-Premessa
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PREMESSA
Indubbiamente l’assedio della fortezza di Gaeta avvenuto a cavallo del
1860/1861 da parte delle truppe Piemontesi costituì uno dei più importanti avveni-
menti militari del XIX secolo, sia perché la Piazzaforte era annoverata tra le meglio
fortificate d’Europa ( le altre erano Malta e Gibilterra), sia perché, per la prima volta,
furono adoperate bocche da fuoco innovative che cancellarono, ad un tratto, i metodi
di assedio usati in precedenza.
Per poter avere un quadro completo della situazione, sia per quanto riguarda le
artiglierie sia per quanto riguarda l’approvvigionamento della Piazza e dell’esercito
assediante, non solo ho elencato il tutto desumendolo dai vari “Giornali” scritti in oc-
casione dell’assedio, ma ho anche catalogato l’armamento della Piazza che va dal
1853 al 1857 desumendolo da documenti inediti giacenti nell’Archivio storico di To-
rino.
Ho potuto, pertanto, constatare che, nel corso di quegli anni, questo era andato
sempre più aumentando quantitativamente per tutta una serie di cause che ho analizza-
to in seguito, ma che comunque qualitativamente era rimasto piuttosto indietro rispetto
all’artiglieria piemontese.
Questo fatto era dovuto essenzialmente a due motivi: il primo perché la politica
dei Borboni tendeva al risparmio ( per ironia della sorte la maggior parte di esso passò
quasi integralmente nelle mani dei Piemontesi), poi perché non vi era stato ricambio
nelle fila degli ufficiali superiori dell’esercito napoletano i quali rimanevano piuttosto
vincolati ai tradizionali metodi di condotta della guerra.
A tutto questo si deve anche aggiungere il fatto che molti pezzi, al momento
dell’assedio, risultavano solo “ sulla carta”. Essi, infatti, non erano operativi o perché
ancora del tutto smontati o non ancora in grado di funzionare a causa della mancanza
di qualche pezzo. Inoltre molte delle dotazioni o non erano adeguate alla difesa della
Piazza o erano di scadente qualità anche a causa dei depositi fatiscenti o inadeguati (
la polvere da sparo non era del tutto utilizzabile a causa dell’umidità). Poche le case-
matte ed i depositi blindati soprattutto quelli che contenevano le polveri da sparo e le
cartucce. Di questo fatto si avranno tragiche conseguenze nel corso dell’assedio.
-Premessa
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Ma, prima di parlare in modo più esteso dell’assedio, delle dotazioni della
Piazza; prima di porre a confronto le artiglierie dei due schieramenti, mi è sembrato
opportuno, per capire meglio le dotazioni dei due eserciti e di conseguenza anche lo
sviluppo e la fine scontata dell’assedio stesso, tracciare una breve panoramica degli
avvenimenti politici, economici e militari degli Stati della Penisola, con particolare ri-
guardo al Regno di Sardegna e al Regno delle Due Sicilie.
Non potevo poi non tracciare una breve storia della città che nel corso dei seco-
li è stata privilegiata ma anche martirizzata a causa della sua posizione geografica av-
valendomi anche di lavori fatti da autori locali.
Ho descritto, con dovizia di particolari sia le opere difensive che le batterie del-
la Piazza e quelle dell’esercito assediante ( la loro origine e le loro dotazioni) desu-
mendo il tutto da vari scritti e soprattutto dai diari ufficiali dei due schieramenti.
Sono passato quindi a descrivere le operazioni d’assedio e la sua conclusione.
Ho catalogato tutto l’armamentario della Piazza e dei sui distaccamenti( Real
sala d’armi, isola di Ponza e di Ventotene) dal 1853 al 1857. Lo studio di questo mate-
riale,recuperato presso l’archivio storico di Torino, ha richiesto la ricerca di e la codi-
ficazione di ogni singolo Arsenale dell’età Borbonica. La ricerca, che ha per oggetto
l’Arsenale di Gaeta ,ha richiesto quindi la codificazione dell’inventario generale
dell’Arsenale stesso.
Ho parlato dell’esercito napoletano così com’era composto anche alla luce del-
la politica economica ed estera dei Borboni.
-Capitolo Primo: Il contesto storico
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CAPITOLO PRIMO
IL CONTESTO STORICO
1. Il progresso del Piemonte sotto la guida del Cavour
Prima e dopo l’assunzione della presidenza del Consiglio, il Cavour aveva dato
un contributo risolutivo a spingere, forse non sempre con successo, ma sempre con lu-
cida energia, il Piemonte sulla strada del progresso civile, politico ed economico. Ne
conseguì che questo regno, per una decina d’anni, unico in Italia governato da libere
istituzioni, fosse anche l’unico a conoscer un periodo di crescita vivace, il cui effetto
fu di consolidare quella nuova coalizione di forze politiche di cui il “ connubio” era
l’espressione parlamentare la quale veramente serviva e voleva servire da modello alla
restante Italia dei benefici di una civile organizzazione politica.
L’azione cavouriana si esplicò in tutti i campi della vita economica piemontese
( la realtà della Sardegna non venne toccata dalla trasformazione della parte continen-
tale del regno), secondo un’ispirazione generosamente europea, che guardava al Pie-
monte non come ad una piccola regione, bensì come ad un importante settore del si-
stema capitalistico occidentale. Tutte le risorse del Paese, già messe in movimento dal
risveglio del 1848, venivano mobilitate in un grande sforzo come attestano due soli
dati: l’insieme delle entrate inscritte nel bilancio sardo e l’insieme delle uscite; le
prime furono quasi triplicate tra il 1845 ed il 1859; le seconde furono quasi quadru-
plicate nel medesimo periodo tenendo conto anche dello sforzo bellico. I numerosi e
potenti ostacoli che avevano frenato in passato la trasformazione capitalistica del Pie-
monte furono affrontati con risolutezza e spesso abbattuti. Il Cavour era mosso dalla
concezione della spontaneità del progresso economico, conseguito mediante
l’eliminazione di ostacoli inutili e dannosi. Spontaneità non significava però arbitra-
rietà, ché anzi il primo ministro piemontese concepiva la politica economica dello Sta-
to come uno degli strumenti più importanti per completare o sostituire l’iniziativa del
privato.
-Capitolo Primo: Il contesto storico
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Tra le varie leve manovrate il Cavour ripose le maggiori speranze nella politica
commerciale: rimozione dapprima graduale del sistema vincolistico ( tra il 1850 ed il
1851), mediante una fitta rete di trattati bilaterali, poi revisione generale dei dazi, at-
tuata con legge del luglio 1851 e tale da introdurre in larga misura il libero scambio.
Ma aprire il Paese alla concorrenza internazionale senza dotarlo di un sistema crediti-
zio capace di sorreggerlo e indirizzare lo sforzo di trasformazione era impossibile.
Mobilitare il risparmio era un obiettivo che esigeva una riforma del sistema creditizio;
fu questo il secondo passo cavouriano, compiuto con la riforma, avviata nell’aprile
1851, della Banca Nazionale, con la creazione della Cassa dei depositi e prestiti, con
la riforma della Cassa di risparmio. Nasceva,così, un sistema finanziario nuovo, po-
tenzialmente capace di sostenere un vigoroso slancio produttivo, in una politica con-
sapevolmente volta a pagare il prezzo dello squilibrio di bilancio e della crescita del
debito pubblico pur di garantire lo sviluppo.
La politica ferroviaria fu l’esempio più vistoso della trasformazione piemonte-
se e quello che meglio rivela la diversità dal resto della penisola: la rete ferroviaria
piemontese passò dai 57 Km. Complessivi del 1849 ai 914 aperti al traffico prima del-
la 2
a
guerra d’indipendenza. A questa data i chilometri aperti al traffico nel solo Pie-
monte superavano di gran lunga quelli delle altre regioni d’Italia, compreso il Lom-
bardo-Veneto, dove nel 1859 funzionavano poco più di 500 Km. Di linea. E connessi
con il dilagare delle ferrovie erano il crescere della rete stradale, il potenziamento del-
le comunicazioni marittime, la riforma del sistema postale
Accanto alla politica dei lavori pubblici vi era una politica per l’agricoltura. Il
Cavour concepiva la necessità della trasformazione capitalistica della produzione a-
gricola e giudicava tale trasformazione incardinata sui problemi della canalizzazione e
del drenaggio. Con la collaborazione di tecnici capaci, riuscì ad attivare la costruzione
di una rete di canali e ad avviare l’introduzione della pratica del drenaggio, lasciando
ai suoi successori il compito di proseguire un lavoro necessariamente a lunga scaden-
za. Così il Piemonte usciva dall’età preindustriale e l’industria conobbe un impulso
eccezionale : l’industria tessile, che vide in media raddoppiata la sua produzione;
l’industria meccanica, da cui nacquero allora le strutture fondamentali; l’industria
chimica . quelle della carta e le altre industrie minori.
Il bilancio era lusinghiero ed il Piemonte si avviava a diventare la guida del
progresso economico ed era di esempio per le altre regioni d’Italia. Vanamente i deni-
gratori del regime liberale indicavano i pesanti oneri finanziari che il Paese s’era ad-
-Capitolo Primo: Il contesto storico
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dossato. In un discorso del 1854 il Cavour sintetizzava la sua risposta, che era anche
l’espressione della matura coscienza di una classe politica: “Giunti, egli disse, al 1850
quando la pace era sancita, quando le minacce di guerra erano sparite, il governo po-
teva seguire due vie: poteva adottare quella della più assoluta economia, poteva ri-
nunziare a qualunque idea di progresso e di miglioramenti; poteva, rimanendo fino
ad un certo punto fedele alle più gloriose tradizioni della monarchia di Savoia, rinun-
ziare di essere una potenza militare[....]. V’era un altro sistema, il sistema cioè di svi-
luppare con ogni mezzo le risorse latenti di cui è così ricco il Paese, di mantenere e di
fortificare il nostro ordinamento militare e di fidarsi, per ristabilire l’ordinamento
completo delle nostre finanze, alle conosciute risorse del Paese; in certo modo biso-
gnava avere fede nella libertà e nei miracoli che essa è suscettibile di produrre”
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2. Gli altri Stati
La situazione degli altri Stati italiani era tale, in verità, da accrescere l’evidenza
comparativa dell’esperimento piemontese, a causa del vivo contrasto delle linee poli-
tiche, altrove caratterizzate dalla speranza che la rivoluzione fosse stata stroncata e in-
sieme dal timore che essa ovunque si infiltrasse.
Nel Lombardo-Veneto, al solco esistente tra i singoli governi italiani e le forze
vive d’ogni regione, s’aggiungeva l’avversione contro gli Austriaci. Le tracce di buo-
na disposizione verso l’amministrazione austriaca erano state cancellate dal biennio
rivoluzionario. L’esercito imperiale si sentiva e si comportava come un esercito
d’occupazione. Ci fu un breve tentativo di cercare una politica demagogica che faces-
se leva sui contrasti di classe e sugli interessi, ma ben presto l’evidente opposizione di
tante parte della popolazione attiva creò un clima in cui il carattere dominante era
quello della cospirazione e della successiva repressione, in un concatenarsi di fatti
pressoché inesauribile.
Nel mondo moderato, infatti, pur con i limiti imposti dall’occupazione militare,
non si guardava a Vienna come fonte di progresso, si guardava a Torino con speranza;
si diffondeva anzi la persuasione documentata che il governo austriaco avesse sfrutta-
to finanziariamente le sue regioni italiane, caricandole di imposte pesanti e spropor-
zionate; esso diventava, dunque, un ostacolo al progresso e la causa delle crisi. Molti
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C. CAVOUR, Discorsi parlamentari, a cura di A. Omodeo e L. Russo, Firenze, 1955, p.27
-Capitolo Primo: Il contesto storico
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tra i moderati erano esuli in Piemonte; pochi erano rimasti a Milano e ritrovavano nel-
la politica cavouriana motivo per superare le delusioni del 1848 e della “ fusione” e
sperare nuovamente nell’iniziativa sabauda.
La resistenza dei repubblicani era invece meno passiva . la loro serie
d’iniziative ebbe peso enorme nell’aggravare la tensione , nel rendere impossibile il
recupero austriaco, nel condizionare gli orientamenti dei moderati. Esule prima in
Svizzera e poi in Gran Bretagna, il Mazzini guidava instancabilmente la loro cospira-
zione, convinto che dalla sconfitta regia dovesse risorgere una vittoriosa lotta di po-
polo. Ma le autorità militari non tardarono a rendersi conto del proliferare dei comitati
rivoluzionari. La prima vittima fu un popolano milanese, Amatore Sciesa, arrestato
mentre tentava di affiggere un manifesto e condannato a morte ( agosto 1851); poco
dopo fu impiccato a Venezia Luigi Dottesio, uno dei principali diffusori della stampa
clandestina della Tipografia elvetica di Capolago ( ottobre 1851); e poi fu la volta di
don Giovanni Grioli, sacerdote mantovano, accusato di aver tentato di far disertare
alcuni soldati ungheresi e impiccato a Belfiore il 5 novembre 1851. Con l’arresto del
Grioli e di Luigi Pesci, mantovano, gli Austriaci risalirono a don Enrico Tazzoli, pro-
fessore nel seminario e ardente patriota. Furono scoperti decine di congiurati e fu a-
perta una grande istruttoria. Piovvero condanne a morte e condanne al carcere. Mazzi-
ni tentò, poi, un movimento rivoluzionario a Milano, ma fallì. L’effetto fu solo quello
di inasprire i giudici mantovani e di dar luogo a Milano a una nuova brutale ondata re-
pressiva: circa 900 arresti; 276 persone processate; sedici popolani impiccati nei gior-
ni immediatamente successivi alla tentata insurrezione; molti altri condannati a morte,
ma graziati. Era un bilancio sconvolgente, che doveva trascinare in una profonda crisi
il movimento mazziniano, ma che dimostrava all’Europa il divorzio tra il popolo mi-
lanese ed il governo imperiale. Supremo errore austriaco, il governo di Vienna sopì
d’un sol tratto le diffidenze dei moderati verso il manifestarsi di forze proletarie e re-
pubblicane col decretare il sequestro indiscriminato dei beni degli esuli, per lo più ari-
stocratici, imputati di essere i mandanti morali della tentata insurrezione.
Assai più mite fu la seconda Restaurazione a Parma, dove tuttavia il ducato fu
insanguinato il 26 marzo 1854 dall’uccisione del duca Carlo III, al quale succedette la
tranquilla reggenza della duchessa vedova , Luisa Maria di Francia. Più tardi arbitra-
riamente rigoroso fu invece il governo di Francesco V a Modena, ma senza che si ve-
rificassero nel suo dominio eventi di particolare rilievo se non per il progressivo e tur-
-Capitolo Primo: Il contesto storico
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bolento distaccarsi delle province di Massa e Carrara.
2
A Firenze il granduca Leopol-
do II mancò completamente al compito di recuperare la fiducia dei moderati che gli
avevano riaperto la via al potere. L’occupazione austriaca, la progressiva restrizione di
ogni libertà, l’abrogazione dello statuto, il mutamento in senso clericale della legisla-
zione ecclesiastica erano altrettanti fatti che dovevano approfondire il solco con gli
uomini dominanti il movimento costituzionale . Né il buon governo del Baldasseroni
bastava a disperdere la sensazione che il granduca governasse la Toscana come un
feudo dipendente da Vienna. Mancò una dura repressione. Anche i processi contro gli
uomini del 1849 si svolsero con relativa liberalità ed equità. Ci furono condanne miti,
seguite per lo più dalla concessione ai condannati ( come il Guerrazzi) di scegliere
l’alternativa dell’esilio. Eppure anche questo finiva per offendere le convinzioni inti-
me e le più profonde aspirazioni di chi concepiva una diversa organizzazione politica
del Paese, per cui veniva a cadere il vincolo di fedeltà che aveva in passato legato il
gruppo dirigente toscano alla dinastia lorenese e questo sempre più palesemente guar-
dava a Torino come al punto di riferimento dei destini italiani.
Pio IX era ritornato a Roma, restaurato dalle baionette francesi, in veste di pa-
cificatore più che di vendicatore. Ma la condizione di disfacimento sociale del suo
Stato e la crisi amministrativa ed economica che lo attanagliava lo condizionavano a
basare il proprio governo prevalentemente sulla forza dell’esercito di occupazione. Il
papa si volgeva dunque ai problemi spirituali, affidando il governo delle cose tempo-
rali al cardinale Antonelli. Fu tentata una certa riorganizzazione amministrativa, se-
condo i desideri dei francesi, ma senza alcun risultato apprezzabile: la condizione dei
domini pontifici continuò a restare senza rimedio.
Né esisteva un corpo sociale omogeneo e capace di sostenere un processo di
ammodernamento. Le povere forze del partito moderato o quelle più risolute, ma al-
trettanto poco consistenti a Roma ( più forti nelle province), del partito repubblicano
erano disperse da una severa repressione vendicativa. Sebbene manchino dati precisi,
alcuni autori fanno salire a circa diecimila il numero delle persone incarcerate negli
Stati romani all’indomani del 1849. Centinaia di processi furono aperti e severe con-
danne furono comminate, ma in genere con commutazione delle pene più gravi. Que-
ste persecuzioni servirono per stroncare l’organizzazione segreta mazziniana, ma non
per restituire al governo pontificio un’autorità che esso non aveva più e per esercitare
2
C. PECORELLA, Lo stato d’assedio a Parma nel decennio risorgimentale in “ Studi parmensi”, 1960
pp. 363-379;
-Capitolo Primo: Il contesto storico
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la quale poteva contare solo sulla collaborazione di una categoria dei suoi cittadini: gli
ecclesiastici.
3. Ottuso isolamento e fatale involuzione del regno delle Due Sicilie.
Ferdinando II seguiva, con cieca determinazione, nel governare il suo regno, la
strada imboccata il 15 maggio 1848. Egli non revocò mai formalmente la concessa co-
stituzione, ma non per rispettarne in qualche modo lo spirito, bensì per voluta indiffe-
renza verso la necessità di un gesto formale. Il re delle Due Sicilie diffidava profon-
damente della borghesia del suo regno, considerandola la principale responsabile del
traviamento rivoluzionario; ma diffidava anche della borghesia agraria provinciale,
che aveva mostrato di desiderare una più diretta partecipazione alla vita politica del
Paese. Per colpire questi avversari Ferdinando II usò ogni mezzo. In materia di politi-
ca agraria delineò una traccia demagogica che faceva leva su un sottoproletariato rura-
le miserrimo, ma non colpito dalla pressione fiscale e ignaro dell’esistenza di
un’organizzazione produttiva diversa. Contro la borghesia intellettuale usò la persecu-
zione politica e per alcuni anni fece inscenare, a Napoli e nelle province, una serie di
processi in virtù dei quali furono incarcerati centinaia di esponenti politici del regno,
al punto da distruggerne definitivamente la consistenza come gruppo sociale capace di
un modo di sentire autonomo, ma congiuntamente da segnare il definitivo divorzio tra
la dinasta borbonica e la borghesia dell’Italia meridionale.
I più importanti di questi processi furono quelli intentati per i fatti del 15 mag-
gio 1848 e quello detto della” Setta per l’Unità italiana”. Dal 1849 al 1853 durarono le
istruttorie che portarono in carcere uomini quali: Carlo Poerio,Luigi Settembrini, Fi-
lippo Agresti, Michele Pironti, Antonio Scialoia, Silvio Spaventa, Pier Silvestro Leo-
pardi, mentre Pasquale Stanislao Mancini, Giuseppe Massari, Ferdinando Petruccelli,
Giovanni La Cecilia, Benedetto Musolino, Giuseppe Ricciardi e altri furono processati
in contumacia. Le sentenze furono severe, ma la condanna capitale fu sempre commu-
tata in pene carcerarie e così gli uomini migliori di Napoli furono mandati nelle pri-
gioni del regno: l’ergastolo di Santo Stefano, quello di Nisida,di Ischia, legati ai ferri
come delinquenti comuni. Fu in queste galere che li visitò ( nel 1851) William Gla-
dstone, l’uomo politico inglese agli inizi allora della sua carriera pubblica, rimanendo
scosso profondamente dalla narrazione dell’illegalità patite dai prigionieri e dalle loro
condizioni di vita. Subito dopo il ritorno in patria Gladstone manifestò il suo sdegno
-Capitolo Primo: Il contesto storico
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con due lettere al primo ministro inglese lord Aberdeen, diffuse in migliaia di copie e
tali da far cadere sul governo napoletano le indignate proteste e le reazioni
dell’opinione pubblica di tutta l’Europa.
Si preparava in quel modo anche l’isolamento diplomatico che doveva riuscire
poi fatale al regno borbonico. Ferdinando II viveva, infatti, in un crescente isolamento,
di cui, però, non si rendeva conto e nel quale egli perdeva la collaborazione di coloro
che gli erano stati più ostinatamente fedeli: come il principe Carlo Filangieri, che va-
namente cercò di restaurare in Sicilia non solo un governo militare, ma anche un go-
verno capace di migliorare le condizioni di vita nell’isola. Il risultato di questo atteg-
giamento era il progressivo isterilirsi della vita economico-sociale del regno. Negli
anni 1848-1860 ha scritto Francesco Saverio Nitti, Ferdinando II, governò “ senza
guardare all’avvenire, senza aver vedute, senza prospettive”.
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La vita agricola languiva in condizione statica; quella industriale isterilivasi,
preparando un’amara eredità per il futuro. Non desta dunque meraviglia che coloro i
quali speravano in un diverso modo di vivere guardassero all’esempio piemontese.
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F.S.NITTI, Scritti sulla questione meridionale, vol. I (Il Meridione nella storia d’Italia), Bari, 1958,
pp. 130-132