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INTRODUZIONE
Il presente lavoro nasce, in un certo senso, come risposta ad una sfida. Ad una sfida lanciata, più
esattamente, da un testo: un testo incontrato per caso sugli scaffali di una “bancarella” per la vendita
dei libri. Il testo era Il codice dell’anima, di James Hillman, un autore allora a noi sconosciuto (e,
abbiamo scoperto, tutto sommato à la page, vista la sua notevole visibilità editoriale). Sfogliando il
libro, al primo contatto, ne abbiamo subito un certo fascino e, al tempo stesso, confessiamo, un
certo senso di scetticismo: era infatti un periodo in cui dilagava una certa fastidiosa moda
(commerciale?), nell’immaginario collettivo, di raffigurare “angeli”, putti (calendari, posters,
agende, cartoline, etc.). Ora, proprio in tale libro, nonostante la bibliografia e le note di copertina,
nonché una prima approssimativa lettura, mostrasse la “serietà” e la “profondità” dell’autore, il
tema principale era proprio quello del daimon, del “genietto”, insomma dell’”angelo protettore”. E
qui abbiamo ricevuto, quasi immediatamente, la “sfida”: approfondire un autore sconosciuto, il suo
discorso e la sua “tradizione” di appartenenza (altrettanto sconosciuta: la “psicologia analitica”,
nonché la “filosofia dell’immagine” e del “mito”), per verificarne la “consistenza” (ovviamente a
partire dalle proprie conoscenze e preferenze filosofiche).
Abbiamo così scoperto che Hillman è il maggiore allievo di Jung, direttore dell’omonimo istituto, e
fondatore della “psicologia archetipica”, importante corrente psicanalitica (denominata anche
“psicologia culturale”, per l’insostituibile importanza che tale indirizzo assegna alla “cultura”:
letteratura, mitologia, religioni, filosofia, storia dell’arte) complementare e per molti versi
contrapposta alla scuola “freudiana”, e collaboratore (spesso amico) di alcuni dei più stimolanti
autori contemporanei di discipline umanistiche
1
.
Sorprendentemente, poi, abbiamo scoperto che, nonostante Hillman sembri essere un autore molto
letto, scarsissime (per non dire nulle) sono le letture critiche a lui indirizzate, e spesso assai
deludenti dal punto di vista teorico: sembra che Hillman sia o osannato in maniera pressoché
acritica dai suoi fans (lettori comuni o psicoterapeuti) o pesantemente frainteso dai filosofi (o
comunque dai lettori “colti”, che raramente ne conoscono tutta la proficua produzione, e che
sembrano non prestare attenzione alle stimolanti e corpulente indicazioni bibliografiche che
concludono i suoi lavori).
Abbiamo allora intrapreso un’indagine teoretica, conoscitiva ed interpretativa dell’opera di Hillman,
sollecitandola, interrogandola e forzandola a rispondere a delle domande filosofiche, sia
mettendone in relazione l’opera con altri autori, appartenenti a tradizioni diverse dalla sua, sia
sviscerando i suoi presupposti filosofici, magari estremizzandoli o ricavandoli direttamente dagli
autori che li hanno ispirati.
Si è avuto così che l’iniziale, immediato, “disappunto” provocato dalla pagina hillmaniana derivava
soprattutto dal fatto che lo stile di Hillman è, nelle parole stesse dell’Autore, polemico, fortemente
critico nei confronti dell’intero impianto teorico (e pratico: psicologico) della tradizione
razionalistica occidentale e, al tempo stesso (e proprio per questo), imagistico, metaforico, e
ironico.
In tale atteggiamento polemico e critico, Hillman affronta più o meno direttamente grandi temi
(problematici) quali il destino (e la provenienza) della ratio (e la sua problematica derivazione dal
mito, quindi la relazione possibile con questo), il nichilismo, l’umanismo (e la necessità del suo
“superamento”), l’intero senso e possibilità globali della psicanalisi, la necessità di una
“cosmologia”, una certa “fuga dall’Occidente” (con il relativo dilagare di “sotto-“ o “pseudo-“
culture: “pop”, “new age”, e orientalismi vari), il fondamento dell’etica. Certo, tali problemi
1
Ad esempio in quell’eccezionale ed affascinante koiné culturale creata dagli autori,di estrazioni diversa
ma uniti da una “comunità di spirito” che si riunivano periodicamente negli incontri della fondazione
Eranos di Ascona.
4
vengono affrontati nello stile proprio (“psicologico”) dell’autore; ma, nel nostro lavoro, vedremo
come questo stile, “metaforico” ed eclettico, di ampio respiro, sia, oltre che a suo modo
affascinante, in un certo senso criticamente necessario dati i suoi stessi presupposti teoretici.
Nessun autore dice “la Verità”, tanto meno un autore fortemente critico verso l’idea stessa di una
verità; l’opera di Hillman, vedremo, si muove “di fianco” a varie posizioni filosofiche-critiche, che
promuovono un ripensamento dei presupposti teorico-filosofici della nostra tradizione culturale,
all’interno della quale identificano un filone principale
1
(caratterizzato da aspetti diversi, a seconda
dei punti di vista da cui lo si guarda, ma profondamente solidali tra loro: metafisico, teologico,
tecnico, capitalistico); filone che, per lo più in maniera “inconscia”, pre-domina e pre-determina la
nostra cultura (la nostra psiche), prima, e la nostra vita (individuale e comunitaria) poi
2
.
Allora, ad un certo punto, non si tratterà tanto di riconoscere dettagliatamente filiazioni o di
determinare gerarchie di merito, quanto, con Hillman, attraverso e oltre Hillman, di articolare con
una sufficiente profondità critica una trama di questioni e di domande ritenute da Hillman stesso
radicali sul nostro presente. Tenderemo allora a leggere la costitutiva ambiguità, la continua
oscillazione tra una dimensione “psicologica” ed una “ontologica” e “metafisica” del discorso di
Hillman, piuttosto che come una “debolezza” dello stesso, come una “ricchezza”, come la cifra
specifica di un’ottica critica proprio nei confronti degli eccessi dell’attività di “divisione” e di
astrazione della razionalità “scientifico-oggettiva”; si avrà così una interconnessione ed uno
scivolamento continui dalla soggettività (intimista) individuale, all’anima, al cosmo.
1
Forse, talvolta, anteponendo la verve polemica alla “prudenza” filologica: ma, una volta definiti
criticamente dei limiti operativi, tendenti ad evitare i rischi di un’ermeneutica eccessivamente
“disinvolta”, è mai possibile una lettura filologica assolutamente definitiva? E a cosa servono i risultati
dell’indagine storico-filologica se non vengono in alcun modo fruiti, dialettizzati?. La polemica che torna
sovente tra “teorici puri” e storici della filosofia (così come il dibattito avutosi pochi anni fa tra
“moderni” e “postmoderni”), tranne eccessi evidentemente sgradevoli o ingenui scavalcamenti di
competenze, è infondata: ognuno ha bisogno dell’altro, non c’è mai un “grado zero” del “dato”, e si è
sempre nell’interpretazione (che poi si abbiano dei lavori “brutti”, limitati, irresponsabili o superficiali,
questo è un altro fatto, e sono semmai proprio questi aspetti che vanno affrontati criticamente).
2
In realtà, il “prima” ed il “poi” hanno senso solo se la priorità è data ad un punto di vista piuttosto che ad
un altro. L’ottica che qui adottiamo, e che crediamo sia presente in Hillman, è quella della correlatività
costitutiva di aspetti comunemente ritenuti separati: individuo/società, uomo/mondo, spirito/materia,
soggetto/oggetto, etc.
5
PSYCHE
1.1 Sguardi metapsicologici e "duplicità" della psicanalisi: dove siamo
1.1.1 Tradizione e 'sintomo'
Iniziamo questa ricognizione su alcuni degli argomenti più importanti del dibattito filosofico
contemporaneo partendo da una presentazione critica della situazione e del significato attuali della
psicanalisi e della psicologia in generale (intendendole da qui in avanti come sinonimi e
prescindendo dalle loro differenze interne e reciproche).
Il motivo di ciò sta nelle caratteristiche proprie di quello che sarà l'interlocutore privilegiato e,
almeno fino ad un certo punto, la guida del nostro discorso: James Hillman. Questi, infatti, si
potrebbe definire principalmente (ancorché riduttivamente, e ne vedremo il perché) come uno
psicologo, di formazione junghiana.
E proprio data questa connotazione 'psicologica' hillmaniana, iniziare trattando di argomento
psicologico potrebbe sembrare una scelta obbligata, ma con la necessità di alcune importanti
precisazioni.
Innanzitutto, infatti, inquadreremo Hillman, più che come mero psicologo, come critico profondo e
perspicace della psicanalisi stessa, accomunandolo a quel movimento teorico (che in realtà
movimento non è, almeno non nel senso di 'unitario' e 'compatto', data la forte personalità culturale
dei suoi rappresentanti maggiori) denominato Antipsichiatria.
E questo inquadramento avverrà, se ci è concesso, istituendo un'equazione, forse parziale ma
funzionale ai nostri scopi:
Antipsichiatria : psicanalisi (psichiatria) = psicanalisi (inconscio) : (storia della) ratio.
Il senso di questa equazione è, per il momento, quello di mostrare, sottolineando l'opposizione
contenuta nel segno ':', quello che si potrebbe definire (prendendo in prestito una terminologia già
ben attestata) 'il movimento interno della cosa stessa (del pensiero)'. E cioè, esibire l'articolazione e
la trasformazione ('crescita' è concetto ormai inadeguato) del pensiero come serie ininterrotta (e
virtualmente infinita) di opposizioni dialettiche, miranti ognuna a smascherare o pure solo a
completare criticamente (e i due aspetti non sono necessariamente in contraddizione tra loro) il
pensiero a cui rispettivamente si rivolgono.
Leggeremo infatti l'opposizione antipsichiatrica come un momento chiave nella crisi storica
dell'apparato tecnico-teorico occidentale; momento in cui, per una proficua confluenza di pratiche e
saperi di de-costruzione di diversa provenienza, tale crisi è criticamente ben focalizzata, come lo
sono pure le possibili vie di uscita e superamento della stessa.
Sottolineiamo qui però come pure l'adozione da parte nostra di un'ottica ti tipo psicanalitico (in
quanto temporanea e limitata ad evidenziare certi problemi più generali), non comporta che il nostro
discorso sia di tipo psicologico, ma filosofico.
Hillman stesso, infatti, certo 'nasce' come psicologo, ma lungo tutta la sua opera non si stanca mai
di rivolgere critiche profonde e penetranti alla psicanalisi, così come all'ossatura teorica di tutta la
6
tradizione occidentale stessa, proprio in quanto entrambe costruite sugli stessi presupposti
razionalistici limitati e limitanti gravemente la libertà dell'anima e delle sue manifestazioni.
L'antidoto a questa repressiva aridità costitutiva sarebbe dato, secondo Hillman, dalla rivalutazione
dell'immaginazione come modalità esperenziale alternativa ed in un certo qual modo superiore alla
razionalità tecnico-scientifica logico-formale (anche se a questa pur sempre complementare).
Così, la riapertura di una strada verso l'immaginazione sarebbe sì maturata e stata offerta dalla (e
nella) psicanalisi nel secolo scorso (in particolare da Jung) ma a delle condizioni: innanzitutto a
patto di porre degli attenti 'distinguo' tra i diversi autori (e magari all'interno del pensiero di uno
stesso autore) cercando di ben identificare e salvaguardare un quid specifico della psicanalisi
proprio come strumento in un certo senso 'eversivo' rispetto all'ottica di pensiero dominante. Proprio
gran parte della psicanalisi, infatti, per Hillman, non farebbe altro che riproporre delle modalità e
delle pratiche repressive perpetrando e perpetuando una certa idea di 'razionalità' come anestetico
mascherato da panacea. Al tempo stesso, si mostrerà come questa possibilità 'eversiva' e 'trasversale'
rispetto ad un certo ordine 'razionale' (e a certi 'ordini' da sempre 'razionalmente' impartiti) abbia
delle radici e degli antecedenti in diversi ambiti spazio-temporali, in certe tradizioni di pensiero ed
in certe pratiche magari molto antiche; e di come non abbia tanto a che vedere con ridondanti
superficialità di tipo nichilistico (magari alla moda), ma con un globale compito del pensiero che
possa portare ad una (nuova) libertà del e dal pensiero stesso.
Evidenziando, sia pur entro certi limiti, in quali modi e forme il 'discorso della ratio occidentale' si
sia in realtà costituito istituendosi come unico (monologo) possibile già dalla sua scaturigine greco-
antica, proprio nel suo prendere le distanze da altre pratiche in seguito 'rinnegate' e 'rimosse'.
Certo, essendo l’intento del nostro discorso essenzialmente filosofico, questo ha da confrontarsi,
accogliendole, con le opposizioni alla ratio provenienti dalla psicanalisi come ‘altro’ della ragione
filosofica: le cose, allora, paiono complicarsi un po’. Si pone infatti già qui un problema importante
che situa subito la psicanalisi in un ambito più grande ed essenziale di quello a cui comunemente
(ma si direbbe: ideologicamente) viene attribuita in quanto, ad esempio, 'tecnica di guarigione'. Un
ambito in cui concetti apparentemente chiari e 'già dati' vengono scoperti portatori di grande
problematicità.
In tal senso, viene posta subito un’imprescindibile esigenza (metodologica e contenutistica al tempo
stesso) di demarcazione dei vari ambiti (ad es.: scientifico/ideologico, psicologico/metapsicologico
o filosofico, etc.), che è tutt’uno col lavoro stesso della ragione filosofica.
Si sente spesso dire, infatti: 'psicologia', o meglio, 'psicanalisi come il sapere del XX secolo'. Ma in
che senso sarebbe condivisibile un’affermazione simile? Nel senso, ad esempio, del XX secolo
come di un secolo in cui l’uomo ha trovato la (sia pur condizionata) risoluzione 'scientifica' a
(potenzialmente) tutti i problemi grazie a degli incontri settimanali con degli specialisti che (in
cambio di denaro) gli mostrano le verità più profonde su se stesso, e che egli (tutti noi) non riesce a
vedere da solo? E quindi di un secolo in cui è più vicina la possibilità di essere liberi e felici,
intervenendo sulla propria capacità di provare piacere e dolore e di adattarsi al mondo? (E proprio
nel momento in cui la capacità di plasmare il mondo 'esterno' sembra aver raggiunto il suo massimo
storico?).
Ad una prima lettura, potrebbe, ad alcuni, sembrare che le cose stiano proprio così. Pare arduo
crederlo. Eppure, affermazioni come quelle che precedono hanno una loro verità, ma che va
rintracciata in una lettura 'seconda' che partendo dalla 'prima' mostri come quest’ultima sia
surdeterminata da ragioni più profonde e 'nascoste'; il sistema di sapere e potere che ci portiamo
'addosso' da secoli non rende 'vero' che oggi si abbiano finalmente degli specialisti dotati di una
'tecnica' che possa 'guarirci l’anima', ma rende possibile che si possa credere ciò e che lo si creda
effettivamente.
7
E cioè: è vero che la psicanalisi è il sapere del XX secolo in quanto porta ad esemplare compimento
la tendenza prevalente della stessa tradizione (filosofica, metafisica) dell’Occidente - la conoscenza
(oggi tecnico-scientifica) della Verità degli oggetti del mondo, tra cui, in ultimo, quell’'oggetto'
(particolare) che è l’uomo. Compimento esemplare in quanto, proprio il rivolgersi a questo 'oggetto'
ha portato a delle scoperte (la più importante, forse, l’inconscio, col suo proprio linguaggio) che
hanno evidenziato i limiti e la forte problematicità dello stesso sguardo (metafisico-scientifico)
occidentale aprendo così la porta ad una pluralità di smascheramenti e visioni de-strutturanti in
ambiti diversi (e questa apertura è chiara criticamente almeno già sin da Husserl e dalla psichiatria
di stampo fenomenologico).
Non è qui il caso di fare una rassegna dei vari atteggiamenti critici (dai più 'moderati' fino a quelli
più 'irrazionalisti' e dichiaratamente 'nichilistici') che si sono avuti negli ultimi due secoli nei
confronti della tradizione scientifico-filosofica occidentale, né di utilizzare unilaterali e troppo
semplificatrici filosofie della storia, o prendere parte 'pro' o 'contro' 'la' tradizione filosofica (intesa
come un blocco monolitico), nella quale si è inscritti e con le cui trame si ha comunque da misurarsi
criticamente.
Seguiremo piuttosto un percorso liberamente tematico, spesso per giustapposizioni, che cercherà nel
suo svolgimento, come in una composizione polifonica contrappuntistica, di valorizzare, oltre alle
singole voci, l'interconnessione, magari dissonante, delle stesse, cercando di stimolare e mantenere
uno sguardo 'duplice' sulle cose che sappia rendersi conto ad esempio che, (mantenendo la metafora
musicale), le 'dissonanze' del contrappunto 'diventano' tali (e quindi 'inaccettabili') solo in seguito
alla nascita dell'armonia come nuova organizzazione teorica del materiale sonoro mirante a
regolamentare i suoni riconducendoli ad un unico principio. In tal senso, andremo a costituire una
mappa problematica di riferimento, affrontando autori di estrazioni diverse che ci aiuteranno ad
organizzare un discorso coerente, la cui voce principale sarà quella di colui che è stato definito un
'eretico' (della psicanalisi, ma non solo) quale James Hillman. Ed è proprio per questo che apriamo
con un discorso di tipo psicanalitico: l'itinerario qui prescelto partirà dal 'problema' psicanalisi per
'superarlo' ed allontanarvisi, argomentandone criticamente le ragioni.
Più che seguire una corrente, ritaglieremo uno spazio muovendoci nell’ambito dell’importante (e
per noi imprescindibile) mutamento di stile (ma non solo di stile) rinvenibile nel migliore fare
filosofia odierno; uno stile che, pur mantenendo i tratti di ampiezza e profondità tradizionali
dell'Occidente pensante, vi si riferisce in modo nuovo: non più possesso-appropriazione delle
verità-essenze ultime, eterne ed immutabili delle cose, ma critica incessante ed apertura radicale
all'altro, al 'differente'. Ed in ciò, anche un ri-pensamento delle proprie origini: quella che è stata
definita la necessità di un pensiero post-metafisico.
Ci pare che sia in quest'ottica, ad esempio, che da più parti si ritorna orri, sintomaticamente, a
studiare e reinterpretare gli aspetti ed i momenti più fortemente critici, di tensione, della storia del
pensiero in ogni epoca: scetticismo come momento propulsivo del sapere; cinismo antico come
critica del sapere oggettivante logico-formale e come esibitore di una verità altra, di tipo pratico e
corporeo; sofisti considerati come maestri di etica e democrazia in quanto praticanti la molteplicità
di punti di vista e quindi iniziatori del prospettivismo; pratiche e saperi esoterici come custodi di
una saggezza profonda ed arcaica, che avrebbero contribuito in maniera determinante al processo
democratico moderno; e addirittura mistica cristiana come 'esercitazione' alla dialettica che poi in-
formerà Hegel e sfocerà nel pensiero rivoluzionario marxiano.
Queste figure ritornano non (più) come limitati e magari 'fastidiosi', 'ottusi', più 'bassi' intralci sullo
splendente percorso del Sapere, ma come momenti comunque costitutivi, se non fondanti (magari
proprio dove si pongono con maggior veemenza demolitrice) la più autentica pratica filosofica
stessa. E questo, inevitabilmente, in un confronto critico, dialettico ed ermeneutico con la tradizione
e con la sua riattualizzazione che offre unioni e scontri. La nostra visione della storia ricalcherà
quella junghiano-hillmaniana della psiche (individuale come pure 'universale') come di un 'teatro' in
8
cui una molteplicità di persone ('figure') lottano continuamente per il proprio riconoscimento e per
la conduzione dell'azione, tentando di impedire il predominio di una parte sulle altre; e della 'salute'
come di un equilibrio dialettico (e mai 'facile' e 'piano', o ottenibile una volta per tutte) delle
esigenze delle stesse.
1.1.2 Lo sguardo 'differente'
Nel nostro lavoro 'intorno' alle problematiche hillmaniane utilizzeremo, senza insistervi troppo ma
mantenendoli come sfondo silenzioso e comunque significativo, alcuni esiti della più recente
riflessione europea, in particolare francese.
Pur nel suo evidente e mai sconfessato debito junghiano (peraltro assolto mediante una personale e
consapevole rielaborazione critica), Hillman è un pensatore assolutamente eclettico ed al tempo
stesso originale ed autonomo; proprio per questo, a nostro avviso, quelli che potrebbero essere
stigmatizzati come i punti di forza del suo lavoro potrebbero costituire i suoi stessi punti 'deboli'.
Questo nel senso che Hillman ha affrontato nella sua opera un gran numero di problemi molto
importanti facendosi guidare dal suo stile personale fatto di brillanti intuizioni, di ironia ed
umorismo, di pungenti polemiche e di una deliberata antisistemicità ed antisistematicità; questo
stile, strettamente dipendente dai contenuti dello stesso, conferisce ai suoi lavori una scorrevole
levità anche nel trattare questioni cruciali. Proprio in virtù di questo aspetto dello stile hillmaniano
ci sentiamo portati ad affiancare al commento del detto del nostro Autore quello di altri, nell'intento
di evidenziare, approfondire e far riverberare, dello stesso, punti critici, aspetti impliciti ed aperture
possibili non chiaramente evidenti ad una prima lettura.
Prenderemo allora uno spunto da Derrida, in particolare da un suo breve e significativo saggio-
conferenza su Foucault (ma più in generale sulla psicanalisi ed i suoi rapporti con la filosofia).
In questo lavoro
1
Derrida, parlando della Storia della sessualità di Foucault, riprende di questi l'idea
di "storia della verità" come storia delle "problematizzazioni attraverso le quali l'essere si dà come
ciò che può e deve essere pensato….”; e ricordando le "pratiche a partire dalle quali queste
problematizzazioni si formano"
2
, sottolinea la necessità che si ponga però anche la
problematizzazione della propria problematizzazione.
A questo proposito sempre Derrida, nella postfazione alla conferenza La différance, alla domanda
se la sua filosofia fosse uno scetticismo, rispondeva: “Non è certo uno scetticismo […] resta il fatto
che i momenti dello scetticismo e dell’empirismo sono sempre stati momenti di attenzione alla
differenza" e ricordava Hume come autore di una sorta di filosofia della differenza, anche se "si
possono considerare i momenti empiristici o scettici della filosofia come momenti in cui il pensiero
incontra il limite filosofico e si ripropone ancora come filosofia”
3
. Derrida si dice quindi (ci si passi
il termine) scettico di fronte alla possibilità di una filosofia scettica, in quanto essa sarebbe ancora
una filosofia, interna al dire della tradizione metafisica che “si concludeva, o come si dice, si
compiva”
4
con Hegel facendo 'coagulare' in se stessa il concetto di différance, il cui pensiero
sarebbe invece una filosofia-non-filosofia situata in un “frammezzo scomodo”
5
; e ancora, Derrida,
1
J Derrida, Essere giusti con Freud, MI, Cortina, 1994.
2
M. Foucault, L'uso dei piaceri, MI, Feltrinelli, pp. 16-18, passim.
3
J. Derrida, "Prologo" a "La Diffèrance", in C. Di Martino, L'evento, la traccia e l'esperienza, MI, Cuem,
1992, p. 147, passim.
4
Ivi, p. 150
5
Ivi, p. 148
9
parlando di Hegel, sostiene la necessità oggi di "legare il pensiero della fine della metafisica e il
pensiero della différance."
1
Ed il pensiero della fine evoca il pensiero dell'inizio (e l'inizio del pensiero). Lo stesso Derrida
aveva detto: “Sì, vi è molto di antico in ciò che ho detto. Tutto, senza dubbio. E' a Eraclito che mi
sono riferito in ultima istanza", anche se poi sembrerebbe quasi scusarsi: "Ma la differenza tra
l’antico e il nuovo è l’ultima pertinenza?”
2
.
E sempre riguardo alla tradizione filosofica vista non come un tutto unico immobile ma come
tensione dialettica e apertura alla differenza, ancora Derrida, nel lavoro su Foucault, scrive in una
nota: “Potere, autorità, sapere e non-sapere, legge, giudizio, finzione, credito, traslazione: da
Montaigne a Pascal e ad alcuni altri, si riconosce la stessa rete di una problematica critica, di una
problematizzazione attiva, vigilante, ipercritica. E' difficile assicurare che l’'età classica' non abbia
tematizzato, riflesso e allo stesso tempo dispiegato i concetti dei suoi sintomi: i concetti che si
volgeranno più tardi verso i sintomi che si crederà di poterle un giorno attribuire”
3
.
La nota in cui Derrida si riferisce a Montaigne e a Pascal è inserita in un punto del suo lavoro già
citato in cui si parla del credito accordato ad una finzione che diventa 'fondamento mistico' del
funzionamento dell’autorità delle leggi e dell’autorità 'taumaturgica' dello psicanalista-medico;
autorità che gode, necessariamente, della complicità del malato.
Gli autori che hanno mostrato chiaramente come le convinzioni etico-politiche, scientifiche e
filosofiche siano in realtà surdeterminate da altre motivazioni spesso nascoste sono molti, primi fra
tutti forse nel panorama contemporaneo, i tre autori significativamente definiti da Ricoeur maestri
della 'scuola del sospetto': Nietzsche, Marx, Freud.
Fra gli altri vi è pure Foucault, il quale ad esempio scrive che l’analista, pur avendo liberato i malati
di mente “da quell’esistenza manicomiale alla quale l’avevano condannato i suoi 'liberatori' […]
non l’ha liberato da ciò che vi era di essenziale in quell’esistenza; ne ha raggruppato i poteri e li ha
tesi al massimo, annodandoli tra le mani del medico;” determinando “la situazione psicanalitica, in
cui, per un corto circuito geniale, l’alienazione diventa disalienante, inquantoché nel medico essa
diventa soggetto. Il medico come figura alienante, resta la chiave della psicoanalisi” la quale “non
può e non potrà ascoltare le voci della sragione né decifrare per se stessi i segni dell’insensato”
rimanendo “estranea al lavoro sovrano della sragione": "non può né liberare né trascrivere né, a
maggior ragione, spiegare ciò che vi è di essenziale in questo lavorio”
4
.
Parole pesanti queste della Storia della follia di Foucault, che impongono la necessità di un
confronto con esse per chiunque abbia a che fare con argomenti psicanalitici.
Derrida riprende questa (ed altre) affermazione di Foucault nel saggio citato, in cui affronta
estesamente il problema di Foucault e dell’atteggiamento oscillante ed ambivalente che questi
riserva a Freud (ed alla psicanalisi), considerato in alcuni passi della sua opera come colui che ha
aperto la possibilità alla follia di pervenire al linguaggio, in altri invece come un mero
rappresentante della tradizionale strategia di connivenza di sapere e potere che ha deciso ed operato
l’esclusione repressiva della follia (e delle sue 'ragioni').
In questo lavoro Derrida sposterà (sia pur con un 'probabilmente') quelle ambivalenze e quegli
aspetti contraddittori dall'opera di Foucault alle "cose stesse, se così si può dire"
5
, lasciando
trapelare che Foucault in realtà sollecita inconsciamente queste contraddizioni, mettendole in opera
nella sua pratica teorica senza vederle chiaramente nella sua teoria.
1
Ivi, p. 150
2
Ivi, p. 147
3
J. Derrida, Essere giusti con Freud, op. cit., p. 94
4
M. Foucault, Storia della follia nell'età classica, MI, Rizzoli, 1997, P. 437, passim.
5
Ivi, p. 65.
10
E' evidente qui un problema importante: quello del 'luogo' in cui ed a partire dal quale è situato e
possibile uno sguardo 'differente', 'altro', su quella tradizione razionalistica all’interno della quale,
inevitabilmente, quello sguardo stesso si rende possibile e da cui vuole allontanarsi più o meno
radicalmente (e quindi: quanto radicalmente? In che modo?).
Derrida infatti rileva che le ambivalenze e le contraddizioni ravvisabili in Foucault possono essere
viste nella loro propria luce se si considera che 'la' psicanalisi (posto che essa esista in termini tanto
generali) che Foucault talvolta colpevolizza non è l’oggetto che Foucault 'trova' indagando nella
storia (della repressione) della follia, o almeno non solo quello; essa è il luogo (si direbbe: u-topico,
'senza luogo') da cui Foucault stesso guarda proprio in quanto quello stesso luogo gli permette di
guardare così e che perciò lo condiziona nelle sue ambivalenze e contraddizioni riguardo il suo
oggetto (la follia e la ragione) ed il suo metodo (di Foucault, ma anche di Freud) che diventano,
sono tutt’uno.
Per Derrida la duplicità sarebbe già insita, costitutivamente, in Freud, almeno a partire
dall’introduzione (in Al di là del principio di piacere) della 'forza del negativo', la morte. Derrida
considera Freud (e la psicanalisi) come una 'cerniera tecnico-storica', quindi; come cardine, perno,
custode e guardiano tra due epoche della follia, inizio e fine di una doppia serie e, proprio per
questo, creatore di aporie che “sono tutto tranne che impasses accidentali che occorrerebbe tentare a
ogni costo di forzare secondo modelli teorici ricevuti. La prova di queste aporie è anche la
possibilità del pensiero”
1
.
Dunque, la psicanalisi come sapere duplice, doppio, di confine, che invita a stare nel, sul limite che
la definisce e che essa stessa costituisce.
1.1.3 'Radici' mobili
Sempre a proposito del rapporto e delle (im-)possibilità tra linguaggio (pensiero) ed essere, ci sia
concesso un breve excursus su quelli che sono ritenuti i fondamenti della razionalità occidentale.
Nel volume su Eraclito dell'ambiziosa serie Le radici del pensiero filosofico dell'Enciclopedia
multimediale delle scienze filosofiche, ad esempio, l'Autore conclude rilevando un paradosso: il
paradosso della riscoperta e rinnovata importanza dell'efesino (un fondatore della filosofia) proprio
nel momento in cui la scienza (che l'Autore, accogliendo una affermata linea di pensiero, fa derivare
da Parmenide, l'altro fondatore della filosofia) "ha preso nella nostra vita un posto tale, che tutto il
resto rischia di passare al contorno. Paradosso perché […] fin dall'antichità [i due pensatori furono
contrapposti] come si contrappongono due colossi incompatibili e complementari. I seguaci di
Pitagora da un lato, e gli atomisti dall'altro, mostrarono che la forma logica di Parmenide non era
condannata all'identità astratta, 'l'essere è': era possibile usarla per dominare un divenire ricco e
vario, trattenuto tuttavia dalla legge nei confini d'una necessità inesorabile". L'Autore prosegue
sottolineando l'attualità della contrapposizione Parmenide-Eraclito nella nostra filosofia intesa però
come un utile, anzi necessario "distinguere per unire"
2
; e caratterizza le due figure come due modi
differenti di linguaggio, l'uno, Parmenide, come la forza del concetto operativo che fa presa sugli
oggetti, l'altro, Eraclito, che parla pur sempre delle "stesse cose di cui si occupa la scienza […]
eppure sembra trasfigurare […] e farne il segno di altro […] sotto un aspetto […] Senza il quale
1
Ivi, p. 36
2
V. Mathieu, "Eraclito", in AAVV., EMSF: Le radici del pensiero filosofico (1) , Roma, Istituto della
Enciclopedia Italiana, 1993, pp. 67-68, passim.
11
anche 'il più bello dei mondi', - il meglio ordinato scientificamente - resterebbe privo di senso,
'come spazzatura gettata a caso'"
1
.
Il discorso di Eraclito sarebbe "la via che conduce dal visibile all'invisibile [che] sono lo stesso, ma
secundum quid, non simpliciter […] E' un problema, insieme ontologico ed etico, che potremmo
chiamare 'del risveglio'"
2
.
In tempi recenti l'efesino è stato considerato 'primo psicologo dell'Occidente', Binswanger gli ha
dedicato un bel saggio, abbiamo visto il riferimento di Derrida e vedremo quale importanza ha la
sua figura nel pensiero di Hillman.
D'altro canto, nel volume (sempre della stessa serie) su Parmenide, viene proposta una lettura del
filosofo di Elea alquanto diversa da quella tradizionale (in cui si sarebbero avute interpretazioni
fuorvianti), che intendeva l'essere parmenideo come assolutamente 'uno e immobile', semplice e
assoluto, negatore della molteplicità degli enti che sono e dunque del mondo. Nel volume si
sottolinea come l'idea parmenidea dell'essere tenga invece "ferma la molteplicità delle forme, le
quali costituiscono i principi che devono giustificare l'articolazione del molteplice in tutti i suoi
aspetti […] dunque, in Parmenide la molteplicità è introdotta come originaria […] non solo l'essere
parmenideo vale come uno ma solo in quanto tutto, non come il semplice essere di stampo
melissiano"
3
. E più sopra: "[…] non solo l'essere, nella sua totalità, è espresso nel pensare e nel dire,
ma anche pensare e dire non sono altro che lo stesso essere nella sua manifestabilità ed espressione
[…] l'identità esprime questa assoluta coestensività e coappartenenza di pensiero e essere […] sulla
base [di ciò] in Parmenide si afferma sia la tesi che il simile conosce il simile, sia […] che in ogni
essere è presente il pensare, cioè non esiste alcun essere privo di conoscenza. Tesi che nel fr. 16
Parmenide esprime dicendo: il pieno è pensiero"
4
(si potrebbero rintracciare qui le radici
dell'hegeliano 'il reale è razionale, il razionale è reale' e di tutta la metafisica occidentale).
Alla fine del lavoro però, viene evidenziato come Parmenide sia "ambiguamente vissuto sia come
padre dell'attuale sbocco metafisico dell'Occidente, nella sua espressione scientifica ed economica
ad un tempo, sia come la riserva inesplorata per una svolta radicale". Dunque ancora "padre […]
inquietante", ancora "venerando e terribile" anche se dall'"incerta connotazione"
5
: una 'conclusione'
che è impossibile leggere in quanto tale, se non come il rilancio di un'apertura possibile.
Abbiamo così (accogliendo la definizione di Eraclito e di Parmenide come 'padri' dell'Occidente) un
autore, Eraclito, già definito 'oscuro' nell'antichità, che torna ad illuminarci proprio nel punto
definito ormai del 'crepuscolo' della nostra civiltà culturale ed un altro autore, Parmenide, che ha
dischiuso (o forse istituito) il 'luminoso' discorso sulla/della verità delle cose che ci ha caratterizzati
per così tanto tempo proprio come Occidente, che torna invece come 'problematico' e per molti
versi 'inesplorato'.
Parrebbe quindi che 'duplicità' e 'differenza', nel pensiero, non siano solo una scoperta della
psicanalisi, ma siano (e siano state) delle possibilità sempre presenti; anche se la psicanalisi (come
costitutiva di quella 'scuola del sospetto' a cui si è accennato) vi abbia contribuito notevolmente
evidenziando dei problemi importanti, quale ad esempio il rapporto con l'inconscio: se cioè lo
conosciamo come (radicalmente) altro, come possiamo conoscerlo o anche solo parlarne se non dal
nostro punto di vista (la ratio) che quindi appare inevitabilmente limitato ed inadeguato? Come
gestire questa differenza? Che significato attribuirle? Non sarebbe forse necessario un sapere che
abiti proprio questa differenza e che quindi differisca dalla nostra ratio senza però gettarsi in una
qualche oscura irraggiungibile e radicale alterità dai toni misticheggianti?
1
Ivi, pp. 68-69.
2
Ivi, p. 52.
3
L. Ruggiu, "Parmenide di Elea", in AAVV., EMSF: Le radici del pensiero filosofico (1), Istituto della
Enciclopedia Italiana, Roma, 1993, p. 74.
4
Ivi, p. 66.
5
Ivi, p. 96, passim.
12
1.1.4 Metafora, simbolo, immagine
A proposito di differenza ed inconscio accenniamo brevemente ad un elemento importante per la
nostra indagine: il metaforico contrapposto al letterale. Si può dire che questo è un aspetto chiave
dell'intero lavoro di Hillman e della prospettiva qui adottata. Vedremo come praticamente in tutta la
sua opera Hillman parla del 'letteralismo' come del male capitale dell'Occidente, attribuendogli
l'archetipo dell'Eroe apollineo, di Ercole, di colui che (in ognuno di noi) si ostina a voler vedere un
solo aspetto delle cose, e che passa subito all'azione, spesso unilaterale e violenta.
E' stata fatta risalire a Parmenide ed a Platone (da un punto di vista ontologico) e poi più
specificamente ad Aristotele (da un punto di vista più formale), con il suo studio e sistematizzazione
del linguaggio, la responsabilità di averci 'persuaso' che esiste un dire preciso e stabile, 'pubblico',
diretto e quindi corretto, che si riferisce puntualmente agli oggetti di volta in volta denotati e che ci
rende padroni e conquistatori degli stessi dal momento che riusciamo a 'ricrearli' e 'controllarli'
nel/col nostro linguaggio. Ed esisterebbe invece un dire metaforico che è un modo 'obliquo' di dire
le cose, ambivalente, oscillante e quindi illusorio, 'privato', impreciso ed errato.
Ma oggi possiamo sapere quanto ci sia stato di 'arbitrario' e 'convenzionale' in quell'atteggiamento
che istituendo il linguaggio 'scientifico' come proprio strumento ha escluso da sé (e quindi rimosso),
come suo antagonista ma anche come suo 'altro' proprio, il dire 'impreciso' della metafora, del
sogno, dell'arte
1
. E intravediamo, risalendo dagli aspetti propri del rimosso all'origine della
rimozione stessa e delle sue ragioni più profonde, quali vie di ricerca sono possibili per porsi 'prima'
e 'oltre' quel gesto escludente.
C'è infatti tutta una tradizione (e, forse, più d'una) che Hillman ha studiato e che, lavorando ai
margini della prospettiva letteralistica dominante (che ha permesso ed anzi promosso la volontà di
dominio tecnico-scientifico sul mondo, senza voler vedere quanto di magico essa stessa contiene),
pare abbia mantenuto viva questa 'eccedenza', questa doppiezza metaforica del dire tenendo aperti
degli spazi 'sintomatici'. Dalla gnosi al misticismo, all'alchimia, all'arte, fino al romanticismo, a
Nietzsche e a Freud (il cui concetto di inconscio è stato visto come un linguaggio funzionante con
modalità di tipo retorico).
'Metafora', quindi, sarebbe da intendere letteralmente come 'trasferimento', 'portare oltre' (e
'attraverso'), come movimento e spostamento (del senso).
Discorso analogo alla metafora, in quest'ottica, si può fare per simboli e immagini, esclusi dal
sapere 'corretto' e 'scientifico' che li ha 'inventati' come 'arcaici'. Simboli ed immagini sono invece
additati da Hillman e da molti altri autori come possibili veicoli di una modalità di conoscenza
'altra' rispetto alla razionalità tecnico-scientifica dominante.
Vedremo più avanti quanto possa essere illuminante uno sguardo teoretico e più approfondito
sull'aspetto di 'ambivalenza di senso' che riguarda la metafora e l'immagine, avvicinati proprio al
concetto di 'simbolo' inteso etimologicamente come 'mettere insieme'.
Vedremo anche quanto per Hillman (che, in tal senso, riprende gran parte del lavoro di Jung, il
quale introdusse addirittura l'importantissima idea di 'pulsione all'immaginazione', intendendo tale
funzione come una necessità e radicandola al livello più 'basso' e profondo dell'esistenza umana, al
limite tra lo psichico ed il fisico) sia importante il concetto di immagine e di immaginazione.
1
Cfr. A. Cazzullo, La verità della parola, MI, Jaca Book, 1987.
13
Binswanger ad esempio, a conclusione del suo saggio Sulla psicoterapia, dice: " […] giacché ciò
che in realtà facciamo con il nostro lavoro non si può vivere ed esprimere se non con
un'immagine"
1
.
Per il momento notiamo che le ricerche sulle immagini e sui simboli hanno rilevato come
addirittura il linguaggio, da sempre considerato come miracoloso capolavoro di ingegno umano in
quanto duplicazione-astrazione e 'purificazione' logico-formale del mondo e quindi sua migliore
'visione' (più pura e globale, dove queste due caratteristiche siano già considerati dei
miglioramenti); questa 'superiore' visione, comprensione e controllo, non è altro che una sorta di
'torsione' (guidata) di una più antica modalità di esperire il mondo. Modalità che era pratica e patica
di abitarlo con una più intensa ed emotiva partecipazione, in una gestualità (manifestativa di per sé)
che originariamente si esprimeva, affidandovisi, con l'immagine e col simbolo, nel dire-essere-
(originario)-di-(nel)-mondo. Una 'torsione' quindi (dell'attuale linguaggio 'astratto' che deriverebbe
comunque da quello simbolico conservandone ancora, sia pur 'segretamente', il senso profondo) che
per molti aspetti ha significato una violenza ed una perdita.
Quindi sappiamo oggi che ogni dire è metaforico. Ma, per essere intesa propriamente, questa
affermazione non va intesa in senso 'debole', e cioè: 'ci sono più modi di dire una cosa'. Perché sia
intesa adeguatamente, bisogna esaminarne le premesse ontologiche.
Ogni dire è metaforico ad esempio perché il linguaggio, in quanto Essere anch'esso, non può dire
(tutto) l'Essere, reduplicarlo 'as-traendosi' (via) da esso. E poi una parola non può indicare una cosa
e sempre e solo quella, per sempre, perché il cambiamento è 'nelle cose stesse'. Se l'Essere è in
divenire, anche il linguaggio lo è; e se gli enti 'si muovono' e 'divengono' incessantemente, senza
posa, come potremo avere noi una 'mappa' fissa, precisa ed immutabile di questo territorio
perennemente transeunte, eternamente immobile nel suo vorticoso fluire? Forse che ad essere fissa è
solo la mappa? E qual è il suo rapporto col territorio?
E poi, se i termini non denotano ognuno sempre necessariamente un oggetto ma (come sappiamo
dalla linguistica e dallo strutturalismo francesi) indicano 'arbitrariamente', e se il sistema dei
significanti è in qualche modo autonomo rispetto ai significati, si avrebbe ad esempio un altro modo
di vedere il linguaggio inteso come fenomeno globale, magari come funzione non 'comunicativa'
ma come puro 'evento' nel-(del) mondo.
In ambito psichiatrico, ad esempio, un gruppo di studiosi di Palo Alto
2
in conclusione del loro
celebre lavoro che ha per titolo proprio la Pragmatica della comunicazione umana, argomentano
della imprescindibile funzione psicologica ed esistenziale dei paradossi e dell'insolubilità del
"paradosso ultimo dell'esistenza umana"
3
: l'uomo come soggetto e oggetto della sua ricerca. Essi
citano prima Godel e poi il Wittgenstein del Tractatus Logico-Philosophicus, da cui fanno derivare
che "il mondo […] è limitato e al tempo stesso senza limiti, senza limiti proprio perché non c'è nulla
fuori e non c'è nulla dentro che possa costituire un confine"
4
. E poi, riprendendo alla lettera
Wittgenstein: "La logica pervade il mondo; i limiti del mondo sono anche i limiti di essa"
5
. E
ancora: "Il mondo e la vita sono tutt'uno. Io sono il mio mondo" e quindi "Il soggetto è non parte,
ma limite del mondo"
6
. E concludono: "non c'è nulla dentro uno schema [o un sistema formalizzato]
che possa asserire, o anche chiedere, qualcosa su quello schema. La soluzione, dunque, non sta nel
trovare una risposta all'enigma dell'esistenza, ma nel prendere atto che non c'è alcun enigma"
7
. E'
1
L. Binswanger, "Sulla psicoterapia", in Per un'antropologia fenomenologica, MI, Feltrinelli, 1989, p.
168.
2
P. Watzlawick, J. H. Beavin, D. D. Jackson, Pragmatica della comunicazione umana, Roma, Astrolabio,
1971.
3
Ivi, p. 265.
4
Ivi, p. 266.
5
L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, To, Einaudi, 1995, p. 88.
6
Ivi, p. 89.
7
P. Watzlawick, J. H. Beavin, D. D. Jackson, op. cit., p. 267.