le premesse per la costruzione di una città dalle nuove forme, diverse da quelle
tradizionali: la liberazione delle vecchie aree industriali e delle zone residenziali permisero la
nascita della città nuova sulla struttura fisica di quella esistente. Infine, anche amministratori
comunali e immobiliaristi hanno creato la città postmoderna sui relitti della vecchia città; si tratta di
un’entità geografica trasformata dal punto di vista spaziale ma anche per quanto riguarda la
popolazione; si verifica, infatti, il processo della gentrification che prevede il ricambio della
popolazione abituale di un’area mediante l’immissione di ceti superiori attratti da interventi di
recupero immobiliari e urbani. Per questo tipo di popolazione viene costruito una città ad hoc che
dev’essere un perfetto connubio tra innovazione e tradizione, dove l’esteriorità e la
spettacolarizzazione sono gli elementi che la contraddistinguono; ogni aspetto dell’arredo urbano è
concepito per conferire status agli abitanti e per creare il nuovo e più costoso environment urbano
(AMENDOLA 1997).
1.3 Le nuove centralità e la nascita dei non luoghi urbani
Come è stato precedentemente evidenziato, la città postmoderna si caratterizza principalmente per
la sua nuova organizzazione spaziale che prevede un stravolgimento dei punti di riferimento propri
della città moderna.
Alla base di queste trasformazioni dello spazio fisico c’è sicuramente l’espansione della città al di là
dei propri confini che ha portato inevitabilmente a un riassetto urbanistico degli spazi metropolitani
all’interno dei quali risulta difficile individuare un centro ben definito.
Il percorso evolutivo della nuova realtà urbana ha attraversato due fasi facilmente identificabili: la
prima iniziò indicativamente negli anni ’70 del Novecento quando la crescita della città veniva
misurata esclusivamente attraverso la dilatazione fisica e la creazione di “nuove parti secondo
principi di razionalità e di specializzazione”
3
; la seconda iniziò negli anni ’80 e vide la realizzazione
di trasformazioni urbane attraverso un riutilizzo mirato degli elementi già esistenti della città.
A questo proposito si parla di riuso urbano,cioè dell’attuazione di interventi di recupero di vecchi
spazi attraverso la valorizzazione delle diversità, il recupero della testimonianze del passato, la
ricerca del genius loci, l’identità territoriale degli abitanti e il legame tra bellezza e funzionalità.
In questa logica del riuso le dinamiche della trasformazione dell’esistente si basano
sull’ostentazione dell’esteriorità: la città deve apparire bella e per questo i criteri di progettazione
3
Amendola G, La città postmoderna. Magie e paure della metropoli contemporanea, Editori Laterza, Roma- Bari
1997, cit. p. 18.
10
rispondono soprattutto ai principi dell’urban design che si contrappongono a quelli dell’urban
planning utilizzato nei decenni precedenti; la funzionalità e la razionalità, valori propri della città
moderna, passano ora in secondo piano a favore del trionfo dell’immagine e di un’esperienza
multisensoriale per il cittadino che si trova così immerso in uno spazio nuovo,che sembra essere
concepito per essere spettacolare.
La città industriale era grigia, triste e non poneva alcuna attenzione a tutti quegli aspetti che non
erano in relazione con il controllo delle sue funzioni produttive; la città contemporanea, invece,non
si fonda più sulla propria produzione interna, ma piuttosto sui riferimenti simbolici che la proiettano
verso una dimensione esterna che la vuole sempre più attrattiva e competitiva nel panorama
internazionale. Dunque l’immagine risulta importante e rappresenta un elemento sul quale la città
deve puntare per essere immediatamente visibile e distinguibile agli occhi di turisti e city users.
Proprio in linea con questa nuova esigenza nacque, a partire dagli anni ’70, la cosiddetta symbolic
economy della città che è definita come “simbiosi tra immagine e prodotto, lo scopo e la scala della
vendita delle immagini a livello nazionale ed anche globale, ed il ruolo dell’economia simbolica nel
parlare e nel rappresentare la città”
4
(AMENDOLA 1997).
In questo contesto la città è interessata da mutamenti strutturali che si fondano sull’abbandono delle
logiche di centralità spaziali a favore di quelle indefinite della città bricolage
5
dove la confusione, il
disordine, la frammentarietà sono i nuovi concetti chiave del planning urbano.
La città si presenta, così, come un “sistema anarchico ed arcaico di segni e di simboli”
6
, un melting
pot di culture e linguaggi.
All’interno di questa realtà l’elemento culturale assume grande importanza se facciamo riferimento,
in particolare, alla perdita di identità culturale dei cittadini in un contesto urbano dominato da un
collage di riferimenti e citazioni del passato; Quest’ultimo viene però edulcorato e riproposto come
rappresentazione del presente e privato del suo valore e del suo significato originale.
Non si tratta però di una citazione del passato come fonte di ispirazione, così come era accaduto per
il classicismo, ma piuttosto come mezzo per mettere in evidenza l’eliminazione dello stacco tra
presente e passato e l’annullamento del fattore tempo nell’esperienza quotidiana.
In questo contesto, slegato dalle connotazioni spaziali del passato, la centralità della città non può
certo essere rappresentata da una singola piazza o da una sola via principale ma risulta essere
costituita da più elementi combinati.
In primo luogo la componente sociale gioca un ruolo fondamentale, nel senso che l’importanza
conferita a determinati luoghi risulta essere alquanto soggettiva. Nella grande varietà etnica e
4
S.Zuckin, The Cultures of Cities, Blackwell, London 1995, cit., p. 8.
5
L’espressione città bricolage viene utilizzata da Amendola nel volume La città postmoderna (v nota n 2), p. 47 per
definire la città postmoderna e la sua organizzazione spaziale nettamente contrapposta a quella della città moderna.
6
Harvey, The Conditions of Postmodernity (1990), cit., p.83.
11
culturale e, soprattutto nella frammentazione del tessuto sociale si sono formate le tribù urbane che
hanno dato vita alla cosidetta società di massa all’interno della quale, a dispetto di ciò che si può
pensare, si sono sviluppati forti sentimenti di identità individuali.
Tutte queste individualità, però, hanno bisogno di legarsi a un luogo, a uno spazio che permetta loro
di esprimere le proprie personalità e la propria voglia di realizzarsi.
I luoghi della postmodernità sono collocati in una realtà estremamente mutevole ed effimera ed
esprimono il carattere indeterminato ed ambiguo che pervade le città.
Proprio per questo essi vengono definiti dall’antropologo Marc Augè come nonluoghi in
contrapposizione ai luoghi antropologici.
“La concezione dello spazio non è tanto sovvertita dai capovolgimenti in corso quanto
immensamente complicata dalla sovrabbondanza spaziale del presente […]. Essa comporta
modificazioni fisiche considerevoli: concentrazioni urbane senza precedenti, trasferimenti
apocalittici di popolazione e la moltiplicazione di ciò che definiamo nonluoghi […] I nonluoghi
sono tanto le installazioni necessarie per la circolazione accellerata delle persone e dei beni (strade a
scorrimento veloce, svincoli, aeroporti) quanto i mezzi di trasporto stessi, o i grandi centri
commerciali o, ancora, i campi profughi dove sono parcheggiati i rifugiati del pianeta”
7
. Si tratta di
spazi totalmente privi di identità e relazioni storiche con il passato, che permettono a milioni di
individui di “consumarli” senza instaurare alcuna relazione duratura.
I non luoghi sono prodotti di una surmodernità
8
incapace di integrare in sé i luoghi storici e di
confinarli e banalizzarli in posizioni limitate e circoscritte, alla stregua di oggetti interessanti.
In queste realtà le differenze culturali massificate convivono senza però contaminarsi o influenzarsi;
assistiamo, così alla nascita di nuovi luoghi di consumo, come i centri commerciali che ridisegnano
l’organizzazione della città, producendo una ridistribuzione delle funzioni commerciali nell’area
urbana e un riorientamento dei flussi delle persone e delle merci da un modello centripeto a uno
policentrico e multidimensionale (VICAR HADDOCK 2004).
7
Augé M., Nonluoghi. Introduzione a un’antropologia della surmodernità, Elèuthera, Milano, 2005.
8
È un termine coniato dall’antropologo francese Marc Augè e fa riferimento alla collocazione sempre più globale degli
accadimenti sociali, intellettuali ed economici a partire della fine del XX secolo. La surmodernità, o sovramodernità,
è caratterizzata da varie forme d’eccessi, esagerazioni e abbondanze. Essa rappresenta il superamento del
postmodernismo e descrive l’umanità immersa nelle problematiche della “tripla accelerazione”, o “triplo eccesso”:
- l’eccesso di tempo, che descrive la difficoltà dell’uomo nella società moderna nel dare un senso alla realtà che vive,
conseguentemente alla sovrabbondanza di fatti, eventi, informazioni e avvenimenti che ci sovrastano;
- l’eccesso di spazio, è anch'esso una trasformazione accelerata del mondo contemporaneo che porta da un lato al
restringimento del pianeta rispetto alla conquista dello spazio e, dall'altro, alla sua apertura grazie allo sviluppo
dei mezzi di trasporto rapido. In questa dimensione nascono e si moltiplicano i nonluoghi;
- l’eccesso di ego, per il quale l’individuo si considera un mondo a sé e ogni riferimento alla propria individualità e alla
propria persona è valorizzato e messo in primo piano a scapito della vita collettiva.
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I nonluoghi sono incentrati solamente sul presente e sono altamente rappresentativi della nostra
epoca, che è caratterizzata dalla precarietà assoluta (non solo nel campo lavorativo), dalla
provvisorietà, dal transito e dal passaggio e da un individualismo solitario.
In generale però sono spazi standardadizzati, in cui nulla è lasciato al caso, tutto al loro interno è
calcolato con precisione ( il numero dei decibel, dei lux, la lunghezza dei percorsi, la frequenza dei
luoghi di sosta, il tipo e la quantità di informazioni). Essi sono l'esempio esistente di un luogo in cui
si concretizzano spazi ergonomici efficienti e con un altissimo livello di tecnologia (porte
automatiche, illuminazioni avveneristiche, ecc).
Nonostante questa omogeneizzazione i nonluoghi solitamente non sono vissuti passivamente, al
contrario, assumono una valenza positiva (l'esempio di questo successo è il franchising ovvero la
ripetizione infinita di strutture commerciali simili tra loro). Per gli utenti l’omologazione dei centri
commerciali non costituisce un problema, l’aspetto più importante è costituito dalla sicurezza
generata dalla certezza di poter trovare in qualsiasi angolo del globo la propria catena
di ristoranti preferita o la medesima disposizione degli spazi all'interno di un aeroporto.
In queste realtà di consumo l’esperienza dell’acquisto non è più fine a se stessa, ma diventa
occasione di incontri sociali e di divertimento a cui dedicare un ampio arco di tempo.
I megamalls
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sono l’archetipo per antonomasia del nonluogo e negli ultimi decenni si sono
trasformati in poli di attrazione turistica proprio per la loro spettacolarità ottenuta grazie
un’artificialità curata nei minimi dettagli. Quest’ultima si manifesta nella costruzione di ambienti
che trasferiscono indoor il tema della strada commerciale con una divisione dello spazio di vendita
in lotti. Nella loro struttura interna tendono ad accentuare la separazione con il mondo esterno,
dotandosi spesso di entrate spettacolari, quasi celebrative, e di finestre che non raramente si
affacciano sull’esterno.
Lo spazio interno viene pensato per soddisfare la nostalgia per gli spazi sociali tradizionali
attraverso la ricostruzione metonimica di una serie di luoghi-tipo (il mercato, la piazza, il viale,
ecc), ma anche attraverso l’impiego di elementi di arredo urbano come panchine, lampioni, insegne,
fontane, piazzette. Tutti questi elementi hanno lo scopo di ricostruire, avvalendosi di stereotipi, un
ambiente urbano da “consumare”: piazze, gallerie, boulevard trasformano così il mall in un luogo
urbano e in una metafora spaziale della fusione tra divertimento e commercio (MINCA 2006).
L’elemento dominante in questi luoghi è senza dubbio la presenza di simboli che strutturano la
relazione con gli utenti e nel contempo appiattiscono lo spazio trasformandolo in una galleria di
luoghi comuni da cui emerge solo un’immagine sfuggente.
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I megamalls sono i grandi centri commerciali di più recente concezione, che raggiungono le loro forme più
macroscopiche nel Nordamerica.
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La concezione dei nonluoghi, alla stregua di siti turistici è attribuibile al fatto che essi istituiscono
una sorta di identità temporanea, effimera. Le loro modalità d’uso sono destinate all’utente medio,
all’uomo generico, senza distinzioni. Egli, conquista dunque il proprio anonimato solo dopo aver
fornito la prova della sua identità (attraverso il biglietto aereo, il voucher dell’hotel, il passaporto).
Non vi è un riconoscimento dell’individualità umana ne tantomeno dell’appartenenza a un gruppo
sociale, come avviene nel luogo antropologico.
A tal proposito il saggista e novelliere Stefan Zweig scriveva nel 1946: “Una volta l'uomo aveva
una anima e un corpo, oggi ha bisogno anche di un passaporto, altrimenti non viene trattato da
essere umano”
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e da quel tempo il processo di disindividualizzazione della persona è andato via via
progredendo. Anche i centri storici delle città europee si stanno sempre di più omologando, con
negozi e catene di ristoranti tra loro simili, il medesimo modo di vivere delle persone e addirittura
gli stessi artisti di strada. L'identità storica delle città, viene così banalizzata e ridotta a un semplice
stereotipo di richiamo turistico.
Figura 1.1 La pianta di una grande città contemporanea ridisegnata da Larry Ford come se fosse una nuova ed
ennesima versione di una creazione Disney: The Central City come Disneyland. I vecchi quartieri gentrificati e
rinnovati diventano Gentryland, l’università Learningland, i grandi magazzini Shopland, i negozi e i ristoranti di moda
Yuppieland, il centro degli affari Businessland, le zone abbandonate, recuperate e rese zone turistiche “di colore” sono
Adventureland, i mercati all’aperto Festivalland. Prende corpo l’immagine della città nuova contemporanea costruita
come sistema di mondi manipolati e preconfezionati la cui veridicità sta nel somigliare ad un modello immaginario.
Fonte: Amendola G., La città postmoderna. Magie e paure della metropoli contemporanea, Editori Laterza, Roma-
Bari 1997.
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Zwelig S., Il mondo di ieri, Mondadori, Milano, 1994.
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1.4 La globalizzazione socio-economica
Dopo aver analizzato i cambiamenti strutturali dell’ambiente urbano che hanno caratterizzato
l’evoluzione spaziale della città postmoderna caricandola di significati simbolici, è doveroso
soffermarsi sulla globalizzazione economica per comprendere i legami tra nuova economia e
dinamiche urbane.
Anzitutto con il termine globalizzazione si intende la crescente interconnessione di persone e luoghi
risultante dal progresso tecnologico nell’informazione, nella comunicazione e nei trasporti e dalla
progressiva scomparsa delle barriere e delle frontiere nelle relazioni internazionali.
La globalizzazione economica riguarda la convergenza di metodi e pattern di produzione e di
consumo e dipende anche dalle migrazioni, dal commercio internazionale, dai movimenti di capitale
e dalla integrazione o meno dei mercati finanziari. Il Fondo Monetario Internazionale nota la
crescente interdipendenza dei vari paesi a livello mondiale attraverso l’aumento della varietà di
transazioni tra paesi, i flussi internazionali liberi di capitali e la più rapida ed estesa diffusione della
tecnologia in alcune aree del mondo.
La globalizzazione economica può essere misurata in vari modi, esaminando i quattro fondamentali
flussi che la caratterizzano:
di beni e servizi, i.e. import ed export in rapporto al PIL pro-capite o totale;
di lavoro e persone, calcolando tassi migratori netti, verso l’interno o l’esterno, pesati con la
popolazione;
di capitale, attraverso investimenti diretti verso l’interno o l’esterno in proporzione al PIL
pro-capite o totale;
di tecnologia, ricerca e sviluppo, in proporzione alla popolazione di una determinata
regione.
Fino a che punto un paese è “globalizzato” in un particolare momento? Fino ad oggi esso è stato
misurato utilizzando semplici approssimazioni quali gli scambi commerciali, i flussi migratori, gli
investimenti diretti esteri.
L’economia globale, però, ha dato alle imprese la possibilità di produrre e vendere beni e servizi in
tutto il mondo, di sviluppare alleanze e forme di partnership su scala planetaria, di dislocare le fasi
produttive in paesi diversi e più potere rispetto al passato. Naturalmente, vi sono vantaggi e
svantaggi in questo nuovo modello economico.
Il primo dei vantaggi è probabilmente quello delle economie di scala. La scomparsa delle barriere
globali permette alle imprese di beneficiare dell’offerta di lavoro, delle materie prime e delle
tecnologie, laddove queste sono più abbondanti ed economiche (ad esempio molte compagnie di
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software nordamericane hanno una loro sede in India perché in questa regione la manodopera a
costi meno elevati rispetto a quella statunitense).
Un secondo vantaggio è l’opportunità per imprese piccole di espandersi in modo molto rapido,
grazie alla più ampia base di domanda e offerta. Alcuni sostengono che la globalizzazione sia anche
fattore di cooperazione internazionale e pace: se due paesi dipendono dal rispettivo successo
economico, un conflitto tra loro diviene meno probabile. Tale argomento, tuttavia, non può essere
sostenuto con dimostrazione empiriche (non è sufficiente sostenere che India e Pakistan non si sono
ancora distrutti militarmente per ragioni economiche, in quanto i loro rapporti potrebbero comunque
essere migliorati).
Tra gli aspetti negativi dell’economia globale, viene spesso citato quello della violazione dei diritti
umani e dello sfruttamento del capitale umano. Vi sono imprese che utilizzano manodopera a
bassissimo costo, ai limiti dello sfruttamento e della soggiogazione schiavistica; altre che
influenzano governi e politiche a loro vantaggio. Queste imprese sono denominate trans-nazionali e
basano il loro sviluppo sull’outsourcing di lavoro che prevede la delocalizzazione della produzione
nei paesi in via di sviluppo, dove gli standard remunerativi, sindacali e ambientali sono più
vantaggiosi o tolleranti.
Queste pratiche consentono alle imprese di risparmiare sui costi, di abbassare i prezzi dei loro
prodotti e di realizzare maggiori profitti.
Le imprese trans-nazionali spesso premono sui governi per poter accedere ai mercati locali (di
lavoro e materie prime), laddove i paesi sviluppati, per contro, ancora adottano politiche
protezionistiche che non permettono ai paesi in via di sviluppo di esportare i loro beni.
Tali pratiche di penetrazione nei mercati in via di sviluppo dovrebbero essere controllate da
politiche governative più protettive, dall’altro dovrebbe esserci invece un maggior liberismo
economico
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.
Secondo Sassen
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nell’economia, sono in atto processi di internalizzazione, di finanziarizzazione e
di concentrazione industriale. Il primo riguarda la progressiva estensione dei mercati dei prodotti e
dei servizi, il secondo il ruolo crescente del capitale finanziario nell’economia globale, il terzo la
crescita numerica e dimensionale delle imprese multinazionali.
Ognuno di questi processi provoca la rapida espansione dei centri urbani nei quali si concentrano le
funzioni di controllo e gestione dell’economia mondiale. Questo avviene nelle cosidette città
globali come New York, Londra, Tokyo che hanno la particolarità di esercitare queste funzioni
strategiche a livello globale.
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Informazioni tratte dal sito internet <http:// www2.dse.unibo.it/ardeni/ES/Globalizzazione.html>.
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Sassen S., Città globali, Utet, Torino, 1997.